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La centralità dell’accordo aziendale nell’elaborazione italiana delle origin

3.1. L’influenza tedesca e francese nella ricostruzione Giuseppe Messina

L’elaborazione dottrinaria che ha rappresentato il momento genetico nella discussione italiana sulla vincolatività dei «concordati di tariffa», (espressione successivamente sostituita con quella di contratto collettivo)407, è legata al nome di Giuseppe Messina. Quest’ultimo trasponeva nel diritto italiano – con importanti differenze – la teoria elaborata da Philipp Lotmar per l’ordinamento tedesco. Analogamente a costui, Messina riteneva che il contratto collettivo non costituisse una limitazione della libertà contrattuale diversa da quella, viceversa perfettamente accettata nell’ordinamento, contenuta nelle clausole di concorrenza408. Le parti ben avrebbero potuto, in conformità alle regole di diritto privato, vincolarsi ad una futura disciplina, da applicare nell’eventualità che venissero in essere contratti di lavoro subordinato fra datore e membri dell’organizzazione dei lavoratori parte dell’accordo. Il contratto collettivo avrebbe così potuto essere individuato nella regolamentazione che avesse per scopo quello di vincolare le parti non sul se ma sul come disciplinare future relazioni contrattuali – non determinate ma determinabili – di lavoro subordinato409.

406 Sinzheimer H., op. cit., 118.

407 Occorre precisare, nell’adottare tale denominazione oramai affermatasi nel linguaggio

giuridico, come per Messina contratto collettivo e concordato di tariffa non fossero sinonimi. Secondo la terminologia adottata dall’autore, per contratto collettivo avrebbe dovuto intendersi quel contratto con il quale una pluralità di lavoratori accettava un lavoro nei confronti di un unico datore. Si sarebbe trattato di un contratto del tutto assimilabile a quello individuale di lavoro, sul piano teorico, in modo simile a quanto la dottrina francese riteneva al tempo rispetto al contratto d’équipe, su cui si rinvia al capitolo sull’ordinamento francese. Viceversa, il concordato di tariffa non avrebbe individuato l’obbligo relativo all’offerta e alla domanda di lavoro, bensì «un metodo di contrattazione collettiva rispetto alle condizioni di lavoro», similmente, precisava l’autore, a quanto già sostenuto in Germania da Lotmar, così Messina G., Per il regolamento collettivo dei concordati di

tariffe, in Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 1986 [1907], 123-124.

408 Messina G., op. cit., 43.

409 Messina G., op. cit., 27, 41. Per Messina, il concordato di tariffa avrebbe dovuto essere

distinto tanto dal contratto individuale (atto a disciplinare condizioni attuali di lavoro fra parti stipulanti), sebbene stipulato da soggetti plurimi, quanto da predisposizioni unilaterali di disciplina per i futuri contratti di lavoro predisposte dal datore, da una cooperativa o da soggetti terzi. Né la sua efficacia avrebbe potuto essere fondata riconducendo la figura a quella del lodo arbitramentale, della mediazione, dell’uso commerciale, del contratto a favore di terzi, del contratto preliminare o del capitolato, Messina G., op. cit., 26-28, 34-36,

Fin qui la teoria, che descriveva il concordato di tariffa come regolamentazione da applicare ai futuri contratti di lavoro, combaciava perfettamente con quella del giurista tedesco. Entrambi vedevano come una

necessità logica il fatto che gli accordi collettivi vincolassero tutti i contratti

di lavoro successivamente conclusi con gli aderenti al sindacato dal datore, poiché, altrimenti, la contrattazione collettiva avrebbe avuto ben poca utilità pratica. Sia Lotmar che Messina accompagnavano l’argomento logico alla riprova pratica dalla resistenza normalmente opposta dai datori alla conclusione di tali negozi410, circostanza che sarebbe dipesa appunto dal fatto che una contrattazione utile al fine di evitare accordi individuali peggiorativi è, per il versante datoriale, naturalmente, uno svantaggio.

Gli autori differivano, tuttavia, su un punto essenziale relativo alla qualificazione del come il contratto collettivo avrebbe vincolato le parti. Mentre per Lotmar la clausola del contratto individuale difforme alla previsione del contratto collettivo sarebbe stata inefficace e sostituita automaticamente dal contenuto del contratto collettivo stesso411, per Messina l’unico effetto sarebbe potuto essere di tipo risarcitorio e il contratto individuale difforme sarebbe stato comunque valido ed efficace412.

Nonostante tale interpretazione indebolisse la possibilità di esigere il rispetto dell’accordo nelle successive transazioni, anche il solo fatto di tipizzare il “concordato di tariffa” concluso fra datore e lavoratori come contratto collettivo unitario e non come pluralità di negoziazioni individuali413 aveva il significato di giustificare sul piano civilistico come l’obbligo assunto dal datore di lavoro all’applicazione di un trattamento pattuito collettivamente «non potesse essere eliminato mediante il consenso dei singoli lavoratori»414. In altre parole, il datore di lavoro si sarebbe impegnato nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori a rispettare quanto concordato con questi ultimi; i rappresentanti avrebbero avuto un analogo obbligo nei confronti del datore.

52-59. Analogamente, già Lotmar distingueva il contratto collettivo da queste figure, aggiungendovi anche quella di contratto fondante la coalizione stipulante, Lotmar P., op.

cit., 771.

410 Messina G., op. cit., 44; Lotmar P., op. cit., 786, 782. 411 Lotmar P., op. cit., 780-781.

412 Messina G., op. cit., 49. L’autore riteneva infatti che, da un lato, l’espressione della

volontà successiva del lavoratore potesse prevalere su quella precedente, e che dall’altro, quanto alla vincolatività egli accordi assunti sul piano associativo – fra lavoratori aderenti al gruppo stipulante – e su quello del rispetto dell’impegno preso dal datore con tale gruppo, il rimedio non potesse essere quello dell’esecuzione in forma specifica, impossibile per un obbligo di facere come quello a contrarre.

413Messina G., op. cit., 26-30. L’autore esclude dalla nozione di contratto collettivo il caso

in cui una pluralità di persone, da ambo i lati, detti una disciplina per i propri rapporti correnti, definizione invece inclusa nel concetto di contratto collettivo proposto da Ascoli.

Come conseguenza, il contenuto del contratto individuale sarebbe scaturito da un doppio passaggio, individuale e collettivo. L’efficacia delle clausole collettive sul singolo rapporto sarebbe dipesa dal fatto che i soggetti stipulanti concludevano il contratto in rappresentanza degli associati415. La regola pattuita sarebbe stata, pertanto, incorporata nel contratto di lavoro in virtù del mandato, ma il singolo, in assenza di una legge che disponesse diversamente, avrebbe sempre potuto derogarvi (in quanto mandante), esponendosi unicamente a conseguenze di tipo risarcitorio verso controparte e consociati. Ciò avrebbe comportato, in caso di violazione del contratto collettivo, per il datore, la possibilità di agire nei confronti di rappresentanti che non avessero esercitato il necessario “dovere d’influenza” (all’applicazione del contratto di tariffa) sui lavoratori affiliati; per questi ultimi, la legittima pretesa nei confronti dei consociati di rispettare il patto associativo416. Nel tentativo di definire giuridicamente il vincolo generato per le parti dall’appena individuata figura dell’accordo collettivo aziendale, la dottrina italiana si servì non solo dell’elaborazione di Lotmar, ma anche di un’altra teoria di matrice tedesca, quella dell’atto

complesso417. Questa elaborazione privatistica, che individuava un’espressione di volontà unitaria scaturita dal comune agire di più soggetti, consentiva di dare un nome al fenomeno in cui dal lato dei lavoratori vi fosse una pluralità soggettiva volta alla realizzazione di uno scopo comune. Tale scopo, nel caso del contratto collettivo, sarebbe diventato l’oggetto di un negozio giuridico al momento del consenso del datore, ossia alla conclusione dell’accordo aziendale. Fra i lavoratori aderenti, già l’atto complesso di per sé avrebbe individuato la promessa scambievole di osservare la tariffa418. Il vantaggio sistematico di questa impostazione sarebbe stato duplice.

Da un lato, anche in assenza di una stabile organizzazione dei lavoratori – tipica nel fenomeno sindacale italiano delle origini – si sarebbe potuta escludere la presenza di una mera pluralità di accordi individuali. Viceversa, la circostanza di fatto dei lavoratori coalizzati nei luoghi di lavoro, al fine di ottenere condizioni uniformi e impedire la concorrenza al ribasso fra colleghi, avrebbe reso possibile individuare in questi processi la conclusione di un contratto collettivo (perlomeno per il livello aziendale)419. In altre parole, l’atto complesso ben descriveva il fenomeno della

415 Nogler L., Saggio sull’efficacia regolativa del contratto collettivo, Cedam, Padova,

1997, 18.

416 V. Vardaro G., op. cit., 57-59.

417 Gesammtakt, secondo l’elaborazione di Kuntze J.E., Der Gesammtakt, ein neuer

Rechtsbegriff, Universität Leipzig, Leipzig, 1892. V. in particolare, Messina G., op. cit., 46.

418 Messina G., op. cit., 47.

419 Messina G., op. cit., 47. In ciò la ricostruzione della dottrina italiana differisce

profondamente da quella francese del tempo, che in buona parte distingueva fra contratti conclusi da soggetti privi o dotati di personalità giuridica.

contrattazione aziendale. La centralità ricostruttiva attribuita all’adesione del singolo al gruppo aveva un senso teorico, in effetti, specialmente con riferimento alla contrattazione interna ai luoghi di lavoro (che era anche la realtà originaria del modello italiano), posto che il legame con un sindacato esterno è sicuramente più adatto di per sé ad una ricostruzione in termini di rappresentanza. Dall’altro, ritenere il momento associativo come presupposto che confluisce nella volontà espressa dal lato dei lavoratori alla conclusione del contratto collettivo420 avrebbe consentito di sostenere che la volontà individuale non fosse assorbita in quella del sindacato, ma che, viceversa, il singolo dovesse ritenersi obbligato al contratto collettivo (eventualmente concluso dal sindacato)421, non uti singuli, ma in quanto membro del gruppo organizzato422. Il che non sarebbe stato privo di conseguenze, se si pensa che l’eventuale conclusione di un regolamento di fabbrica o di un contratto individuale difforme avrebbe finalmente configurato, così ragionando, tanto una violazione del patto associativo interno, quanto del contratto collettivo423.

Lotmar, senza usare più di tanto lo schema dell’atto complesso, aveva quasi sorvolato anche quello della rappresentanza, per ricondurre l’efficacia del contratto collettivo ad una sorta di rapporto organico fra le associazioni stipulanti ed i lavoratori, in combinato disposto con la somiglianza fra accordo collettivo e regolamento interno. Per Messina, il contratto collettivo, invece, avrebbe dovuto essere distinto dal regolamento interno (o detto di fabbrica)424, poiché, diversamente da quest’ultimo, esso avrebbe dovuto avere la caratteristica di non poter essere derogato da successiva stipulazione contraria fra le parti del contratto individuale, come ad esempio un successivo regolamento interno predisposto dal datore. La difficoltà di ricostruire giuridicamente il contratto collettivo sarebbe stata, in effetti proprio questa, ossia quella di un fenomeno negoziale sottratto alla disponibilità dei singoli contraenti. Sembra di capire, da questa osservazione, che per Messina il regolamento di fabbrica fosse una pattuizione non dissimile da una serie di contratti individuali, attraverso la quale il datore di lavoro poteva gestire in modo generale, d’accordo con i

420 Galizia A., op. cit., 90. L’autore parla espressamente di “contratto di associazione”, che

sarebbe violato qualora uno dei membri accettasse di lavorare a condizioni peggiori rispetto a quanto previsto dalla tariffa collettivamente concordata.

421 Galizia A., op. cit., 86. 422 Messina G., op. cit., 29.

423 Messina G., op. cit., 48. Il riferimento di Messina ai regolamenti di fabbrica era ripreso

dalla trattazione del Lotmar, il quale aveva presente una realtà parzialmente diversa, da cui scaturirà la distinzione legislativa fra accordi di stabilimento e contratti collettivi conclusi dal sindacato.

dipendenti, il proprio potere organizzativo e direttivo, che tuttavia rimaneva integro425.

Il contratto collettivo, invece, non sarebbe stato un’emanazione del potere individuale, ma avrebbe avuto senso se ed in quanto avesse un impatto sulla volontà futura dei contraenti. Detta volontà, nel caso del concordato di tariffa, sarebbe stata quella espressa collettivamente lavoratori dello stabilimento, considerati non singolarmente, ma come membri di un gruppo e senza necessità che la stessa fosse espressa da appositi rappresentanti426. Il problema era che, per quanto Lotmar avesse influenzato Messina, il problema, per quest’ultimo era che né si poteva ritenere la vincolatività del contratto collettivo implicita nella sua esistenza, né il legislatore, «legato all’ideologia dello Stato liberale427 (…) era (…) disposto a riconoscere al contratto collettivo un’efficacia analoga a quella della legge»428, esigenza avvertita anche in giurisprudenza, come si è visto, al fine di consentire al contratto collettivo di realizzare il proprio scopo socio- economico429. Partendo da un’analisi concentrata sul fenomeno aziendale associativo, come quella di Lotmar, Messina mostrava, similmente a quanto esprimevano gli autori francesi del tempo, la difficoltà di concepire la vincolatività del contratto collettivo in assenza di un apposito intervento legislativo.

Attento com’era all’analisi dell’elemento volontaristico all’interno del fenomeno negoziale collettivo430, ma anche influenzato dal dibattito europeo sulla necessità di una legge sul contratto collettivo, Giuseppe Messina affrontò con estrema precisione la questione anche in seno ai confronti tenutisi fra il 1905 e il 1907 presso il Consiglio superiore del

425 Non era ignota a Messina la differenza contenutistica fra concordati di tariffa

(normalmente stipulati sulle condizioni di lavoro, salariali e orarie) e regolamenti di fabbrica (che potevano sì interferire con i concordati, ma che tendenzialmente avevano ad oggetto le regole organizzative e disciplinari); per l’autore, la stessa non poteva essere un mero accidente di fatto, ma dipendeva anzi dalla diversa natura giuridica dei diversi fenomeni negoziali (contrariamente a quanto sostenuto da Lotmar), Messina G., op. ult. cit., 59. Era naturalmente difficile per Messina concepire la possibile concretizzazione negoziale dei regolamenti interni, in un modo simile a quanto avveniva per mezzo degli

Arbieitnehmerausschüsse tedeschi cui si riferiva Lotmar. V. retro, in q. Parte, Sezione I,

Capitolo 1, par. 2.1.

426 Messina G., op. cit., 28-30.

427 Sul tema, Passaniti P., Storia del diritto del lavoro, I, La questione del contratto di

lavoro nell’Italia liberale, Milano, Giuffrè, 2006.

428 Mengoni L., op. cit., 254. 429 Messina G., op. cit., 61.

430 V. in questo senso Caruso B., Rappresentanza sindacale e consenso, Franco Angeli,

lavoro431. All’interno dei lavori del comitato permanente degli studi preparatori “circa la più conveniente disciplina da darsi per legge alle relazioni di lavoro”, la posizione portata avanti da Messina era che fosse necessario attribuire per legge al concordato di tariffa quel minimo di poteri vincolanti che fosse sufficiente a consentire ai lavoratori di possedere il potere contrattuale sufficiente ad un ordinato sistema di relazioni industriali432. L’eco sinzheimeriana, rispetto alla posizione iniziale dell’autore, appare in modo evidente. Perché il contratto rimanesse il più possibile espressione diretta della comune – appunto, concordata – volontà delle parti e non un fenomeno “entificato” ed istituzionalizzato all’interno dell’apparato statale433, però, occorreva che trovasse la ragione della sua efficacia nell’approvazione secondo un criterio maggioritario riferito ad una fabbrica o stabilimento434. In questo passaggio diveniva invece evidente la preoccupazione – tipica nei giuristi francesi – di ancorare il contratto collettivo alla volontà dei consociati. L’originalità stava nel superare il meccanismo del mandato mediante l’elaborazione di un criterio maggioritario. Infine, le proposte avanzate in sede di comitato terranno conto dell’evoluta realtà negoziale, tale per cui si rendeva ormai evidente l’utilità di considerare il concordato di tariffa quale fenomeno da ricondurre ad associazioni, stabili o meno, che mirassero ad una regolamentazione comune eccedente i perimetri del singolo stabilimento435. Tuttavia, il principio volontaristico, la necessità di sottoporre anche la minoranza all’applicazione di un unico contratto collettivo (che, se stipulato dal datore, lo avrebbe impegnato ad applicarlo a tutti i dipendenti) avevano tratto la propria genesi teorica nell’analisi del concordato di tariffa concluso per i dipendenti di un luogo di lavoro determinato.

431 Sul tema dell’influenza che ebbe Messina sulla legislazione italiana relativa al contratto

collettivo, Romagnoli U., I «concordati» di Giuseppe Messina: nota introduttiva, in

Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 1986, 107 ss.

432 Messina G., op. cit.,125 ss.

433 Caruso B., op. cit., 29-32, in cui l’autore sottolinea come Messina si schierasse contro lo

scambio fra maggiori controlli statali e maggiori prerogative attribuite per legge al sindacato, nonché contro l’idea di considerare il sindacato un ente portatore di un interesse distinto dai propri rappresentati.

434 Messina G., I «contratti collettivi» ed il disegno di legge sul contratto di lavoro,

Relazione preliminare presentata al Consiglio Superiore del Lavoro, in Scritti giuridici, Giuffrè, Milano, IV, 76-77; passaggio sottolineato da Caruso B., op. cit., 29.

435 Nella relazione del comitato del 1907, si elaborava in proposito una specifica disciplina,

diversificata a seconda che le associazioni fossero registrate o meno; nel secondo caso, si rendevano più stringenti i requisiti necessari per integrare il criterio maggioritario necessario alla conclusione di un contratto collettivo che avrebbe avuto efficacia per gli aderenti alle associazioni stipulanti sia fra di loro, sia nei confronti di qualunque terzo con cui avessero deciso di contrattare in futuro.

3.2. La manifestazione della volontà nel gruppo organizzato secondo Alberto Galizia: la distanza da Lotmar e dalle teorie privatistiche francesi

Con la dottrina francese sarà un altro autore italiano a confrontarsi più direttamente, anch’egli lettore Lotmar. Qualche anno dopo l’elaborazione di Messina, un altro studioso italiano, il giovane Alberto Galizia, cercò rispondere alla domanda sulla vincolatività del contratto collettivo436. Per prima cosa l’autore analizzò tutte le ricostruzioni, prevalentemente espresse dalla dottrina francese, che tentavano di adoperare gli schemi del diritto privato per descrivere la realtà del contratto collettivo. Volendo riassumere alcuni di questi passaggi secondo un filo logico- sistematico, si potrebbe partire da quella secondo cui il contratto preliminare avrebbe potuto rappresentare lo schema del contratto collettivo. Essa derivava dalla circostanza di fatto dell’impegno, a volte assunto dal datore di lavoro, di riassumere coloro che erano stati licenziati a seguito di un conflitto collettivo. Per questa ragione, a ben vedere, tale tipo di contratto configurava sì un preliminare per le parti interessate (i singoli lavoratori in questione e il datore), ma non coincideva con il contratto collettivo inteso come regolamentazione delle condizioni di lavoro. Al più, tuttavia, una promessa del genere avrebbe potuto rientrare nella parte accidentale del contratto collettivo; in ogni caso, sarebbe stata vincolante bilateralmente in relazione a quei soggetti determinati e non per altri eventuali lavoratori. L’obbligatorietà della parte in cui fosse incluso un contratto preliminare, in altre parole, niente diceva in merito a quella del contratto collettivo nel suo complesso437. Dal momento che, per vero, gli accordi collettivi iniziavano a regolamentare i rapporti anche dei soggetti non immediatamente aderenti alle associazioni stipulanti, ma che avrebbero concluso in futuro contratti di lavoro con il datore, questa ricostruzione si rivelò poco utile. Il tentativo di superarla passò per l’uso dello schema del contratto in favore di terzi (i lavoratori beneficiari), che avrebbe avuto appunto lo scopo di prendere in considerazione situazioni future, non ancora venute ad esistenza (i futuri contratti di lavoro). Questo schema sarebbe stato il più diffuso nell’interpretazione francese del tempo438. Per la “tenuta” della ricostruzione in esame, sarebbe stata necessaria una promessa fra sindacato e datore, come contropartita per il “favore” rappresentato dalle tariffe migliorative. Tale promessa, se individuata nell’impegno del sindacato di indurre i propri aderenti a non scioperare, avrebbe introdotto nella definizione di contratto collettivo un elemento non sempre presente nello stesso e in dottrina

436 Galizia A., Il contratto collettivo di lavoro, Luigi Pierro, Napoli, 1907. 437 Galizia A., op. cit., 177; Messina G., op. cit., 50.

438 Questa ricostruzione era quasi unanime nella dottrina francese per il contratto collettivo

giudicato non essenziale439. Il ruolo del sindacato risultava maggiormente valorizzato dalla riconduzione del contratto collettivo alla gestione di affari altrui440, che rispondeva all’esigenza di giustificare in che modo patti conclusi dal sindacato potessero essere vincolanti per i singoli e puntava sull’idea che questi non facesse altro che gestire l’interesse dei lavoratori in loro vece. Tuttavia, la realtà dei fatti rendeva difficile l’applicazione della teoria, poiché, da un lato, il sindacato non poteva dirsi affatto terzo rispetto ai lavoratori, specialmente quando la contrattazione aveva luogo a livello aziendale. Dall’altro, la gestione di affari non sarebbe stata applicabile al di fuori dell’ipotesi in cui l’interessato avesse mancato negligentemente di occuparsi dei propri interessi. Il che non era il caso della contrattazione collettiva, fenomeno affatto dovuto, bensì, al contrario, voluto dalle parti. Un'altra via percorsa per legittimare la vincolatività del contratto concluso dal sindacato rispetto ai suoi membri avrebbe potuto essere quella della ricostruzione del rapporto fra consociati e associazione stipulante in termini di mandato, convenzionale o legale. Dotata anch’essa di un certo seguito