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L’evoluzione storica del fenomeno collettivo in Italia

3.1. Il ritardo storico italiano nello sviluppo di un sistema di relazioni industriali

Il tessuto produttivo italiano ha vissuto «una industrializzazione tardiva e rapida»124, tale da consentire «all’Italia di percorrere in due o tre decenni un cammino che ha impegnato la Gran Bretagna per un secolo»125. Tale “ritardo” comportò che l’Italia «scavalcasse quella fase intermedia fra

Vertretungstheorie, e Nogler L., Saggio sull’efficacia regolativa del contratto collettivo,

cit., 23.

122 Occorre specificare che in tedesco esistono (almeno) due modi di esprimere il concetto

di rappresentanza: Vertretung e Repräsentation. Con il primo termine, ci si riferisce alla rappresentanza in senso civilistico (con o senza mandato); con il secondo, si intende anche fare riferimento ad un concetto di rappresentanza in senso politico (un gruppo di persone che ne “rappresenta” uno più ampio, ossia ciò che con radice germanica sarebbe più simile al concetto di Darstellen (rappresentare nel senso di porre in essere una raffigurazione del reale). Nel campo delle relazioni industriali, può capitare di fare riferimento alla

betriebliche Repräsentation dei soggetti eletti nell’organismo di rappresentanza generale a

livello aziendale, mentre la Vertretung è riconducibile alla Verbandszugehörigkeit, ossia all’appartenenza al sindacato. V., fra gli altri, Friese B., Kollektive Koalitionsfreiheit und

Betriebsverfassung, cit., 34.

123 Ramm T., Die Parteien des Tarifvertrags, cit., 37. Questo schema fu quello adottato,

come si dirà nel proseguo, da Hugo Sinzheimer in apertura del suo Der Korporative

Arbeitsnormenvertrag del 1907.

124 Foa V., Cento anni di sindacato in Italia, in Foa V.., Per una storia del movimento

operaio, Einaudi editore, 1980, Torino, 96.

artigianato ed industria meccanizzata, che, richiedendo l’impiego di manodopera altamente esperta e qualificata, costituisce il terreno proprio de l’affermazione della più elementare forma di solidarietà operaia, cioè quella del mestiere»126. In effetti, il tessuto produttivo del paese era ancora per la maggior parte agricolo; quello industriale passò in breve tempo dall’artigianato, organizzato in modo corporativo, alla grande industria meccanizzata127. Tale quadro produttivo, unitamente alle condizioni di sfruttamento, dovute ad un’insufficiente legislazione regolativa del lavoro subordinato (contemporaneamente “abbandonato” dalle tutele di tipo corporativo)128, comportò una molteplicità di rivendicazioni economiche di tipo diverso: da quelle per la terra, nel sud Italia, a quelle operaie del nord, industriali ed agricole, ben presto influenzate da correnti ideologiche socialiste o anarco-insurrezionaliste129. Trascurando, per ragioni di sintesi, le lotte dei lavoratori delle campagne, che ebbero un significato storico in verità centrale130, si dirà almeno che quelle condotte dagli operai dell’industria miravano sia al il miglioramento delle condizioni di lavoro, sia, in certe fasi, a difendere il lavoro stesso131. Il contesto nel quale tali rivendicazioni trovavano espressione, peraltro, non aveva ancora maturato una netta cesura con il precedente sistema produttivo ed economico di tipo tardo-feudale. Per avere un’idea concreta della complessità storico- giuridica, si consideri che primi obiettivi degli scioperi del periodo 1860- 1878132, verificatisi principalmente in Lombardia e Veneto per il settore agrario, in Piemonte per quello industriale, e, comunque, frequenti più che

126 Giugni G., Introduzione, in Perlman S., Per una teoria dell’azione sindacale, Edizioni

Lavoro, Roma, 1980 [ed. originale 1928], 30.

127 Dove per “grande”, al tempo, era una fabbrica di 40 dipendenti, così Ballestrero M.V.,

Diritto Sindacale, Giappichelli, Torino, 2010, 4.

128 Romagnoli U., Il lavoro in Italia: un giurista racconta, Il Mulino, Bologna, 1995, 40 ss.

e 52 ss., in cui l’autore si concentra sulla difficoltà dei giuristi di ammettere la necessità di una regolamentazione specifica per il lavoratore subordinato in un epoca in cui la nascente industria si mescolava con le consuetudini giuridiche dell’epoca precedente: citando Karl Polany, l’autore sottolinea come «alla vigilia della grande trasformazione (…) non si mostravano segni premonitori». Sulla prima legislazione protettiva dei lavoratori, che in un primo tempo rispondeva alla necessità di regolamentare il lavoro delle donne e dei fanciulli. V. Castelvetri L.; Il diritto del lavoro delle origini, Giuffrè, Milano, 1994, 53 ss.

129 V. Cortesi L., Il socialismo italiano fra riforme e rivoluzione, Laterza, Bari, 1969. Il

congresso di Genova, del 1892, individuava, fra gli obiettivi del partito, quello «della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia (…), lotta devoluta alle camere del lavoro ed altre associazioni di arti e mestieri».

130 Perna C., op. cit., 46.

131 La rapida meccanicizzazione aveva incrementato la disoccupazione di manodopera non

specializzata; sarà solo la crisi economica di fine ottocento a comportare l’emigrazione di molti lavoratori e a ridurre l’eccesso di manodopera.

132 Si utilizzano i dati della prima inchiesta parlamentare sugli scioperi, istituita da Crispi e

portata avanti principalmente da Luigi Luzzatti; la relativa relazione fu tenuta da Francesco Bonasi, v. Foa V., Cento anni di sindacato, ivi, 92.

altro nei lavori campestri, nel tessile, nelle costruzioni ferroviarie e nelle arti murarie, perseguivano, così, obiettivi eterogenei. In parte, essi erano ancora legati al vecchio mondo delle corporazioni e dei mestieri, mentre, per il resto, già mostravano la nascita di rivendicazioni di tipo nuovo, se non ancora di classe, certamente legate alla nascente figura degli operai salariati dell’industria. Con l’intenzione di proteggere i lavoratori professionalizzati del mestiere, secondo una logica ancora corporativa, gli operai si schieravano contro l’assunzione di apprendisti o lavoratori immigrati, così come erano ostili all’introduzione del telaio meccanico. D’altra parte, però, essi facevano affidamento sullo sciopero quale «mezzo di resistenza contro quella che qualificano la prepotenza del capitale»133; inoltre, le leghe di resistenza, che si svilupperanno dalle casse di mutuo soccorso o cooperative, si proponevano altresì di ottenere migliori salari, meno ore di lavoro, nonché combattere la dura disciplina imposta unilateralmente dal datore all’interno dei regolamenti di fabbrica134, i quali codificavano norme consuetudinarie ancora intrise di «autoritarismo paternalista»135.

Certamente, un tetto massimo di ore, un salario minimo e l’eliminazione del cottimo erano rivendicazioni legate al tentativo di riunirsi per «un comune controllo sulla prestazione del lavoro»136. Era sorta, nel settore industriale, una progressiva presa di coscienza (di classe?) da parte della forza lavoro tradizionale, sempre più consapevole del fatto che una difesa meramente corporativa non sarebbe più stata sufficiente ad arginare le minacce del nascente «capitalismo aggressivo, (delle) macchine e (delle) nuove forze lavoro non professionalizzate»137.

Il ritardo nello sviluppo industriale si accompagnò anche a quello legislativo. Dopo l’abolizione delle corporazioni, avvenuta nel 1848 con lo Statuto Albertino per il Regno sardo-piemontese e con la legge n. 1797 del 29 maggio 1864 per il Regno d’Italia (un secolo dopo rispetto a Francia e Germania), se non si ebbe un immediato sviluppo del fenomeno associativo, fu anche perché quest’ultima disposizione d’impostazione liberale, vietava

133 L’osservazione è di Quintino Sella, che paragonava gli scioperanti italiani (con

riferimento ad uno sciopero generale del 1977) ai tradeunionisti inglesi, Foa V., op. cit., 95.

134 Un esempio in questo senso fu certamente il regolamento interno del 1835 introdotto nel

lanificio biellese Sella & co., fortemente contestato dagli operai con una serie di scioperi (il primo sciopero generale fu indetto dalla Società dei Tessitori, ma le contestazioni erano iniziate già nel 1861 e sarebbero durate fino al 1877), che combattevano il carattere schiavistico di tale regolamento, il quale, oltre a imporre sanzioni durissime per comportamenti di vario genere, imponeva altresì l’obbligo di lavoro per due anni al lavoratore che fosse rimasto oltre i primi quindici giorni di impiego, v. Collotti E., Collotti Pischel E., La storia contemporanea attraverso i documenti, Zanichelli, Bologna, 1974, 12- 13.

135 Romagnoli U., op. cit., 91. 136 Foa V., op. cit., 96. 137 Foa V., op. cit., 96.

ogni forma di associazione, temporanea o permanente che fosse, nonché ogni patto fra i lavoratori volto ad obbligarsi reciprocamente a non accettare lavoro se non a certe condizioni.

L’associazionismo operaio, in origine, passava così dalla forma cooperativa a quella formalmente lecita delle società di mutuo soccorso, che

avrebbero dovuto svolgere compiti di assistenza reciproca e non di

rivendicazione sindacale. Le prime società di mutuo soccorso sorgevano già a partire dal 1850138; già durante il secondo Congresso nazionale (Firenze, 1861) si cominciò a porre il problema dell’orientamento politico di tali associazioni, inizialmente assistenziali, ma sempre più terreno di rivendicazioni di tipo sindacale e politico. Sotto l’influenza del pensiero mazziniano139, molte società di mutuo soccorso iniziarono così a portare a vanti rivendicazioni strettamente operaie, che miravano, concretamente, alla tutela del lavoro e, astrattamente, ad una maggiore equità nei rapporti fra capitale e lavoro140. Le società di mutuo soccorso, che nel 1850 erano circa 64, nel 1875 contavano ben cinque migliaia di sezioni, ed erano ormai influenzate, in parte, dal pensiero anarchico e insurrezionalista, che considerava lo sciopero una forma di contestazione sostanzialmente pre- rivoluzionaria, in parte, da quello internazionalista (italiano), il quale in ogni caso faceva della lotta sindacale un’arma politica. Il contesto, in pochissimi anni, era capovolto e la questione operaia faceva il suo ingresso anche nella scena socio-politica italiana. Riconosciuti con la legge n. 3818 del 15 aprile 1886, tali enti furono regolamentati dal legislatore alla stregua di fenomeni assistenziali141; la disciplina di legge consentiva di sottoporre tali nascenti

138 Il primo Congresso nazionale fu quello piemontese del 1853.

139 V. Rosselli N., Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-

1872), Einaudi, Torino, 1967 [ed. originale 1927].

140 Perna C., op. cit., 24-26. Tale influenza mazziniana, che si accompagnava altresì ad

ideologie di tipo patriottico-repubblicano, terminò, in ogni caso, dopo la condanna di Mazzini al movimento parigino, in seguito al fallimento dell’esperienza della Comune. Dopo il secondo Congresso nazionale delle società di mutuo soccorso, quelle mazziniane aderirono al movimento bakuniano, di tipo internazionalista e anarchico; le altre costituirono la Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavoratori, nel 1872. Il rivoluzionario anarchico Michele Bakunin aveva fondato, distaccandosi da quello internazionalista dei lavoratoti (1964), una propria associazione (con Guillame), denominata “Patto di amicizia, solidarietà e mutua difesa” (1872). Il suo pensiero ebbe forte eco in Italia, specialmente per il dialogo (e la polemica) con Giuseppe Mazzini.

141 La legge venne considerata, da parte lavoratrice, un tentativo di controllo delle

associazioni operaie, poiché le associazioni, per essere riconosciute, dovevano pubblicare gli statuti, verbalizzare gli atti interni ed adeguarsi agli scopi prefissati dalla legge. V. Castelvetri L.; op. cit., 90.

organizzazioni dei lavoratori, sempre più dal carattere sindacale, a controlli statali sugli iscritti, sugli statuti e sull’attività svolta142.

Dopo l’esperienza, per così dire embrionale, delle società di mutuo soccorso, verso la fine del secolo, iniziarono a nascere, a partire da tale fenomeno, le prime leghe operaie o di resistenza143. Queste ultime, specialmente nei settori che si componevano anche di lavoratori specializzati, come quello tessile, scaturivano dalla necessità di difendere le tariffe minime concordate dalle associazioni operaie con i datori di lavoro144. La difesa tariffaria, che portò ai primi episodi di contrattazione collettiva (inizialmente aziendale, poi settoriale) si rendeva oramai necessaria, specialmente a causa dall’accentramento nelle città di enormi masse di lavoratori145. La circostanza, se si eccettua una fase di forte emigrazione dovuta alla crisi economica146, comportò una enorme disponibilità di manodopera e, quindi, di contrattazione al ribasso, che rendeva necessario ai lavoratori l’organizzazione in apposite leghe per imporre al datore il rispetto di minimi concordati con quest’ultimo, dietro la minaccia dello sciopero.

Il primo esempio di leghe di questo tipo fu quello della società dei compositori tipografi, sorta a Torino nel 1848 per difendere un regolamento salariale predisposto unilateralmente dal datore di lavoro. Molte società di mutuo soccorso, al tempo, si trasformavano in società di resistenza; tale “slittamento” si accompagnava – la semplificazione è certamente

142 Realizzando proprio l’opposto di quello che la legge aveva inteso, così Romagnoli U.,

op. cit., 69. Alcune di esse aderirono al Partito dei lavoratori italiani (1892), che divenne il

Partito socialista italiano nel 1895, ma se ne mantennero formalmente separate.

143 Si consenta solo richiamare brevemente come le prime società cattoliche di operai e

contadini avessero per scopo quello assistenziale e mutualistico, senza mai assumere caratteri rivoluzionari. Del resto, di fronte alla emergente questione sociale, Leone XIII, nonostante l’attacco profondo e radicale al liberismo e allo sfruttamento dei lavoratori, non si opponeva in sé alla proprietà privata, che anzi difendeva; scopo della dottrina sociale cattolica era piuttosto garantire ai lavoratori un reddito sufficiente al sostentamento dei propri bisogni e a quelli della propria famiglia. V. Antonazzi G. (a cura di), Enciclica

«Rerum Novarum» (testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali),

Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1957; Reineri M., Il movimento cattolico in Italia

dall’Unità al 1948, Loescher, Torino, 1975. Sui movimenti delle campagne v. Zangheri R.

(a cura di), Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra, Feltrinelli, Milano,1960; Romano S.F., Storia dei fasci italiani, Laterza, Bari, 1959.

144 Pionieristica fu l’associazione dei tipografi italiani, del 1872. V. Perna C., op. cit., 38-

46.

145 Fra cui, peraltro, molte lavoratrici e fanciulli, che si ponevano in concorrenza con gli

operai uomini. Secondo Perna, si stimava che gli operai uomini fossero meno di un terzo degli addetti al settore industriale, v. Perna C., op. cit., 39.

146 Ci si riferisce alla crisi agraria internazionale degli anni settanta dell’ottocento, che

successivamente (dopo il 1887) si ripercosse anche sul settore industriale, v. Luzzatto G., Il

problema della disoccupazione in Italia nei primi settanta dopo l’Unità, in La disoccupazione in Italia, Camera dei Deputati, Roma, 1953, IV, IV, 10 ss.

schematica – a quello dal pensiero anarchico a quello politico istituzionale, attratto immediatamente nell’orbita socialista147. Per vero, furono il Partito socialista italiano e quello operaio italiano a sorgere dall’esperienza sindacale, per la quale si cercava, dal basso, di costruire uno sbocco politico più stabile di quanto non fossero stati i moti anarco-insurrezionalisti148.

Il Partito operaio italiano, fortemente influenzato dall’esperienza francese e tedesca, divenne ben presto un partito di rivendicazioni operaie (fra cui la depenalizzazione dello sciopero, di fatto ottenuta nel 1889), ma si avvicinò progressivamente (fino a confluirvi)149 all’esperienza politica socialista, più volta all’emancipazione di classe in senso generale che non strettamente dipendente dall’associazionismo operaio150.

La nascita delle prime forme di organizzazione operaia in Italia era un movimento sorto dai bisogni materiali che interessavano specialmente operai della nascente industria; solo dopo esso si dotò, spontaneamente, di una prospettiva politica151. In tempi appena successivi sarà il Partito socialista (nel congresso istitutivo tenutosi a Genova nel 1892), con un rovesciamento di ruoli, a devolvere le questioni sociali e sindacali alle organizzazioni dei lavoratori, secondo una separazione fra linea sindacale e partitica più formale che sostanziale152. Le leghe di resistenza, sul piano dell’azione politica della classe lavoratrice, presentavano l’inconveniente tipico dell’organizzazione per mestiere: perlopiù utile per la difesa degli interessi specifici dell’operaio specializzato, l’élite operaia (e intellettuale) alla guida delle leghe non riusciva a coinvolgere il resto dei lavoratori in una prospettiva di lotta comune153. Più che a questa forma di associazionismo, infatti, il partito socialista si riferì (e decise di devolvere la lotta sindacale, come sopra richiamato) alla nascente esperienza delle Camere del Lavoro154, nelle quali confluirono nel tempo leghe di resistenza, casse di mutuo soccorso, così come associazioni di vario tipo e forme di associazionismo cooperativo155. Le Camere del Lavoro, sorte originariamente (a partire dal

147 Perna C., op. cit., 40-41. 148 Perna C., op. cit., 40-41.

149 Si ricorda per inciso che tale partito, nel 1892 (Congresso di Genova) entrò a far parte

del Partito dei lavoratori italiani, denominato l’anno successivo “Partito socialista dei lavoratori italiani” e, nel 1895, “Partito socialista italiano”.

150 Perna C., op. cit., 45, dove l’autore si riferisce ai contenuti del IV Congresso (Bologna,

1888).

151 Zangheri R., op. cit., XIX.

152 Foa A., op. cit., 102, in cui si rinvia a Cortesi L., Il socialismo italianofra riforme e

rivoluzione, Laterza, Bari, 1969, 15 e 21.

153 Romagnoli U., op. cit., 72.

154 La prima è del 1891; il primo Congresso nazionale delle Camere del lavoro si ebbe due

anni dopo.

155 In proposito si deve menzionare come le leghe di resistenza sorte nelle campagne

1891; le prime furono quelle di Milano, Torino e Piacenza) con compiti di collocamento, istruzione e assistenza, furono un fenomeno originale nel panorama italiano; esse si proponevano di migliorare le condizioni di lavoro degli operai, specialmente rispetto all’orario e al salario, promuovendo

l’arbitrato come principale strumento di composizione degli interessi. Erano

dotate di un’organizzazione territoriale e interprofessionale rappresentativa della classe lavoratrice nel suo insieme: ciascuna camera riuniva indistintamente i lavoratori di professioni diverse e non perseguiva, pertanto, obiettivi di mestiere. Simili alle Bourses du Travail francesi156, le Camere del lavoro italiane si riunirono ben presto in una Federazione che avrebbe diretto tutte le Camere locali. Fu quando il Partito socialista (nel 1892) le dichiarò strumento di lotta dei lavoratori che esse, altresì dotate di una conformazione unitaria – si potrebbe dire, di difesa di classe – assunsero quella struttura, sul piano sindacale e politico, che le renderà il primo facile bersaglio della futura repressione fascista157. Nonostante la loro originaria estraneità a strumenti di lotta e la tendenza a servirsi di strumenti conciliativi, la politicizzazione delle Camere del lavoro da parte degli operai era ormai un fatto inarrestabile e si accompagnava ad una visione unitaria della classe lavoratrice158.

Oltre alle Camere del Lavoro, si costituivano, sul volgere del secolo, anche le prime Federazioni di categoria. Le Federazioni riunivano inizialmente i lavoratori impiegati nella costruzione di grandi opere pubbliche, come quelli del settore ferroviario o edile, o lavoratori della terra (la cui rappresentanza sindacale era un unicum in Europa)159. Queste Federazioni, che ereditavano una tradizione sindacale rivoluzionaria tanto dai moti delle campagne, quanto dalla politicizzazione delle leghe di resistenza, furono teatro di importanti lotte, condotte «contro un diffusissimo abuso padronale»160. La combattività delle Federazioni fu forse risposta al processo di proletarizzazione dei lavoratori agricoli, in un periodo in cui la piccola proprietà agricola veniva «assorbita dal latifondo», così Perna C., op. cit., 47.

156 In questo senso si esprime Perna C., op. cit., 48-49.

157 Si veda in proposito il Congresso di Parma della Federazione, tenutosi nel 1893. Per

vero, la prima repressione delle Camere del lavoro si ebbe già in occasione dei moti popolari di fine ottocento. Tutte le Camere furono sciolte nel 1896. La loro ricostituzione, in chiave più prettamente sindacale, fu decretata con il Congresso di Milano tenutosi nell’anno 1900. Ballestrero M.V., op. cit, 7.

158 Foa A., op. cit., 103. All’interno dei movimenti operai, sia delle città che delle

campagne, vi fu una forte contrapposizione fra riformisti e rivoluzionari, che vide i primi più inclini a seguire una linea di partito e i secondi a rappresentare “gli esclusi” dalla politica del lavoro Giolittiana, v. Foa A., op. cit., 105-107.

159 Ad esempio, La FIOM fu fondata nel 1901, il Fascio ferroviario nel 1890, il sindacato

dei ferrovieri, erede di antiche società di mutuo soccorso, nel 1895, Federterra nel 1901. V. Perna C., Breve storia del sindacato, ivi, 55 ss.

160 Foa A., Cento anni di sindacato in Italia, cit., 108, in cui l’autore ricorda la capacità di

anche la causa del fallimento del tentativo di introdurre per via contrattuale (ci si riferisce al noto contratto FIOM-Itala del 1906) l’istituto delle Commissioni interne. Queste ultime avrebbero dovuto essere degli organismi di conciliazione fra capitale lavoro, costituite di delegati operai a cui la comunità locale attribuiva il compito di trattare e comporre preventivamente il conflitto con il datore di lavoro. La breve durata dell’accordo FIOM-Itala che le istituiva dipese – segno dell’estrema conflittualità – dalla rottura dell’accordo a causa del mancato rispetto dell’obbligo di tregua sindacale161.

La tendenza allo sciopero generale, la crescente spinta rivoluzionaria della base lavoratrice, gli eccidi che si verificarono come risposta agli scioperi di inizio novecento162 e gli stessi contrasti fra leghe dell’industria, Camere del lavoro e Federazioni163, potrebbero probabilmente spiegare la funzione stabilizzatrice assunta dall’istituzione della Confederazione generale del lavoro (ad iniziativa della FIOM)164, i cui dirigenti furono altresì attivi all’interno del Partito socialista e le cui «piattaforme rivendicative (…) diedero vita, a partire dal 1906 e spesso senza lotta, a una serie di contratti che costituirono un nuovo tentativo di stabilizzazione sociale del sistema»165, condotta attraverso una politica sindacale riformista (accettazione del cottimo, delle discriminazioni salariali fra lavoratori di regioni e settori diversi, autolimitazione contrattuale dello sciopero, in cambio di miglioramenti sull’orario, sulle maggiorazioni per gli straordinari e di indennità di licenziamento)166.

Istituita tra il 29 settembre e il 1. Ottobre 1906, la Confederazione assumeva la direzione delle Camere del Lavoro, delle leghe di resistenza e delle Federazioni, «avocando a sé la direzione delle lotte economiche», ma