• Non ci sono risultati.

Il contratto collettivo dal diritto corporativo al diritto costituzionale in Italia

L’intervento dello Stato nelle relazioni industriali: verso il riconoscimento del livello decentrato

3. Il contratto collettivo dal diritto corporativo al diritto costituzionale in Italia

3.1. La legislazione corporativa sul contratto collettivo

Necessario o meno che fosse secondo la dottrina, l’intervento del legislatore655 non si farà attendere a lungo: la legislazione sul contratto

653 Nel frattempo, era passata la prima lettura del progetto di legge governativo, non molto

favorevole alle aspirazioni sindacali, senza che vi fosse grande protesta da parte di questi. Nel congresso straordinario del DGB tenutosi nel giugno 1951 si evidenziava un atteggiamento profondamente contraddittorio del sindacato, in qualche modo critico ma non realmente propositivo rispetto alla formulazione di un diverso testo di legge. Erd R.,

Verrechtlichung industrieller Konflikte, ivi, 109.

654 Così si esprimevano i dirigenti dell’IG Metall in quei giorni, Erd R., Verrechtlichung

industrieller Konflikte, ivi, 111-112.

655 Romagnoli U. Le origini del pensiero gius-sindacale in Italia, in Materiali per una

storia, III (ora in Lavoratori e sindacati fra vecchio e nuovo diritto, Il Mulino, Bologna,

1974). Secondo la lettura che ne diede Gaetano Vardaro, Messina «espresse, sì, la opposizione sindacale per i progetti giolittiani di regolamentazione dell’autonomia collettiva, a, nel momento in cui si limitò a prospettare in alternativa l’attestazione sul “diritto dei contratti” tradusse sul piano giuridico tutti i ritardi culturali e politici della sinistra riformista», così in Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, 69. Per un’accurata riflessione sull’influenza del pensiero di Giuseppe Messina, Mengoni

collettivo sarà un tassello essenziale dell’avvento del corporativismo fascista in Italia656.

L’effetto sarà, però, ben lontano dal realizzare quel sostegno alla capacità negoziale dei lavoratori che era stato teorizzato da autori come Giuseppe Messina e Alberto Galizia. Al contrario, la legge Rocco intese casomai affermare il controllo pubblico sulle condizioni di lavoro, statalizzare il fenomeno sindacale e, per questo motivo, soprattutto, L., Il contributo di G. Messina allo sviluppo del contratto collettivo nel diritto italiano, in

Scritti in onore di S. Pugliatti, II, Giuffrè, Milano, 1978, 443 ss.

656 Martone M., La fase corporativa, in Persiani M. (a cura di), Le fonti del diritto del

lavoro, in Persiani M. e Carinci F. (diretto da) Trattato di diritto del lavoro, Cedam, 2010,

70. In realtà, il legislatore intervenne già pochi anni prima, al fine di introdurre dei rinvii alla contrattazione collettiva nella disciplina dell’orario di lavoro. Il riferimento è ai r.d. n. 1955/1923 (art. 8, comma 3) e n. 1956/1923 (artt. 5, 7, 9). Sul piano dell’inquadramento normativo del contratto collettivo, interessa in questa sede rilevare come lo stesso fosse definito come l’accordo stipulato dalle associazioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro o, in mancanza, dai rappresentanti degli uni e degli altri. Riprendendo le ricostruzioni dottrinarie delle origini, quindi, non si individuava il contratto collettivo a partire dal fatto che il soggetto stipulante fosse un’associazione riconosciuta dallo Stato, come avverrà, viceversa, pochi anni dopo, con l’avvento del corporativismo fascista. Tuttavia, similmente al modello fascista, si può rilevare che la tecnica in sé del rinvio presupponeva la gerarchia delle fonti, che verrà successivamente positivizzata. Viceversa, le teorie privatistiche presupponevano semplicemente la prevalenza della legge sul contratto, ma non conoscevano l’uso del contratto collettivo come fonte integrativa del precetto normativo. Su questo tema v. Centamore G., Legislazione della crisi e rinvio al

contratto collettivo, Tesi di dottorato, Bologna, 2015, 18-19. L’autore pende le mosse

dall’art. 17, r.d. n. 1925/1924, sul rapporto d’impiego privato, norma che – come noto – stabiliva che le disposizioni di legge fossero inderogabili, salvo la disciplina più favorevole predisposta dal contratto collettivo; il che, da un lato, presupponeva la gerarchia delle fonti, dall’altro, introduceva per la prima volta in un disposto di legge il principio del favor, in base al quale la contrattazione collettiva sarebbe legittimata ad agire solamente o in assenza di regolamentazione legislativa o in senso migliorativo rispetto ad essa. In effetti, il «doppio binario» rappresentato da gerarchia e favor, creerà non pochi problemi interpretativi anche in futuro, vedendo una netta contrapposizione fra quanti legittimeranno l’intervento eteronomo della legge solo ove realizzi meglio della contrattazione collettiva lo scopo di tutela del lavoratore intrinseco a entrambe le “fonti” (Simi V., Il favore

dell’ordinamento giuridico per i lavoratori, Milano, Giuffrè, 1967) e chi, viceversa,

considererà il favor quale criterio prevalente rispetto a quello di gerarchia (Cessari A., Il

«favor» verso il prestatore di lavoro subordinato, Milano, Giuffrè, 1967 (rist. 1983). In

effetti, le due visioni si contrappongono nel senso che, nel primo caso, il contratto collettivo risulta un “equivalente funzionale” della legge ad essa subordinato, legittimo se ed in quanto ne realizzi i presupposti scopi di tutela; nel secondo, la regolamentazione collettiva e quella legislativa “gareggiano alla pari”, ove la prevalenza dipenda solo dalla realizzazione del principio di favore. Entrambe le impostazioni presuppongono una contrattazione collettiva di tipo acquisitivo, fenomeno che non tarderà a mutare di segno a partire dagli anni settanta, anche con riferimento alla contrattazione aziendale (infra nel testo, capitoli successivi).

«superare l’agnosticismo liberale»657 e con esso la libertà di sciopero e di coalizione658.

La legge 563/1926 e il Regio Decreto n. 1130 del 1926 intervennero sul rapporto fra contratto collettivo e contratto individuale e si potrebbe sostenere che lo fecero al prezzo dello svuotamento del legame fra fabbrica e sindacato659. Lo Stato fascista eliminò, in primo luogo, proprio quello schema che aveva permesso ai lavoratori di manifestarsi, unitariamente, come forza sociale, e che aveva altresì consentito alla dottrina liberale delle origini di fornire basi giuridiche alla vincolatività del contratto collettivo. Ci si riferisce, con ciò, al legame fra rappresentanza privatistica, contrattazione e conflitto all’interno dei luoghi di lavoro.

Con il Patto di Palazzo Vidoni del 1925660 e con la successiva regolamentazione del ‘26 furono soppresse tutte le Commissioni Interne,

657 Martone M., La fase corporativa, ibidem. Tant’è che, secondo una nota e plastica

espressione di Umberto Romagnoli, ivi citata da Martone stesso (pagina successiva), tale legislazione fu detta «cingolata», proprio perché il sindacato non avrebbe potuto che muoversi se non nel tracciato dell’ordinamento statale, Romagnoli U., Il lavoro in Italia: un

giurista racconta, Il Mulino, 1995, 106.

658 V. Giugni G., Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti di lavoro in Italia,

1-2, Il Mulino, 1956.

659 Mengoni L., Il contratto collettivo, cit., 263, in cui l’autore sottolinea l’intenzione del

legislatore fascista di allontanare il contratto collettivo dal diritto privato, rendendolo espressione di una “pubblica potestà normativa” esercitata dallo Stato attraverso le confederazioni a cui lo stesso garantiva il riconoscimento giuridico. V. nello stesso senso Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale, cit., 146, dove si descrive in termini di scambio il rapporto fra espulsione del sindacato dai luoghi di lavoro e rafforzamento del contratto collettivo di categoria.

660 Con il quale la Confederazione Generale delle Corporazioni fasciste otteneva

riconoscimento da parte dei datori di lavoro, in cambio della soppressione delle Commissioni Interne. Il patto, stipulato il 2 ottobre 1925, recitava: «La Confederazione generale dell'industria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici. La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale dell'industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli industriali. Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell'industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni. In conseguenza le Commissioni Interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale. Entro dieci giorni saranno iniziate le discussioni delle norme generali da inserirsi nei regolamenti». Poco prima, Alfredo Rocco aveva teorizzato «uno stato gerarchizzato, in cui impresa, sindacato e partito sono sottoposti a una direzione autoritaria che previene qualsiasi contrasto dialettico», in un discorso che probabilmente ispirò il pensiero (o comunque incontrò il suo favore) dello stesso Benito Mussolini, così in Gaeta L., «La terza dimensione», cit., 11, in cui l’autore richiama anche la preoccupazione suscitata dall’accordo Fiat con rappresentanze dei lavoratori di inclinazione comunista, avvenuto nel 1925. Il che rappresentava sicuramente un elemento di destabilizzazione, in un quadro di relazioni industriali che i futuri teorici del

rappresentative dei lavoratori a livello aziendale, al fine di ottenere la «recisione del legame tra organizzazione sindacale e comunità aziendale»; l’unico sindacato sarebbe stato quello federale o confederale, che avrebbe stabilito le condizioni di lavoro in modo inderogabile e con efficacia per tutti i lavoratori della categoria considerata661. La Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 21 aprile del 1927, disciplinava il contratto collettivo come contratto nazionale di categoria. Con essa si intendeva superare la logica conflittuale, tipica, al tempo, delle relazioni industriali presenti all’interno dei luoghi di lavoro, in nome del superiore interesse nazionale. Secondo l’art. 3, i contratti collettivi, stipulati dalle corporazioni, avrebbero dovuto stipulare «contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutta la categoria». Questo dovere, reso esplicito all’art. XI, avrebbe dovuto essere esercitato tenendo conto che «nel contratto collettivo trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione» (art. V).

La legge del 5 febbraio 1934, istitutiva dello Stato corporativo662, stabiliva l’esistenza di ventidue corporazioni fasciste, che, riunite a seconda dei rami di attività (art. 5), avrebbero rappresentato diverse categorie di lavoratori e datori (unitariamente considerati) mediante l’elaborazione di regolamenti collettivi dei rapporti economici (art. 8) approvati dal Capo del Governo, perseguendo l’interesse nazionale (individuato dall’art. 8 in una corporativismo fascista intendevano descrivere come «seria e quieta», così in Id., ivi, 8, in riferimento a F. Carnelutti, Le nuove forme di intervento dello Stato nei conflitti collettivi

del lavoro, in Rivista di Diritto Privato, 1911, 413.

661 Art. 5 e 6 della legge n. 563/1926. Peraltro, non potevano esistere altre categorie oltre a

quelle riconosciute dallo Stato fascista, né le condizioni di lavoro avrebbero potuto essere stabilite al di fuori delle previsioni promanate dalle categorie nazionali di datori e lavoratori sottoposte al riconoscimento previsto nella stessa legge. Si osserva che, diversamente da altri ordinamenti (caso tedesco e francese), quello italiano non otteneva l’estensione generalizzata tramite un atto governativo, bensì riteneva tale effetto implicito nella collocazione del contratto collettivo fra le fonti oggettive del diritto, analogamente in Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, cit, 124.

662 Nel frattempo, con legge del 20 marzo 1930 era stato istituito il Consiglio nazionale

delle corporazioni, presieduto dal Capo del Governo e composto di sette sezioni (essenzialmente, ricalcate sulle categorie produttive), con compiti di riconoscimento delle corporazioni ammesse, analisi e regolamentazione in materia di produzione e lavoro. Le corporazioni svolgevano funzioni consultive, conciliative di approvazione di accordi economici (si potrebbe dire, normative). Inizialmente queste funzioni venivano svolte dal Consiglio; ciò fino all’effettiva entrata in vigore della legge istitutiva delle corporazioni (1934). Il Consiglio fu riformato con legge del 5 gennaio 1939, con la quale fu anche istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni, della quale i membri del Consiglio divennero membri di diritto.

disciplina unitaria della produzione)663. In questo modo, il sindacato fu allontanato dai luoghi di lavoro, privato degli strumenti privatistici di autotutela e dotato sì di ampi poteri, ma da esercitare sotto il controllo dello Stato664.

Come è stato scritto da Gaetano Vardaro, si realizzò un «riformismo [weimariano] capovolto»665, perché il ruolo contrattuale del sindacato, allontanato sia dalla possibilità di incidere sull’organizzazione dell’impresa che di salvaguardare il rispetto del contratto collettivo, risultava «completamente snaturato»666.

La contrattazione collettiva, durante il periodo corporativo, smise di essere considerata un fenomeno che tendeva ad una sintesi delle volontà individuali o, come avrebbe scritto Sinzheimer, all’autodeterminazione delle parti sociali. Avrebbe dovuto trasformarsi, invece, in un’estrinsecazione del potere statale esercitato sulle imprese e sul lavoro, insieme considerati. Di conseguenza, il contratto collettivo di categoria si sarebbe imposto ai rapporti individuali – con il limite del trattamento individuale più favorevole

ex art. 2077 c.c. – a prescindere da qualsiasi espressione della volontà,

poiché sarebbe stata la legge a dotarlo di tale potestà normativa, in nome dell’interesse pubblico alla previsione di tariffe uniformi667.

663 Martone M., La fase corporativa, ivi, 72-73.

664 Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, cit., 99. Del resto, il

legame fra sindacato (al tempo Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali fasciste) e Partito Nazionale Fascista iniziava già con il Convegno sindacale di Bologna del gennaio 1922, indetto appunto dal partito. Senza voler qui ripercorrere la storia del sindacalismo fascista, si ricorda solo che dopo la marcia su Roma e l’affare Matteotti, il sindacato fascista, ormai lontano dai primordi socialisti e diventato “sindacalismo integrale” (comprensivo di datori e lavoratori), con il patto di palazzo Vidoni diventò a tutti gli effetti un organo dello Stato. Le associazioni e gli accordi da queste conclusi saranno infatti sottoposte per legge all’approvazione del Capo del Governo.

665 Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, ibidem.

666 Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, ivi, 99-100. Il ruolo di

controllo della conformità del contratto individuale a quello collettivo veniva naturalmente ad essere oggetto di decisione giudiziale.

667 Vardaro G., Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, ivi, 102. Il riferimento è

all’espressione di Francesco Carnelutti, per il quale «vero e proprio contratto collettivo esiste quando l’accordo dei gruppi (…) vale a regolare i rapporto individuali senza o contro la volontà dei soggetti che lo contrarranno», Carnelutti F., Teoria del regolamento

collettivo dei rapporti di lavoro, Cedam, 1936, 53. Vardaro sottolinea che la previsione

dell’automatica sostituzione delle clausole aveva qualche somiglianza con quanto previsto dalla legge francese del 25 marzo 1919 (poi art.31, Code du Travail), per la quale la nullità (con sostituzione automatica delle clausole difformi) avrebbe però potuto essere fatta valere su richiesta del sindacato. Viceversa, la legge tedesca sul contratto collettivo del 23 dicembre 1918 stabiliva non la nullità, bensì l’inefficacia della pattuizione difforme, e solo per i contratti individuali dei soggetti aderenti alle parti firmatarie. Analogamente, e con riferimento alla funzione di controllo sull’uniformità delle tariffe più che a quella di previsione di minimi, Mengoni L, Il contratto collettivo, cit., 264. L’autore cita anche la

E’ in questo senso di completo svuotamento del fenomeno conflittuale e autonomistico che può essere letta l’oltre modo ribadita definizione del contratto collettivo come figura ibrida, con il corpo del contratto e l’anima della legge, proposta a suo tempo da Francesco Carnelutti668.

Il fatto che l’automatica prevalenza delle clausole del contratto collettivo fosse un effetto della legge comportava due implicazioni: che esse si dovessero ritenere valide per l’intera categoria, a prescindere dall’affiliazione sindacale; che non ci sarebbe stato bisogno di alcun passaggio intermedio per renderle efficaci, come sarebbe stata, ad esempio, l’azione promossa dal lavoratore o dal sindacato immaginata a suo tempo da Galizia. Del resto, gli artt. 2070 e 2077 del nuovo Codice Civile del ‘42 (nonché il predecessore669 del secondo di questi, l’art. 54, r.d. 1130/1926)670

nota impostazione di Santi Romano, per il quale la contrattazione collettiva produce contratti che sono tali per i soggetti che li concludono, ma che sono una sorta di fonte eteronoma per coloro che devono rispettarne i contenuti, Romano S., Contratti collettivi di

lavoro e norme giuridiche, in Archivi di studi corporativi, 1930, 37. Se Santi Romano sarà

l’autore che in Italia aprirà la strada alle teorie sul pluralismo giuridico, nondimeno la sua teoria individuava la necessità di stabilire comunque un interesse generale rappresentato dallo Stato, quale ente finale di collegamento dell’intero sistema giuridico; interesse generale in qualche modo perseguito anche dalle formazioni sociali al momento della contrattazione collettiva e per ciò stesso prevalente sulla volontà individuale. Ciò, probabilmente, in contrapposizione a quanto sostenuto da Duguit L., Le droit social, le

droit individuel et la transformation de l’État, Félix Algan Éditeur, Paris, 1908, il quale

vedeva nel diritto statale niente più che uno strumento di potere della classe borghese, in quanto tale da relativizzare rispetto ad altre manifestazioni giuridiche, come quelle sorte dalla lotta di classe sindacale. Romano S., L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le

forme e i caratteri del diritto, Spoerri, Pisa, 1918, poi ripubblicato da Sansoni (1946). Il

collegamento fra legittimazione giuridica dei corpi sociali e interesse generale, per la contrattazione collettiva, si radicherà profondamente nel periodo corporativo, tanto che persino autori successivi e fautori di teorie del tutto opposte giustificheranno il criterio della rappresentatività come criterio selettivo per la tutela statale dell’attività sindacale con l’affermazione che «l’ordinamento interno e quello internazionale non vogliono che si compartecipi di alcune decisioni pubbliche o generali tutte le organizzazioni, ma solo quelle che dimostrino di essere strumenti di effettività della tutela dei singoli» (corsivo non presente nel testo originale), così in Flammia R., Contributo all’analisi dei sindacati di

fatto, Giuffrè, Milano, 1963, 97.

668 Carnelutti F., Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Cedam, Padova,

1928, 116-117.

669 Predecessore del predecessore, con riferimento all’inderogabilità in peggio come

principio fondativo del diritto del lavoro, fu l’art. 17 del r.d.l. 1825/1924 in materia di impiego privato, secondo il quale «le disposizioni del presente decreto saranno osservate malgrado ogni patto contrario, salvo il caso di particolari convenzioni e usi più favorevoli all’impiegato e salvo il caso che il presente decreto espressamente ne consenta la deroga consensuale». Questa norma, di cui certa giurisprudenza tentò (senza che si raggiungesse consenso unanime sul punto) l’estensione analogica ai rapporti di lavoro manuale, sanciva il principio di inderogabilità in peggio, sebbene con riferimento ai patti individuali; essa fu

rispondevano ad una logica squisitamente autoritaria, che inseriva l’esistenza stessa – formalmente mantenuta – del dialogo fra le parti in un processo di articolazione del potere gerarchico dello Stato. Il rispetto del contratto collettivo assurgeva ad interesse pubblico e il sindacato che non avesse esercitato la dovuta influenza a tal fine avrebbe potuto essere sanzionato e financo sciolto671.

interpretata nel senso che essa avrebbe reso indisponibili i diritti del lavoratore mediante patti contrari conclusi in costanza di rapporto, in ragione della minorata libertà negoziale dello stesso durante la vigenza del contratto di lavoro. I contratti corporativi, dopo l’entrata in vigore dell’ordinamento corporativo, non sembrarono rientrare nella disposizione, perché non costituivano negozi individuali nei quali la parte lavoratrice potesse essere considerata su un piano di inferiorità. V. Voza R., L’inderogabilità come attributo genetico del diritto

del lavoro. un profilo storico, in Rivista giuridica del lavoro, 2006, 1, 229 ss. Sul piano dei

contratti collettivi, questa vicenda lasciò il segno nella concezione culturale per cui l’inderogabilità della clausola – e la conseguente indisponibilità dei diritti derivanti – discende dalla condizione di minorità del lavoratore; sul tema, Tullini P., Indisponibilità dei

diritti dei lavoratori: dalla tecnica al principio e ritorno, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2008, 3, 470 ss. Sull’inderogabilità del contratto collettivo e

secondo il novellato 2113 cc., v. Ballestrero M.V., Riflessioni in tema di inderogabilità dei

contratti collettivi, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1989, Parte I, 357 ss., in cui

l’autrice si esprime contro l’applicabilità dell’art. 2077 c.c. nell’ordinamento post- corporativo, posizione condivisibile perché riconosce significato al diverso meccanismo delineato dall’art. 2113 c.c. rispetto all’art. 2077 c.c.

670 Per citare le norme più importanti del legislatore fascista in riferimento al contratto

collettivo. All’interno del codice civile, le disposizioni (poi abrogate) che regolamentavano il fenomeno erano contenute negli artt. 1, 5, 6, 7, 13, disp. prel. c.c., che collocavano le norme corporative, fra cui il contratto collettivo, all’interno della gerarchia delle fonti in posizione subordinata rispetto alla legge e regolamentata dal titolo V del codice civile, nonché dalle leggi speciali esistenti. Il dibattito sulla perdurante utilizzabilità con riferimento al contratto collettivo delle norme non espressamente abrogate (in particolare, artt. 2070, 2077 c.c., ma anche tutte le ipotesi di rinvio, come quelle degli artt. 2078, 2099, 2100, 2101, 2106, 2107, 2108, 2109, 2110, 2113, 2114, 2115, 2116, 2118, 1120, 2130 c.c., su cui v. Assanti C., Rilevanza e tipicità de contratto collettivo nella vigente legislazione

italiana, Giuffrè, 1967, 21 ss.) aprirà, come si dirà nel proseguo, un vivo dibattito fra

dottrina e giurisprudenza già nel periodo immediatamente post costituzionale, anche alla luce della disposizione transitoria XII della Costituzione sul divieto di ricostituzione in qualsiasi forma del disciolto partito fascista. L’idea dibattuta era se l’uso delle norme dettate per il contratto corporativo potesse o meno essere riconducibile al nuovo modello di contrattazione collettiva, senza essere perciò stesso considerato un tentativo di ritorno al corporativismo. Fra gli altri, v. Zangari G., Lineamenti di diritto sindacale nel sistema della

Costituzione materiale, Milano, Giuffrè, 1964; Suppiej G., Fonti per lo studio del diritto sindacale, Padova, Cedam, 1965.