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Cfr M P UDDU , op cit., p 390, alla voce cabàdhu.

COMMEDIA IN TRE ATTI DI EFISIO VINCENZO MELIS

95 Cfr M P UDDU , op cit., p 390, alla voce cabàdhu.

Nel nostro caso Paddori riferisce tale proverbio a Gervasio, che a parer suo si allontana, scappa intimorito, alla vista di Fiebeddu: Paddori è sempre convinto che Gervasio tema un certamen linguistico “alla pari” con suo figlio. L’intento pragmatico non cambia: ridicolizzare il com- merciante; l’effetto perlocutorio nemmeno: ancora una volta le vanterie sulle abilità linguistiche del figlio suonano irrimediabilmente ridicole alle orecchie di un uditorio ormai persuaso della loro inconsistenza.

(Ita nara’ su vrebu96 sardu:) Mellu’ fillu miu mau, in mes’ ’e bo- nus, che fillu miu bonu in mes’ ’e màusu (p. 47)

(Cosa dice il proverbio sardo:) Meglio mio figlio cattivo in mezzo ai buoni che mio figlio buono tra i cattivi

Si tratta di un proverbio usato generalmente per dire che tra i due mali si sceglie sempre il minore. Esso è catalogato anche da Cherchi con tale significato97.

Paddori lo usa in tale caso come atto linguistico indiretto per aprire gli occhi ad Arrafiebi sulla disonestà della fidanzata, Peppedda, ritenuta una poco di buono e della quale si chiacchiera molto in paese. Dando come presupposto che Paddori ritenga il figlio un buono, quindi un ingenuo, egli dice letteralmente che è bene che non stia tra i cattivi, cioè tra i furbi che tramano alle sue spalle. Ancora una volta, dietro una mera credenza, rappresentazione dei fatti, tipica del rappresentativo/assertivo,

96 Per un’attenta disamina fonetico-etimologica di vrebu si veda l’Appendice. 97 Cfr. L. CHERCHI, op. cit., p. 208.

si cela la spinta persuasiva del direttivo: Paddori vuole di fatto indurre il figlio a interrompere la relazione con una giovane indegna del suo amore. E di fatto, come accennato, si scoprirà che Peppedda, trasferitasi in città, ha una relazione amorosa con il figlio del sindaco del paese. Fortunata- mente, sottolinea il pastore, Peppedda e Arrafiebi non si sono ancora sposati. In caso di nozze, il tradimento sarebbe stato irrimediabile e lo smacco ben maggiore: Sa kosa fatta è pru’ fott’ e su ferru!

Sa kosa fatta è pru’ fott’ e su ferru (p. 56)

La cosa fatta è più forte del ferro

Gli informatori dei tre centri indagati spiegato tale formula prover- biale dicendo che le azioni, le cose fatte, non possono essere disfatte: sono irreversibili. In tale caso il proverbio ha un valore consolatorio; Paddori, nel citarlo, intende rasserenare Arrafiebi e indurlo a tranquilliz- zarsi rendendosi conto che la realtà poteva essere ben peggiore.

Ma può interpretarsi anche come un segno metateatrale: la rappre- sentazione, l’azione scenica volge ormai alla fine e ciò che il lettore, o lo spettatore ha inteso (nella doppia accezione di ‘udito’ e ‘compreso’), è un messaggio con forti conseguenze perlocutorie: Melis, affidando le sue parole a Paddori, puntualizza che dire-agire scenicamente (sa kosa fatta) crea ripercussioni forti sulla realtà (è pru’ fott’ e su ferru).

Bisongiad a fai attu e basciu (p. 57)

Bisogna a fare alto e basso

Con tale paremìa (tipico esempio di proverbio derivante da locu- zione idiomatica tramite giustapposizione del verbo bisongiad (a)98, come accade, per esempio, nel caso della formula italiana Chiudere la stalla quan- do i buoi sono scappati, qualora le si anteponga il sintagma è inutile) general- mente si vuole raccomandare che prima di prendere delle decisioni, o di fare delle valutazioni di verità/falsità su qualcuno o qualcosa, sarebbe opportuno sentire tutte le campane.

Si tratta di un enunciato che Paddori rivolge al figlio – ma anche, ovviamente, all’uditorio – stimolandolo a meditare sulla questione del tradimento di Peppedda, evidenziando quanto sia difficile discernere la verità tra le multiformi dicerie: è un invito a giudicare con la dovuta cau- tela le opinioni altrui per ponderare con estrema razionalità e prudenza tutti i fatti prima di esprimere opinioni personali, credenze e quindi agire. Cala la tela: a questa formula proverbiale il drammaturgo affida la responsabilità del commiato.

98 Si tratta con ogni evidenza di un italianismo. Il significato di tale forma verbale è ‘bi- sognare, aver bisogno’; «in connessione con un verbo si usa la costruzione biṡònǧa(đa) a». Tale costrutto, segnala WAGNER, vige anche in gallurese, in còrso e occorre in napoletano (es.: bisogna a procedere con il calaté): si veda DES, I, pp. 210-211.

CAPITOLO IV CONCLUSIONI

Alla luce delle osservazioni di natura semantica, e soprattutto di quelle di natura pragmatica, messe in evidenza nel terzo capitolo – rese possibili dalla cornice d’impostazione teorica delineata nel primo capitolo e nel secondo – è ora possibile fare alcune considerazioni.

Prima di procedere nella nostra riflessione sono tuttavia necessarie alcune premesse. Come noto, il testo analizzato nasce in una data ante- cedente al 1919, anno della sua prima rappresentazione scenica.

Melis non fa altro che seguire, seppur con modalità originalissime, la via aperta da Emanuele Pili nel 1904, con la messa in scena, al Polite- ama Regina Margherita di Cagliari, della prima farsa in varietà campida- nese, tra l’altro ambientata nella città stessa: Bellu schesc’ ’e dottori! Per tro- vare un antecedente, come accennato nel capitolo terzo (pp. 101-102), si deve andare molto indietro nel tempo, fino a Carmona.

Il periodo è particolare per la storia del Paese: sono ormai passati pressoché cinquant’anni dalla riunione del primo Parlamento italiano, avvenuta il 18 febbraio 1861 a Torino (quasi un anno dopo il nuovo Stato assumerà formalmente il nome di Regno d’Italia), e da allora l’italiano verrà considerato ufficialmente lingua della nazione. Diventa dunque più marcata anche la frattura socio-linguistica nel paese: la realtà italiana era molto diversa rispetto a quella che poteva caratterizzare un Paese unitario (pensiamo alla Francia o alla Gran Bretagna), e le disugua-

glianze potevano notarsi da molti punti di vista: quelle socio-economiche in primis che dividevano in due la penisola, da cui derivavano consequen- zialmente quelle culturali. La situazione delle due isole maggiori era, come noto, analoga a quella delle regioni del Mezzogiorno d’Italia. «La situazione linguistica può essere considerata la più chiara manifestazione di questi elementi di arretratezza e di frattura. A differenza di altre nazio- ni europee, dove da tempo si era andato formando un ampio circuito della comunicazione nella lingua nazionale, la stragrande maggioranza della popolazione in Italia non conosceva altro idioma che il dialetto locale. L’uso pieno dell’italiano si trovava, infatti, ristretto ai soli ceti colti nelle situazioni pubbliche e solenni»1. Seppure questa considerazione sia fatta a proposito della situazione pre-unitaria, le cose non variarono di molto anche dopo il 1861, e per diversi anni2.

La Grande Guerra (1915-1918) sarà il primo momento di confronto tra le diversità linguistiche della Penisola, in cui l’italiano costituirà obtorto collo l’unica ancora di salvezza, pena l’incomunicabilità assoluta. Ma già prima dello scoppio del conflitto gli intellettuali italiani s’impegnarono nella ricerca di possibili soluzioni al problema delle forti differenze socio- culturali del Paese. In tale contesto il contributo di Graziadio Isaia Asco- li, glottologo di grande spessore, fu rilevante. Intervenendo nella «que- stione della lingua» nel 1872, con un Proemio alla nuova rivista da lui fon- data «Archivio glottologico italiano», propose una linea d’azione nel

1 Si veda M. D’AGOSTINO, Sociolinguistica dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 24.

2 Come è noto, il fronte della prima guerra mondiale può considerarsi per molti conta-