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Questa è anche l’interpretazione di F M ASALA : cfr La commedia sarda ha perso il suo au-

COMMEDIA IN TRE ATTI DI EFISIO VINCENZO MELIS

81 Questa è anche l’interpretazione di F M ASALA : cfr La commedia sarda ha perso il suo au-

tore, articolo comparso su «Il Messaggero Sardo» nel numero di luglio del 1988, p. 32. Esso è

(Ma) sabi in conca (p. 20)

(Ma) sale in testa

Si tratta, come già accennato in nota 57, p. 127, di una paremìa già utilizzata da Paddori in riferimento a Gervasio. Per la spiegazione, quin- di, rinviamo il lettore alle pagine precedenti, e ci limitiamo qui a osserva- re come essa sia ora ripresa allusivamente: «È tottu arrellichinu, ma sabi in conca…» (trad. lett.: È tutto ben vestito, ma sale in testa…). Tale iterazione del kernel paremìaco produce un particolare effetto eco, giacché esso porta con sé, quasi avesse la forza attrattiva di un magnete, anche gli altri significati cui era legato nel contesto precedente, che, come si ricorderà, erano inerenti al climax della follia, culminante nella chiusa proverbiale Femmina arrebuggia, becciu corriazzu, e genti prettoccada [coment’a i kustu] no’ cicca’ mai motti.

La cosa non meraviglia più di tanto se si pensa al meccanismo d’azione del proverbio tout court: viaggiando nel tempo e immergendosi nei differenti contesti esso si arricchisce di volta in volta, di uso in uso, senza mai perdere il significato originario, ossia quello letterale, il quale, dal canto suo, risuona in itinere di nuove connotazioni: è il nucleo pare- mìaco, o kernel, a veicolare la forza comunicativa dell’atto linguistico, a lasciare emergere l’intenzione del parlante.

Si può tenere conto, a tale proposito, che questa in esame è la se- conda allusione paremìaca posta alla fine della sequenza isotopica ineren- te la follia, giacché segue la già ricordata Cun màccusu non brullu, analizzata a pp. 130 e ss.

È a murrungiusu che un attu pappendu prumoni82 (p. 20) È a (produce) brontolii come un gatto mentre mangia polmone

In italiano corretto si direbbe brontola come un gatto che mangia del pol- mone.

Trattasi di un elemento fraseologico giocato su un’immagine chiara e incisiva; la sua forza persuasiva è basata su un’icasticità che oltrepassa l’aspetto meramente visivo, tant’è che sembra ricordarci qualcosa che abbiamo non solo già visto ma anche udito. La figura soggiacente, sep- pur non deviante dalla realtà, non è di certo accessibile a tutti (c’è da chiedersi se fosse possibile, in un periodo storico in cui la disponibilità di cibo non era abbondante, vedere dei gatti nutrirsi di una frattaglia che, per quanto potesse essere considerata – in alcuni contesti – uno scarto, era pur sempre un boccone prelibato); eppure risulta vivida e quotidiana, ha l’effetto di un déjà vu o meglio di un déjà entendu in virtù dell’effetto sinestesico di quel murrúngiu (= brontolio) sulla cui origine onomatopeica, come ricordato da Wagner, molti linguisti concordano. Sarebbe quindi opportuno soffermarsi sull’etimo di tale termine. In DES, II, p. 141, lo troviamo tra i derivati di múrru, ovvero muso (del cane), grugno (del porco) e applicato scherzosamente anche al ‘ceffo’ dell’uomo; in campi- danese è usato spesso per ‘labbro’. Si tratta presumibilmente di un de- 82 Si noti la forma del gerundio del verbo papài, la quale conserva la desinenza in -u, più arcaica rispetto a quella in -i della variante parteollese citata più avanti. A tale proposito Wagner evidenzia che le forme più conservative sono quelle in -o e in -u, riscontrabili rispetti- vamente nella Barbagia meridionale e nel campidanese rustico. La forma in -e (tipica in logudorese e nuorese, cui corrisponde la forma in -i del cagliaritano e del campidanese rusti- co, laddove si alterna con -u) è ascrivibile alla fusione della forma verbale con un inde pleona- stico la cui uscita si è estesa analogicamente alle altre forme del gerundio (cfr. M.L. WAGNER,

verbale: murrúnǧu parrebbe infatti coniato a partire dal campidanese mur- runǧai (log.: murrundzare/murrúndzu), denominale di múrru. Si è fatto cenno all’ipotetica origine onomatopeica di múrru sottolineata da Wagner (DES, II, p. 140, alla voce múrru). Si pensi pure al latino murmŭr (= mormorio, brontolio, etc.), forma onomatopeica della serie m…r bene attestata nelle aree indiana, greca, armena, baltica83.

Il catalano morro (= labbro) ha molto probabilmente influito sul camp. múrru, di uguale significato: nel resto dell’isola domina invece, come visto, il senso di ‘muso, grugno, ceffo’.

Tale paragone proverbiale è registrato da Ignazio Zuddas in una raccolta di detti locali del Parteolla (regione storica della Sardegna meri- dionale, confinante a nord con la Trexenta) dal titolo Su soli ’essit po totus: Est murrungia murrungia, parit unu gattu papendi prumoni. L’autore così tradu- ce: «È un brontola brontola, sembra un gatto mentre mangia polmone». Secondo Zuddas si tratta di una «espressione usata nei riguardi di persone bronto- lone, poco pazienti e intolleranti»84.

Esattamente con tale intento la usa Paddori, secondo cui Gervasio non farebbe che lamentarsi e brontolare senza alcuna ragione apparente. Così come il proverbiale gatto che, nel mangiare il polmone, la cui consi- stenza oppone delle resistenze alla masticazione, emette dei suoni che possono sembrare dei lamenti infastiditi, dei mugolii a metà tra il piacere e il dolore.

83 Si veda G. DEVOTO,Dizionario Etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, Le Mon- nier, Firenze, 1968, p. 277, alla voce mùrmure.

84 I. ZUDDAS, Su soli ’essit po totus. Dicius e modus de nai patiollesus, Grafica del Parteolla, Dolianova (Cagliari), 2007, p. 44.

La finalità pragmatica della paremìa usata da Paddori è sempre quel- la di tenere viva l’alleanza cooperativa tra sé e il pubblico.

(Gei ddu spoddias s’italianu) comenti chi ’oghi pabassa (p. 22

e p. 23)

(Già lo sbrogli l’italiano) come se togliessi l’uvetta (uva passa)

Per capire appieno tale espressione idiomatica è utile considerare il cotesto esatto in cui è inserita. Ecco il dialogo tra Paddori e suo figlio Arrafiebi (a volte chiamato anche Fiebeddu, con diminutivo-vezzeggia- tivo) che, appena rientrato dal servizio di leva, ha occasione di sfoggiare il nuovo codice linguistico acquisito nella Penisola:

Arrafiebi: «Ah parde mio, di ainturo le vostre brazze mi sento arricun- cordare tutto il cuoro. Parde! Parde! Parde!»85

Paddori: «Ah, fillu miu, gei ddu spoddias s’italianu, comenti chi ’oghi pabassa!».

Tale idomatismo si usa in genere per definire chi parla correttamen- te e si spiega bene, con disinvoltura, proprio come se stesse facendo qualcosa di semplice e quotidiano: staccare dal raspo degli acini d’uva ormai passiti, che non oppongono più alcuna resistenza. Lo stesso Pad-