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3. La composizione di CH

3.2 CH in quanto raccolta

Se CH fosse una stampa si inserirebbe perfettamente nella dinamica di passaggio dal Canzoniere al Libro di rime (o se si vogliono parafrasare le categorie di Fedi, dai

canzonieri che nascono dall’imitazione del modello petrarchesco, alle raccolte che

fungono da ‘memoria collettiva’ del processo lirico manierista e che all’imitazione hanno sostituito il termine chiave della citazione).20

Meglio ancora, CH, in quanto silloge già maturamente seicentesca, potrebbe perfettamente rappresentare lo stadio ultimo del passaggio della forma-canzoniere21 alla forma-silloge, e di lì alla pura raccolta miscellanea di composizioni riconducili a ‘vari

autori’ (in questo caso quasi esclusivamente canzuni, come nella pratica d’oltrestretto si trattava prevalentemente di sonetti):

Nel corso degli anni, poi, la forma-canzoniere si era mutata nella forma-silloge, raccolta miscellanea di ottave siciliane di autori vari. Questi libri di rime, la cui fortuna è legata al diffondersi delle tipografie, presentano un universo puramente citazionistico in cui la pluralità delle voci si unificava grazie al ricorso al comune codice e ai comuni architesti e finiva per perdere ogni delimitazione generazionale, sicché il fenomeno lirico dalla condizione di ‘creazione’ passava a quella, molto più frammentaria e perciò più facilmente fruibile e scomponibile ad libitum, della ‘citazione’, del ri-uso.22

18 Cfr. Rinaldi 1995, 58 n. 49: «Il consenso delle antologie è generale per Ficalora [...], quasi altrettanto

per Giovanni Giuffrè [...]; alto per Buscelli, Potenzano e Moraschino [...], Gabriele Lo Cicero [= Cicero]; Veneziano, Asmundo, Avila, Triolo, Paruta, Gravina, Rosselli, Scimeca, Galeano [...]; Giovan Nicolò Rizzari, Maia, Davero [...]». Come MS, tra l’altro, CH esclude completamente Simone Rau.

19 Rinaldi 1995, 50 n. 26. 20 Fedi 1990.

21 Per la quale e, più in generale, per le raccolte a stampa cinquecentesche – oltre all’appena citato

saggio di Fedi – si rimanda ai classici Santagata 1970 e 1992; Longhi 1975; Scaglione 1974; Gorni 1984, 113-43; Testa 1983; Santagata-Quondam 1989 e Quondam 1991. Sul concetto di ‘macrotesto’ vedi Corti 1975 e Erspamer 1987.

«Citazione» e «riuso», innanzitutto, delle singole tessere testuali dei due codici archetipici di riferimento: quello di Petrarca e del Petrarchismo e la poesia di Antonio Veneziano, in una continua dinamica intertestuale che, però, non si traduce mai in mimesi (da parte dei copisti, beninteso, dei compilatori di tali raccolte) di forme canzonieristiche. Perché, a parte questa esibita ed esteriore intertestualità, non c’è quasi alcun rapporto strutturale tra i testi, nessun percorso interno alternativo alla pura e semplice progressione delle canzuni, se non alcune rimanenze troppo grosse per sfuggire alla pur larga trama della rete antologica (e sulle quali torneremo tra un momento).

E, a suo modo, CH è una stampa. Della stampa ha molte caratteristiche esteriori, ma anche interne (l’indice-incipitario) e, se non fosse per l’assenza dei profili introduttivi ai singoli autori e di ogni paratesto proemiale, potrebbe figurare come un volume particolarmente corposo di MS.

Manca in CH un indice tematico come quello della stampa di Galeano,23 ma se ci

fosse non sarebbe molto diverso: amante infelice, amante geloso, amante ostinato, amante

sdegnato, donna crudele, irata, infida, instabile, ecc. D’altra parte, manca una vera e propria

rete tematica che sfaccetti in micro-zone la macro struttura che potremmo definire genericamente ‘amorosa’. L’unica eccezione a questo panorama omogeneo è rappresentata da DiM, sezione per buona parte occupata da quelle che definirei rime di ‘prigionia’, intese non nel senso tradizionale di ‘carcere d’amore’ ma nel senso proprio di una autentica carcerazione.24 È un tema di per sé tradizionale del

repertorio canzunistico avendo per di più ricevuto l’illustre autorizzazione di Antonio Veneziano che riprese varie volte la sue esperienze carcerarie, tanto siciliane (Ven 102, in cui le torture d’amore vengono comparate alle torture giudiziarie) quanto moresche (Ven 103). Ma le rideclinazioni di Veneziano rimangono sempre all’interno di un codice letterario che è quello della lirica amorosa. Nei componimenti di DiM questa carcerazione appare invece come dato biografico reale, a tratti connotato da elementi pre-espressionistici di vivido realismo. Per Veneziano il riferimento ai Mori serve principalmente per introdurre parallelisticamente la propria schiavitù d’amore che, da amante costante qual è, serberà intatta contro tutte i rovesci di Fortuna e le angherie della sua Patruna. Il fatto che poi questo riferimento coincida con un dato biografico, è una strizzata d’occhio al lettore accorto, un elemento connotativo che apre la canzuna su un’ulteriore dimensione, ma il componimento funziona perfettamente anche se questo segnale non viene colto, perché risponde perfettamente ad un locus tematico della topica tradizionale. Le canzuni carcerarie di Di Michele (o chi per lui), invece, partono proprio dalla descrizione dell’esperienza carcerarie sulla quale si innesta posteriormente il presunto ma qui necessario dato biografico. Non importa sapere se l’autore sia davvero stato in carcere, ma occorre crederlo perché la poesia abbia un senso e una tenuta.

Il tema del carcere si sviluppa su dinamiche testuali abbastanza omogenee. La sequenza DiM 33-35 e 37 descrive l’orribile condizione carceraria, DiM 36 e 38-40 si lamentano della sorte contraria. DiM 41-48, una delle sequenze più compatte, raccogle quelle che chiamerei «Le canzuni del Passero». Si tratta di 8 componimenti (6 dei quali iniziano con l’allocutivo: Passeru) che l’autore carcerato rivolge a un passero perché abbia pietà di lui e faccia da intermediario tra lui e la sua Donna. Qui la sequenza sembra interrompersi perché troviamo tre componimenti apparentemente

23 Cfr. Grasso 1996, 87-96.

slegati dal contesto e che hanno come oggetto gli occhi della donna amata e la sua ingratitudine. Segue un’altra sequenza sugli effetti della lontananza (DiM 52-56) nel quale la prigionia non è indicata apertamente se non in DiM 55. Viene poi un trittico sul tema della partenza (DiM 57-59) e, dopo due componimenti di taglio genericamente amoroso, troviamo un’altra sezione ‘carceraria’: DiM 62-67, in cui vengono riprese le descrizioni della prigione. A questa sequenza si attacca una coda che avrebbe fatto la felicità di Sciascia:25 si tratta di tre canzuni (DiM 68-70) in cui

l’autore carcerato tuona contro la malasorte che, tenendolo prigioniero, gli impedisce di farsi valere vendicandosi di nemici e maleligue. La sezione DiM si chiude poi con una lunga sequenza (71-79) di componimenti in cui il poeta lamenta e si interroga sulla Fortuna che gli si rivela sempre ostile.

Questo quasi-canzoniere (l’unico reperibile) si giustifica sul doppio versante della storia e della letteratura. Da un lato l’auctoritas di Veneziano, dall’altro vicende biografiche che – come abbiamo visto al § 2 – fanno tutt’altro che di rado incrociare le strade dei nostri autori con le prigioni municipali o del Sant’Uffizio palermitano.

Una sorta di rete tematica è invece visibile nelle rime spirituali. Questo dipende principalmente da due aspetti. Per prima cosa, come abbiamo già visto, Spir è la sezione meno lavorata, più inerziale di CH rispetto alle due fonti (in particolare MS). E poi, tradizionalmente, la lirica religiosa26 tende a organizzarsi molto più sui temi di

quanto non faccia quella amoroso-profana che preferisce piuttosto la riproduzione di

loci. Tanto più che i grandi temi della devozione religiosa sono ampiamente

standardizzati:27 l’Eucarestia, Vergine Maria, Croce, Cristo Crocifisso, Lancia, S. Francesco, S. Giuseppe, Peccatore pentito, Peccatore che chiede pietà, Natività, Ceneri, ecc.

Non che si possano delineare vere e proprie sezioni tematiche, ma le canzuni con lo stesso argomento tendono a compattarsi in gruppi più o meno omogenei. Le

canzuni sull’Eucarestia, p. es., aprono la sezione (Spir 1-5), poi si passa a canzuni di

invocazione alla Vergine (Spir 6-10), quindi a componimenti in lode della Santa Croce (Spir 11-14). L’Eucarestia ritorna poi a Spir 93, la Vergine a Spir 39, la Santa Croce a Spir 92 e così via.

Allo stesso modo, non è possibile in CH reperire canzuni organizzate tra loro su moduli narrativi. Ci sono però alcune eccezioni: in Spir abbiamo quattro ottave riservate alla Lancia (Spir 25-28) che sono chiaramente costruite per essere lette in serie: nei primi due componimenti il poeta invoca e condanna la lancia in quanto strumento del supplizio di Cristo, nel terzo (con notevole correctio patetico-espressiva: «Ma no, ma no, ti benedicu e aduru», Spir 27,1) rovescia il suo giudizio in quanto la lancia è pur sempre uno strumento della volontà divina. Infine, in ultima battuta, compie verso di lei un atto devozionale.28

Mentre alle ottave 44-48 troviamo la teatralizzazione dell’episodio evangelico dei due ladroni durante la Crocifissione, che nonostante la sua brevità (appena 5 strofe) si fregia di un attacco smaccatamente epico: «Cantu la sorti di lu bon latruni» (Spir 44,1). Lo stesso, genericamente, vale per le sezioni ‘amorose’ di CH, dove – a parte la

25 Cfr. Sciascia 1967, 27: «c’è un’espressione che è tipica (e che tale è rimasta) della mentalità mafiosa:

“li carzeri non mangia li homini”, il carcere non mangia gli uomini”: e anzi, come si può riscontrare in canti e proverbi sel sentire mafioso, li ammaestra e li temprera».

26 Per la quale si rimanda a Delcorno-Doglio 2005 e 2007.

27 È lo stesso principio che, un secolo e mezzo più tardi, sarà alla base degli Inni sacri del Manzoni. 28 A questo tema non sarà estraneo una sorta di rovesciamento cristiano del tema classico della lancia

già citata sequenza del Passero – l’unica altra sequenza narrativa è quella che occupa quasi per intero Tri (1-21 su 23). Si tratta del cosiddetto Filenu farmaceutria, piccolo poemetto pastorale in ottave siciliane che Triolo avrebbe pubblicato nel 1638.29 Vi si

narra l’amore infelice del pastore Fileno per il pastore Iola e del rito magico apotropaico da lui compiuto in onore di Venere in mezzo ai boschi.

Ma queste sono le poche e uniche eccezioni a un sistema che, complessivamente, è slegato in singole voci e, soprattutto, in singoli specimen delle singole voci. A maggior dimostrazione di questa tendenza sta anche il fatto che CH non riporta per intero nessuna delle due tipologie ‘iper-metriche’ tipiche della tradizione siciliana: la

curuna e l’ottava che, per distinguerla dalla normale strofe di otto versi, chiameremo

con il nome efficacemente trovato da Sgrilli: ottava moltiplicata.

La curuna è un insieme di canzuni (il più delle volte 8, ma possono arrivare anche a 10) costruite sulle stesse due rime e legate fra loro da un rapporto di testacoda per cui l’ultimo verso di una canzuna diventa il primo dell’ottava successiva (in una sorta di dilatato fenomeno di cobla capfinida), mentre la rima B del primo, diventa la rima A del secondo componimento.

L’ottava moltiplicata è invece un componimento di 8 canzuni i cui versi finali, presi singolarmente e ricomposti, formano a loro volta un’altra canzuna, detta mastra.30

Questa, a sua volta, più essere una canzuna indipendente, o riprendere un altro altrimenti noto componimento.

Piccole tracce, minuscoli rimasugli, ombre di strutture. La compattezza del codice petrarchesco si è completamente dissolta. «Il tipo “rime diverse” produce per partenogenesi la sua stessa antologia nel forma “rime scelte di diversi”»,31 che a sua

volta nella pratica delle antologie siciliane del Seicento si separa nelle sezioni d’autore e in quelle di auturi diversi. Ne rimane un’unica generalissima vestigia, e cioè la generica riproduzione della dinamica del Canzoniere di Petrarca, la mimesi del percorso che dal giovenile errore porta alla Canzone alla Vergine. Ma la parabola esistenziale e psicologica su cui, tra l’altro, si costruiscono i Fragmenta si è ormai svuotata di segno e di significato e si è tramutata in semplice collocazione tipografica: le rime spirituali vanno dopo quelle amorose.

29 Mr. Ma ad oggi non è stato possibile reperire il volume.

30 Si tratta di pratiche comuni alla tradizione petrarchista, assimilabili alla pratica del centone (su cui cfr.

Ersparmer 1987a). Esperimenti simili sono rintracciabili nel Discorso sopra tutti li primi canti d’Orlando

Furioso della poetessa Laura Terracina e stampati a Venezia dal Giolito nel 1549 e più volte ristampati

negli anni successivi, ma all’origine dell’ottava siciliana non sarà stata estranea la pratica spagnola della

glosa.