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5. Metrica e stile

5.1. La questione della forma

Canzuna è il termine tecnico che il petrarchismo dialettale siciliano utilizza per

indicare «un componimento lirico monostrofico che utilizza la forma metrica dell’ottava siciliana».1 I repertori metrici, solitamente, catalogano questa forma sotto

la voci di strambotto o ottava lirica. Dal punto di vista della struttura è un’ottava di endecasillabi, con schema rimico ABABABAB e si distingue dalla più nota ottava toscana (di fortuna più specificamente narrativa), proprio per l’assenza del distico finale a rima baciata CC.

Non è mia intenzione affrontare quella che Carlo Dionisotti, più di quarant’anni fa, ha con tragica premonizione chiamato la «mal fatata questione»2 dell’origine

dell’ottava e dei suoi usi nell’italiano antico. Tanto più che la querelle, che pure ha coinvolto alcuni trai massimi ingegni dell’Accademia italiana,3 rimane ancora

sostanzialmente irrisolta nei suoi dati fondamentali. E il problema si complica ulteriormente per l’ottava siciliana che – tradizionalmente considerata come forma poetica di origine popolare – entra di diritto in un’altra insoluta querelle, quella sull’origine dello strambotto.4

Per quanto riguarda la canzuna mi pare che occorra separare liminarmente alcuni termini della questione e fare di questa forma un oggetto di studio isolato. Approfondire le sue specificità permette infatti di ottenere alcune risposte che invece, se inserite nei due grandi macrosistemi storia dell’ottava e/o storia dello strambotto, rischiano di andare perdute.

Innanzitutto bisogna indicare con forza la frattura che esiste tra la concezione che della canzuna avevano i petrarchisti siciliani e il suo profilo evolutivo e letterario che siamo in grado di tracciare noi studiosi moderni. La canzuna, almeno dall’Asmundo in poi, è intesa come forma metrica colta, come prodotto eminentemente letterario, poesia per essere ‘letta’, al massimo ‘recitata, declamata’, ma ormai definitivamente separata – sulla scorta della lirica nazionale5 – dal ‘canto’ e dalle forme della poesia

per musica.

Nelle poetiche e nelle intenzioni dei poeti siciliani, la canzuna era una forma lirica tradizionalmente attestata in Sicilia, di antichissima origine, e utilizzata già dalla Scuola Siciliana. Questa situazione, per quanto storicamente falsa, era all’epoca comunemente accettata, come dimostra anche Bembo:

Sono regolate altresì quelle, che noi Ottava rima chiamiamo per questo, che continuamente in otto versi il loro componimento si rinchiude; e queste si crede che fossero da’ Ciciliani ritrovate, come che essi non usassero di comporle con più che due

1 Grasso 1996, 229. 2 Dionisotti 1964, 113.

3 Oltre a Dionisotti, cfr. anche Limentani 1961, Roncaglia 1965, Picone 1977, Gorni 1978, Balduino

1982 e 1984, cui risponde Gorni 1993a. Per una sintesi della questione cfr. invece Menichetti 1984. Per le tipologie dell’ottava cfr. Beltrami 1991.

4 Fra la molta bibliografia cfr. almeno Ortolani 1898, D'Aronco 1951, Toschi 1951, Li Gotti 1949, Li

Gotti 1951-1953, Ruggieri 1953 e, da ultimo, Cirese 1988.

rime, perciò che lo aggiungervi la terza, che ne’ due versi ultimi ebbe luogo, fu opera de’ Toscani.6

Al che, Dionisotti non può che chiosare:

Il Bembo parla di Ottava rima, tacendo il nome dello Strambotto, che pur era una delle forme liriche più in favore nella poesia cortigiana dell’età sua, quella poesia che le Prose

della volgar lingua mirano a distruggere. Tacendo il nome, egli è però il primo a definire la

cosa, distinguendo bene l’Ottava toscana o rispetto, su tre rime (ABABABCC), dall’originario strambotto siciliano su due rime (ABABABAB). Esempi di questo, rari, si

trovano ancora nei canzonieri tardo Quattro e primo Cinquecenteschi (ad esempio in Serafino Aquilano), ma la sua sorte era segnata per il successo travolgente, narrativo e lirico, della forma toscana.7

E, d’altra parte, scegliere l’ottava lirica siciliana come equivalente della forma- sonetto, appare un atto in funzione apertamente anti-bembesca. È, assieme a quella linguistica, l’altra grande ‘trasgressione’ del petrarchismo siciliano rispetto al modello peninsulare. Se la poesia toscana, che i petrarchisti siciliani – sulla scorta delle poetiche municipali dell’Arezzo – intendono orgogliosamente come decadimento della più antica poesia siciliana, si è impadronita del sonetto (questo sì, storicamente, autentica ‘invenzione’ siciliana), i poeti siciliani moderni non potranno che concentrare i loro sforzi sull’altra forma considerata ‘antichissima’: la canzuna, appunto. Questa genealogia ideale che collegherebbe il petrarchismo dialettale direttamente ai poeti della Magna Curia doveva trovare conferma in alcune sillogi manoscritte che circolavano nella Penisola tra Quattro e Cinquecento e che dovevano portare, mescolate, poesie di autori antichi e moderni (tipologia, come abbiamo avuto modo di vedere, tutt’altro che rara). È questo l’errore in cui, secondo Ludovico Castelvetro, è incorso lo stesso Bembo:

io dubito assai che il Bembo non estimasse che la lingua ciciliana, onde si credono havere origine le rime italiane non fosse quella di messer Guido Giudice da Messina et degli altri di que’ tempi, o simile, ma quella nella quale sono scritti alcuni versi, li quali in Roma dell’anno MDXL mi furon mostrati per antichi et come fossero della primiera lingua ciciliana et reputati per tali da messer Pietro Bembo, secondo che mi fu detto, di cui erano gli originali, ma io me ne feci beffe et fo, conoscendo chiaramente che erano scritti in lingua ciciliana moderna di contado, et in iscrittura moderna.8

La semplice presenza, tra un sonetto di ‘messer Giudo Giudice da Messina’ e una canzone di Stefano Protonotaro, di una canzuna quattrocentesca o proto- cinquecentesca avrebbe definitivamente creato il legame. E tali canzuni ebbero una loro, anche se minoritaria, circolazione, come testimonia il codiccillo di ottave rinvenuto da Corrado Bologna nella biblioteca di Angelo Colocci.9

6 Bembo, Prose II xi

7 Bembo, Prose II xi, n. 4 pp. 151-52. 8 Castelvetro, Giunta 174-75.

9 Cfr. Bologna 1986, 128-29, in cui lo studioso si chiede chi mostrò «per antichi» quei versi a

Castelvetro e avanza le ipotesi che si sia trattato proprio di Colocci. Devo la testimonianza della presenza del ms. nella biblioteca di Angelo Colocci a una conversazione privata con lo stesso Bologna, che qui ringrazio. Di questo lo studioso aveva trattato nel suo La biblioteca di Angelo Colocci, intervento al Convegno Riscrivere e riusare: Angelo Colocci e le Origini della poesia europea (Roma, 16-18 maggio 2002). Tale intervento non figurerà negli Atti (in corso di stampa presso i tipi della Biblioteca Vaticana); al suo posto si troverà un omonimo contributo di M. Bernardi.

Tutto questo, ovviamente, non implica che nella storia che dall’ottava siciliana porta alla canzuna non ci sia posto per l’influenza della poesia popolare. Al contrario.

L’ipotesi di partenza potrebbe essere quella per la quale, in un panorama di solida diffusione dell’ottava popolare, “siciliana”, nell’Isola, e dello strambotto in diverse parti d’Italia (Napoli!, e un nome su tutti: Serafino Aquilano), e in un momento in cui ogni lingua che non fosse toscana cercava di cambiar pelle (un altro nome: Giustinian), a un Bartolomeo d’Asmondo e a un Giovanni Nicolò Rizzari – che, dopo sfocate testimonianze di secondo Quattrocento, inaugurarono la maniera del canto lirico non popolare, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in una Catania divenuta non da molto sede universitaria – non fosse sfuggita la diversione in direzione lirica e della poesia d’arte che in Toscana stava interessando da qualche decennio lo strambotto.10

L’ipotesi, nel complesso, tiene. Tanto più che l’uso di singole ottave liriche (indipendentemente dallo schema siciliano o toscano) poteva contare sugli esempi illustri di Poliziano e dello stesso Bembo.11 Come al solito – ed è questo il maggior

problema delle ricostruzioni sull’origine dell’ottava e dello strambotto – mancano attestazioni medievali di ottave siciliane, tanto sul versante culto che su quello popolare. Balduino, cercando le prime attestazioni di tale forma nel «volgare del sì»,12 risale

addirittura alla cobla italiana del contrasto plurilingue di Rimbaut de Vaqueiras (Eras

quan vey verdeyar),13 che però ha metri non endecasillabi. Per questi bisogna aspettare la

lauda L’omo fo creato vertüoso di Iacopone14 e, quindi, il famoso epitaffio per la regale

Giulia Topazia del Filocolo.15 Poi nient’altro fino al Quattrocento e, cosa per noi

ancora più importante, nessuna traccia di componimenti di questo tipo in Sicilia. Sappiamo però16 che proprio, tra fine Trecento e inizio Quattrocento, si crea una

grossa confusione terminologica tra denominazioni comuni, oggetti e i nomi tecnici che per quegli oggetti cominciano a stabilizzarsi nei coevi trattati metricologici (Antonio da Tempo su tutti). Gli oggetti in questione sono, evidentemente, le varie canzoni, ballate e

laudi, che indicano tanto una forma metrica quanto la sua forma melodico-musciale

di esecuzione. Questa confusione terminologica, poi, in particolare, portava ad altrettanto ingarbugliate intitolazioni che mal distinguono tra forme colte e forme popolari. La ballata, p. es., poteva venir chiamata canzone perché performata in un contesto di canto e ballo, tanto più che una stanza di canzone e una ballata potevano essere indistinguibili per forma; molte laudi, poi, proprio a cominciare da Iacopone, sono su forma di ballata, ecc. Epitome di queste difficoltà di armonizzare le cose con i

nomi che le denotano è proprio lo strambotto che, dalle prime classificazioni

carducciane fino agli studi critici pienamente novecenteschi, viene a indicare oggetti molto diversi tra loro.17

Possiamo riassumere nel modo seguente i termini fondamentali della questione: il rapporto e lo scambio tra forme e repertori poetico-musicali di origine folklorica e le corrispondenti manifestazioni “colte” costituiscono una costante all’interno della

10 Grasso 1996, 230.

11 Nonostante le ‘trasgressioni’ metriche e linguistiche, la dichiarata visione municipale della superiorità

del Siciliano sul Toscano e i ritardi provinciali di cui si è detto, l’adesione dei Siciliani alle poetiche e ai modelli d’oltrestretto non viene mai, di fatto, messa in discussione.

12 Balduino 1984, 35.

13 N° 16 di Linskill 1963, 191-98. 14 N° 3 di Mancini 1977, 10 ss. 15 Boccaccio, Filocolo I, 43.

16 Per una più compiuta disamina di questi complessi fenomeni, cfr. Zuliani 2003 e 2006. 17 Cirese 1988, 49 ss.

tradizione culturale italiana [...]. Una propaggine estrema di questo tipo di rapporto ricompare – in tradizione scritta – verso la fine del XV secolo, negli “strambotti”, nei

“capitoli”, e in altre simili forme poetico-musicali, quel repertorio che si definisce genericamente come “frottola”, nel quale appunto il rapporto con la tradizione folklorica è ancora una volta testimoniato, oltre che sul piano linguistico (testi con forti inflessioni dialettali) e metrico (prevalenza assoluta di strofe di ottonari e di endecasillabi, con l’uso di rime alternate oppure addirittura della monorima, spesso tronca).18

Le misure essenziali di queste poesie tendono poi a fossilizzarsi progressivamente sull’ottava di endecasillabi per la pressione delle forme della poesia colta.

Ad oggi nessuna testimonianza documentale collega chiaramente l’ottava (tanto

siciliana che toscana) a forme meridionali di canto monodico popolare. Le prime

testimonianze, tutte colte, di presenza di ottave-strambotti nell’Italia meridionale risalgono alla fine del Quattrocento. È molto probabile che tali forme esistessero, ma nulla lo dimostra e niente indica come e in che misura queste forme monodiche (grossomodo sul tipo delle ottave e ottavine moderne)19 si siano mischiate o abbiano

influenzato l’imporsi dell’uso letterario ‘alto’ delle canzuni.20 Permangono, inoltre, le

solite difficoltà e confusioni terminologiche:

Antonio Veneziano intitolò ‘strambotti’ o ‘canzune’ o come altro le sue ottave? Si potrebbe continuare a lungo nel proporre domande: sul fatto che gli ‘strambotti’ [...] si collocano chiaramente in ambiente signorile e non popolano, ed hanno l’aria di prodotti ‘regionali’ , piuttosto che ‘popolari’ al modo dei romantici; sui tempi, i modi ed i livelli socio-culturali della ‘voga’ degli strambotti; sul declino negli ambienti più raffinati (l’operazione Bembo [...]).21

Sulla stregua dell’ottimo lavoro di Cirese sarà più utile cercare di separare la storia dello strambotto in due sequenze cronologiche dai tratti ben distinti: una fase pre- rinascimentale dello strambotto, in cui questa etichetta indica componimenti di vario tipo, irriducibili dal punto di vista della metrica e di genere non-amoroso; e una seconda fase, già quattrocentesca, che riguarda più da vicino forme di cui anche la

canzuna siciliana fa parte. La loro presenza, con questo nome, è attestata dal poeta

quattrocentesco Nicolò Tornabene22 e, già l’Arezzo propone l’identità tra canzuna e strambotto: «Essendo in Alamagna fu pregato chi facissi una strambotta, a li quali

risposi per chista canzoni».23

18 Petrobelli 1986, 232-33. 19 Su cui vd. Kezich 1986.

20 Interessante, da questo punto di vista, un testo siciliano antico come il Lamento di parte siciliana

(Qaedam profetia), risalente almeno alla metà del XIV sec. (ma alcuni studiosi anticipano la datazione). Salvo errore, nessuno studioso ha fin’ora messo in relazione questo componimento con la storia dello

strambotto e dell’ottava siciliana, eppure è composto da quartine di doppi settenari con schema A(7) + B(7)

(cfr. l’incipit: «O Fortuna fallenti, pirkì non si’ tuta una? | Affachiti luchenti, et poi ti mustri bruna; | non riporti a la genti sicundo lor pirsuna, | ma mittili in frangenti pir tua falza curuna») che se scomposto all’altezza degli emistichi darebbe (tanto alla lettura che all’ascolto) una perfetta ottava di settenari con schema ABABABAB. Si cita da Cusimano 1951-1952.

21 Cirese 1988, 118. Con ‘operazione Bembo’ lo studioso intende quel processo di marginalizzazione

di alcune forme liriche cui accennava Dionisotti nel suo commento al passo delle Prose citato più sopra (cfr. n. 7).

22 Vedi la canzuna 10 in Lampiasi 1986. 23 Arezzo, Osservantii [sez. con i testi] c. 3r.

Forme simili, in quegli stessi anni, sono piuttosto comuni nell’area napoletana.24 E

sembra possibile sulla scorta di una ideale trafila Giustinian-Poliziano-Aquilano, tracciare un percorso di propagazione nord-sud, parallelo a quello proposto da Barbi25 per il canto narrativo (questo di origine francese).

A questa trafila illustre doveva correre parallelamente una trafila di natura più schiettamente popolare, in cui lo strambotto doveva indicare una forma sia melodica che metrica piuttosto standardizzata nell’uso. Lo dimostrerebbero gli incunaboli stampati a Firenze tra il 1485 e il 1495 e studiati da Zuliani. Si tratta di:

testi religiosi, legati alla devozione popolare, destinati ad essere intonati su melodie in voga, il più delle volte profane: prima di ogni lauda, l’edizione riporta l’incipit del motivo su cui il testo va cantato. Spesso sono canzoni popolari [...], e canzoni francesi [...]. I frequenti testi in quartine di endecasillabi (non solo in forma di rispetti, e composti da rime piane) sono preceduti da una formula fissa, di solito “cantasi come gli strambotti e come tutte le laude et chanzone che sono versi misurati”.26

Quello che è certo, di nuovo, è che gli autori di canzuni intesero questa forma metrica come prettamente ed esclusivamente poetica, colta, caratterizzante (per i distorti motivi storico-culturali visti sopra) il proprio modo di fare poesia:

L’ottava di endecasillabi a rime alterne, che prende dalla fine del Quattrocento il nome di canzuna, è la forma esclusiva della poesia petrarchesca in siciliano. Una così drastica limitazione dello spazio metrico non è però orientata in direzione popolaresca, così come non implica nessun cedimento all’espressività naturalistica di tipo dialettale. Quella che ha l’apparenza di una trasgressione è in realtà fin dall’inizio la prassi aristocratica di una ideologia [...] orgogliosamente impegnata a riannodare le fila di una prestigiosa storia culturale e a fondare in virtù di quella, una tradizione letteraria di spiccata individualità e di alta tensione formale.27

E altrettanto certo è il fatto che questa tradizione letteraria ebbe – come già quelle dell’ottava narrativa ‘toscana’ – un’enorme fortuna sulla tradizione poetica popolare, che si impadronì dei suoi componimenti e dei suoi autori, in particolar modo – ovviamente – di Antonio Veneziano, diventato di diritto ‘maschera’, ‘santo’ del popolo siciliano:

il suo nome invase il regno della leggenda e della fantasia popolare, e, come accade con Virgilio a Napoli, Ovidio negli Abruzzi e Boccaccio a Certaldo, conquistò la fama di mago. Il popolo non soddisfatto di considerarlo come poeta prodigioso, lo credette senza pari quando era in vita, ed insuperabile dopo morto, come se avesse dato prove di grande esperienza e saggezza, e perciò da secoli corre il detto proverbiale: E s’un

t’abbasta lu to’ sentimentu, | Va’ pri consigghiu nni Vinizianu; e se si tratta di cose facile da

capire, Nun c’è bisognu di Venezianu.28

Questa fama ha comportato che un buon numero delle creazioni di Veneziano (ma non solo) sia entrato di diritto nel repertorio della poesia popolare, e ciò non riguarda solo i suoi Proverbi (che tematicamente meglio si prestavano a tale inclusione) ma anche alle sue canzuni di argomento lirico-amoroso.

24 Cfr. Altamura 1962 e 1978, Spongano 1971, Santagata 1974 e, da ultimo, Rossi 2002 e 2005. 25 Barbi 1911, 13 ss.

26 Zuliani 2003, 106. 27 Rinaldi 1995, 62-63.