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5. Metrica e stile

5.4. Metro e sintassi

5.4.3. L’organizzazione interna del verso

La pressione del ritmo binario che abbiamo visto operare nei rapporti tra metro e sintassi non può che ritrovarsi immutata nella struttura del singolo verso. È questa un’inerzia strutturale che, a partire dallo schema metrico pervade ogni singolo elemento costitutivo della forma-canzuna.

Non varrà certo la pena, a questo punto, dare una documentazione esaustiva di un fenomeno di cui si sono ormai ampiamente declinati aspetti, ampiezza e portata. Cerchiamo piuttosto di vedere sul campo le ricadute testuali di quanto andiamo dicendo. Prendiamo, quasi a caso, alcune canzuni. Dico, ‘quasi a caso’, perché componimenti di questo tipo si trovano a ogni pagina, a una semplice apertura di libro:

Comu farremu, cori, a li martiri ch’Amuri adduma a lu sinistru xhiancu? Vulemu forsi a li lagrimi diri

chi ndi li rifriddassiru a lu mancu? Anzi no, ricurremu a li suspiri

chi xhiuxhianu, e lu xhiuxhiu mai sia stancu: un focu lentu mai veni a finiri,

ma quandu è violenti dura mancu. Ven 7

Chista vitturiusa mia ’nnimica, chi di miu mali triunfa ed esulta, forz’è ch’amarla li mei voghi chica perchì la tegnu ’n mezu l’alma sculta. Idda tal xhiamma in pettu mi nutrica, chi tantu chiù m’offendi quant’è occulta. Iu l’amu, e l’amirà poi ’n forma antica

lu nudu spirtu, e la carni sepulta. Ven 9

Possiamo osservare, anche solo a una prima lettura come la maggior parte dei versi sia bipartito e come questa bipartizione tenda a essere isocolica e cioè a dividere il verso due emistichi di lunghezza equivalente: Ven 7, vv. 2,3 e 6; Ven 9, vv. 2,3,6 e 9. E ancora possiamo notare come questi versi bipartiti tendano a formare sequenze compatte, di preferenza in fine di componimento:

Non già li mei, l’arduri toi su’ muti, ch’Amuri lagrimandu li manteni, iu tandu addumu quandu tu t’astuti,

e da lì possano risalire verso la cima dell’ottava: Oh d’Amuri ’ncridibili e stupendu

miraculu ch’in mia sulu scumboghiu:

chì di la Donna mia cuntenti essendu mi ndi tegnu scuntenti e mi ndi doghiu! Bramu la grazia sua, la grazia havendu, la chiamu infida ed è di fidi un scoghiu, non sacciu infini chi cosa pretendu,

chiangiu, suspiru, e nd’haiu zoccu voghiu. Giuf 20

fino a incontrare componimenti che della bipartizione fanno la ragione della propria struttura:

Si l’infocati, ardenti mei suspiri e si li mei dughiusi e longhi chianti, e si l’aspri mei doghi e li martiri non rumpinu ssu pettu di diamanti, móviti, ’ngrata, vidiri muriri lu chiù fidili d’ogni fidu amanti e, si non pr’autru, perchì s’haia a diri

chi sanau ad unu, chi nd’aucisi tanti. Busc 15

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad alcune dinamiche già incontrate nelle pagine precedenti. Abbiamo a che fare con una struttura che richiama immediatamente Petrarca:

Pace non trovo, et non ò da far guerra; e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio; et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;

et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio. Rvf 134,1-4

Ho scelto volutamente un locus notissimo perché buona parte degli stilemi messi in campo dai nostri poeti mira proprio a riferisi esplicitamente agli equivalenti macrofenomeni petrarchisti, piuttosto che a una loro più sottile citazione e/o allusione. D’altra parte, questo modulo petrarchesco consiste e insiste proprio sul solito modulo AB che, dal distico della forma-canzuna, tende a ripetersi in ogni suo componente interno fino ad arrivare al singolo emistichio, come dimostra l’alto numero di dittologie (sinonomiche e non) che si ritrovano nelle canzuni (in questo, per altro, intercettando una dinamica tipica anche del petrarchismo peninsulare):

triunfa ed esulta (Ven 9,2), ’ncridibili e stupendu (Giuf 20,1), dughiusi e longhi (Busc 15,2),

ecc..

Questo modulo tende a innestarsi sulle usuali strutture coordinative semplici: lu

nudu spirtu, e la carni sepulta (agg.+n. e agg.+n. > ABAB), o sulla giustapposizione di sintagmi che non perturbano l’ordo verborum («ch’Amuri adduma a lu sinistru xhiancu»,

Ven 7,7), ma più spesso notiamo come gli autori di canzuni tendano a ‘retoricizzare’

queste bipartizioni tanto sul piano semplicemente grammaticale, creando p. es. una dipendenza sintattica trai due membri («non sacciu infini chi cosa pretendu», Giuf 20,7), tanto organizzando i due emistichi in strutture correlate:

ma quandu è violenti dura mancu. Ven 7,8

iu tandu addumu quandu tu t’astuti, Pot 23,7

È questa una contromisura stilistica applicata dai poeti del nostro corpus per contrastare le derive più evidenti di questo fenomeno di continua addizione binaria: il rischio di ripetitività e di noia, e il rischio che – data la generale ‘facilità’ riscontrabile nei singoli componimenti – la canzuna non abbia una struttura sufficientemente densa dal punto di vista stilistico per sussistere. Ecco così che la tornitura retorica di cui abbiamo notato la sostanziale assenza in termini di dispositio e di fenomeni interversali ritorna, se non prepotentemente, almeno con maggior forza proprio all’interno di ogni singolo verso.

Si tratta, per lo più del tradizionale repertorio di anastrofi e iperbati tipici della tradizione lirica italiana che, in questo caso, servono a isolare a inizio e in punta di verso i due componenti così da creare una tensione che tenga insieme il verso:

Vulemu forsi a li lagrimi diri Ven 7,3 V... Inf.

chi di miu mali triunfa ed esulta Ven 9,2 Rel.... V + Ditt. Idda tal xhiamma in pettu mi nutrica Ven 9,5 S... V

o ancora di quei fenomeni di ripetizione, chiasmo o epifrasi volti a connotare il verso dal punto di vista stilistico:

chi xhiuxhianu, e lu xhiuxhiu mai sia stancu: Ven 7,6

Iu l’amu, e l’amirà poi ’n forma antica Ven 9,8

Non già li mei, l’arduri toi su’ muti, Pot 13,5 TU per mia t’ardi, ed IU per lu miu beni. Pot 13,8

per fare solo alcuni degli esempi possibili fra quelli rintracciabili nei frammenti presi come specimen. O ancora, per uscire dai componimenti esemplificativi fin qui utilizzati, da sequenze fortemente allitteranti:

e TAli SIA di TIASI non TI sai

difindiriTITUTAnTOTESOru. Giuf 9,7-8

Con ciò non si vuole certo affermare che la bipartizione sia l’unica modalità che la

canzune conosca. Anzi, tricola ed enumerazioni sono abbastanza frequenti:

Poi varia a l’atti, a l’occhi, a lu parlari:

o taci, o sta grundusa, o guarda tortu. Ven 11,5-6

Oh chi tortu, oh ch’erruri, oh chi fausia, Ven 12,5

vorgio animuli, stiddi, roti e fusa Ven 116,8

mia stidda, luna, suli, anzi: miu celu? Ven 119,8

per limitarci a ess. dal solo Veneziano. Né che manchino strutture volutamente improntate di una retorica dell’obscuritas: «Di peni Amuri d’Amanti si paga» (Ven 77,8) la cui forma piana sarebbe: Amuri si paga di peni d’Amanti. Ma il fatto è che tali scelte stilistiche, oltre che a essere numericamente trascurabili sembrano essere del tutto estemporanee. Esibizioni di virtuosismo, pezzi di bravura, più che vere e proprie politiche di organizzazione di un verso che, di per sé, rimane generalmente sempre improntato a quella ‘facilità’, a quella dulcedo così volutamente vicina all’idea che i

poeti siciliani avevano di poesia lirica (anche in senso di poesia petrarchista), ma di fatto così intimamente anti-petrarchesca e anti-manierista.

Conclusioni

Nel leggere questa prima parte introduttiva si percepisce una forte impressione di scollatura tra le due principali parti che compongono queste pagine: quella storico- letteraria e quella che analizza i fatti linguistici e metrico-stilistici.

Nella parte letteraria si è molto insistito sul forte influsso del petrarchismo sulla poesia siciliana tanto in dialetto tanto in lingua. Si è cercato di sottolineare l’importanza di questo influsso declinandone le fondamentali fasi di importazione, acclimatazione e riproposizione nell’Isola. Questo petrarchismo – che senz’altro si è inteso in blocco come categoria critica troppo univoca – è stato proposto come chiave di lettura del riposizionamento della cultura letteraria siciliana nei confronti della realtà politico culturale in cui era inserita: in bilico tra opposte influenze dominanti, quelle politico-religiose della governante Spagna e quelle culturali e letterarie dell’imperante e italiana Repubblica delle lettere. In particolare, si è individuato nel petrarchismo la causa scatenante e reattiva di quell’imponente fenomeno poetico che è la produzione canzunistica. Senza Petrarca e senza il petrarchismo (che continueremo giocoforza a considerare come una macrocategoria storico-letteraria onnicomprensiva) non si capisce il sottile equilibrio tra spinte omologanti al modello e tendenze centrifughe allo scarto che caratterizzano tutta questa produzione. La poesia quale esce dai Fragmenta e quale viene incanalata da Bembo, che la fa ipso facto coincidere con la tradizione poetica italiana (e, per buona parte del percorso almeno nella prima metà del Cinquecento, anche con la Storia della lingua italiana), rappresenta per i poeti siciliani un’attrazione cui non possono resistere ma che preferiscono introiettare dopo averne riconnotato alcuni dei suoi tratti fondamentali nei termini di una ‘sicilianità’ sentita e, al tempo stesso, proposta come ideale, come unica modalità di lettura possibile rispetto a istanze intellettuali provenienti dall’esterno.

Nella seconda parte, invece, non si è fatto che osservare come, in praticamente ogni componente dello stile, gli autori di canzuni si distacchino dal modello petrarchesco e petrarchista per aderire a modelli (o sarebbe forse meglio dire: a singole scelte) stilistici più o meno inconsciamente pre-petrarchisti. Spesso si sono usati i termini trobar leu, dulcedo, facilità, opposti tanto all’aurea medietas (comunque tendente allo stile tragico) della lirica petrarchesca,1 tanto ai più ardui fenomeni e

stilemi della gravitas cinquecentesca. Si è inoltre parlato di una poesia che più che guardare ai contenuti intrinseci del Canzoniere si limita al recupero di alcune tessere del suo mosaico, di alcuni frammenti testuali, di brandelli di quella storia psicologica (storia di un io poetante) di cui è composto; e che allo stesso modo non si sofferma ad analizzare nel profondo le fondamentali rielaborazioni del modello compiute dal canone cinquecentesco e che nemmeno, per ritardo provinciale, si interessa alle innovazioni a lei contemporanee o subito precedenti. Mi riferisco evidentemente alle poetiche del barocco che, principalmente tramite gli exploit del Cavalier Marino, stanno portando in Italia, tra mille reazioni, a un nuovo modo di fare poesia, ma anche, però con minor evidenza, alle implicazioni poetico-formali legati alle innovazioni metrico-meliche di un Chiabrera.

Gli autori di canzuni sembrano sempre attardati ad osservare, con sguardo peraltro superficiale, le poetiche del passato. In epoca tardo-rinascimentale scoprono

Petrarca, ma paiono interessati più al suo apparato elocutivo fatto di coppie antifrastiche, enumerazioni, e quant’altro che a esplorarne le intime connessioni poetico-stilistiche come aveva fatto il Manierismo continentale. E, a mio avviso, coglie precisamente il punto Rosario Contarino2 quando, riprendendo un’espressione

di Veneziano (Ven 18,8), parla di ‘picciuli camei’ del petrarchismo siciliano, che del modello riprende principalmente gli aspetti decorativi, stilizzati e come fissati una volta per sempre (e, beninteso, il più delle volte splendidi). In pieno Seicento, invece, la poesia dialettale siciliana scopre il Manierismo, scopre Tasso, ma ancora una volta finirà per interessarsi agli alpestri scoghi (Scim 53,3), ai riti magici (Tri 14 ss.), alle declinazioni più esteriormente patetiche di quel canone lirico che farà inconsciamente reagire con alcuni tratti, ancora una volta superficiali, di un malinteso ‘marinismo’; e allora avremo le Iliadi miniaturizzate (Migl 1), i monstra, gli eccessi tematici (tanto lirici quanto devozionali) e stilistici, con il gonfiarsi smisurato e iperbolico dei fatti retorici a ogni loro livello (inventio ed elocutio, figure di pensiero e di parola, ecc.). Il Manierismo poetico finisce in poesia manierata, la retorica che soggiace nel tessuto della lirica e la innerva diventa ‘retorica’ nel senso deteriore del termine.

Verrebbe insomma quasi da pensare che quella analizzata nei capitoli secondo e terzo sia una produzione diversa da quella affrontata nel quinto, oppure, molto più banalmente, che l’intero lavoro comporti un’impostazione critica completamente sbagliata.

E invece credo proprio che questa scollatura sia una delle chiavi di lettura privilegiate per affrontare complessivamente il fenomeno canzuna, in quanto le ragioni intime, i tratti caratterizzanti di questa produzione risiedono proprio nella differenza che separa l’idea di Petrarchismo e le forme della sua ricaduta nella produzione poetica. Ed è proprio in questo grado di separazione – che i petrarchisti dialettali siciliani sembrano non cogliere nell’intera sua portata – che risiede forse l’interesse più grande che questo tipo di produzione poetica può offrire allo studioso contemporaneo, al di là di una pur importantissima ricognizione di un fenomeno lirico enorme e sconosciuto. Voglio dire che questa è una pagina del Petrarchismo italiano per la quale non si dovrà parlare di maggior o minore fortuna, ma di sostanziale fallimento, la cui causa andrà, probabilmente, ricercata ancora una volta nella distanza tra poetiche, ideologie e realizzazioni.

Quello di cui i nostri autori sembrano non accorgersi (o che decidono consapevolmente di ignorare) è che la scelta di Bembo risulta vincente proprio perché, in qualche modo, inevitabile. Ha visto bene Baldacci: l’adesione al petrarchismo coincide inevitabilmente con un qualche tipo di «crociata di conquista linguistica»,3 nel senso che il confronto con Petrarca è il confronto serrato con la sua

lingua e con le forme della sua poesia, battaglia che ogni poeta italiano deve intraprendere per conquistare gli strumenti del mestiere e i gradi necessari per aver diritto all’accesso nella comunità dei poeti. Dopo l’esperienza dei Fragmenta la lingua della lirica non può tornare indietro, proprio perché non ha alle spalle un territorio statuale unificato, una lingua nazionale su cui appoggiarsi, parlata più o meno da tutti, come è, p. es., il francese nella Francia di Corneille e Racine.

Di questo si accorge perfettamente Ariosto che passa il suo Furioso al vaglio delle

Prose bembesche, e su questo si gioca in parte la tragica vicenda, anche biografica, di

Tasso, che cercherà di far convergere nella Liberata/Conquistata tutte le sublimità della

2 Cfr. Contarino 1996. 3 Baldacci 1975, VII.

poesia: quella lirica, quella epica, quella tragica e quella religiosa. Di questo sembrano non accorgersi gli autori di canzuni, tutti presi dall’euforia di aver messo a punto un sistema poetico che dal richiamarsi a Petrarca riceve una sorta di giustificazione, ma che rispetto ai modelli dominanti d’oltrestretto si riqualifica interamente con connotati propri, marcatamente isolani.

La loro esperienza poetica si gioca tutta nella schizofrenica opposizione – in questo senso autenticamente rinascimentale e siciliana, nel senso della lettura di Sciascia – tra adesione ai modelli dominanti (insomma: la liggi, sia essa rappresentata da Petrarca, dalla Spagna o dalla Santa Inquisizione) e continuo tentativo di levare loro il terreno da sotto i piedi. È a questa dinamica che si deve il coincidere di molti dei dati stilistici ricavati dal nostro corpus tanto con il repertorio della tradizione lirica duecentesca, tanto con quello della tradizione canterina ed epico-cavalleresca ante Ariosto. Varrà forse la pena qui di ripetersi: non si tratta di una precisa adesione a modelli eterodossi rispetto alla canonizzazione trecentesca prima e cinquecentesca poi, il fatto è che gli autori di canzuni, mentre si inchinano devoti davanti al modello Petrarca-petrarchismo, contemporaneamente se ne allontanano (senza ovviamente mai voltargli le spalle, come si fa con i regnanti) e vanno così a fare inevitabilmente coincidere i modi della loro poesia con quelli della poesia che precede le grandi modellizzazioni (Petrarca e Bembo, soprattutto nel senso della rilettura e riscostruzione bembesca del Canzoniere). Ma, come direbbe Shakespeare, «è proprio qui l’inghippo», perché se per i Siciliani, i Siculo-Toscani e gli Stilnovisti (ma, in fondo, anche per un Boiardo) tali scelte erano obbligate da un sistema ideologico- poetico ben definito, pervasivo, storicamente giustificato e, soprattutto, coerente, e da un equivalente sistema stilistico che, tra l’altro, stava giorno per giorno facendo i conti con i moduli e i mezzi di una poesia che si andava, letteralmente, facendo sotto le loro penne, per i siciliani del XVI e XVII sec. queste scelte rappresentano una fuga verso luoghi poetici che non trovano adeguate giustificazioni per consistere, né dal punto di vista delle poetiche, né per quanto riguarda le ideologie e i rapporti con la tradizione, e nemmeno rispetto a quegli elementi intrinseci della loro poesia che sono la loro forma e il loro contenuto.

È come se questa poesia dialettale arrivasse ormai troppo in ritardo e si ripiegasse troppo presto su se stessa, sulla riproposizione dei propri moduli, per poter avere un respiro tale da superare gli (allora) angusti confini della Sicilia. Occorrerà aspettare il più compiuto inserimento dell’isola all’interno di dinamiche peninsulari (i Borboni prima, l’Unità d’Italia poi) perché anche la poesia dialettale raggiunga livelli nazionali, e basti qui fare il nome di Ignazio Buttitta.

Se volessimo ragionare con categorie crociane (pericolosissime proprio perché lasciate non perfettamente enucleate dal loro stesso autore) ci potremmo interrogare sull’appartenenza di questa produzione alla letteratura e, quindi, alla poesia. Il grande filosofo avrebbe probabilmente concesso la prima e negato la seconda, ma con dei distinguo. Perché se il giudizio complessivo rispetto al repertorio canzunistico non potrà che essere decisamente critico, è anche vero che da questo panorama si staglia almeno un grande poeta: Antonio Veneziano. E non a caso proprio Croce stroncherà Balducci (quantomeno il Balducci poeta in italiano) ma contemporaneamente proporrà (idea poi non realizzata) di pubblicare Veneziano presso Laterza, nella collana Scrittori d’Italia.

Come guardando un palcoscenico si assiste in Sicilia al contrasto di progressivi estremi nelle azioni e nel vocabolario, e di umiliati e offesi dalle riforme che prendono il linguaggio luttuoso e profetico degli spettri. Se potessimo essere osservatori estranei, diremmo che in Sicilia il mutamento di strutture diventa anche spettacolo, ricco di accenti drammatici ed anche comici.4

Piovene, come è chiaro, sta parlando d’altro e la citazione risulterebbe assolutamente pretestuosa se non fosse straordinariamente consonante con l’impressione ricevuta dalla stesura di questo lavoro. La drammatizzazione, la spettacolarizzazione interna a molte canzuni può diventare simbolo di quella lotta tra adesione e fuga dal modello di cui si parlava più sopra. E questa lotta, in fondo, si riverbera nei suoi lati positivi (comici) e negativi (drammatici) di questa sterminata produzione, che sfugge al circuito nazionale della stampa, che rimane pateticamente legata alla produzione manoscritta, e a modalità di trasmissione e produzione degne più della Magna Curia federiciana che di una propagine dell’Europa seicentesca e che si dibatte furiosamente tra Riforme (petrarchesche) e, soprattutto, Controriforme (religiose). Questo dibattersi dà come luogo a una sorta di balletto, una sorta di spettacolo teatrale che Galeano cercherà invano di fissare in modi definiti.

Si tratta di uno spettacolo ricco, e al tempo stesso luttuoso e spettrale perché mette in scena il proprio sostanziale fallimento, la propria larvale sopravvivenza (il proprio ‘sopravviversi’ come avrebbe detto Carmelo Bene) in un contesto provinciale e separato dal resto del mondo continentale. E però uno spettacolo che è valso la pena di vedere.

PARTE II

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