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Cittadinanza attiva-cittadinanza passiva, il sensodi una divisione

III. La società complessa

III. 8 Cittadinanza attiva-cittadinanza passiva, il sensodi una divisione

L’associazione di termini cittadinanza attiva non nasce nei nostri giorni. Già durante la rivoluzione francese, veniva introdotto all’interno della costituzione del 1891. Con esso si indicava con Il termine citoyen sia indicava sia il cittadino in quanto francese, sia il cittadino in quanto detentore elettore e detentore dei diritti politici, il cittadino attivo.

L’idea della cittadinanza che sembra emergere dagli articoli della prima Costituzione post-rivoluzionaria, sembra essere caratterizzata dalla sua idea sociale. Per i rivoluzionari francesi era impossibile ridurre la qualifica di cittadino alla mera dimensione giuridica. In quest’ottica, parlare di cittadinanza attiva, implicava il superamento la mera definizione giuridica e benedire la volontà all’azione del singolo. Per cui era cittadino attivo colui che esercitava un’attività economica o svolgeva il servizio di leva. In breve era un cittadino attivo colui che contribuiva alle spese o alla difesa della nazione. Questo però creava un palese discrimine fra i cittadini, in aperta violazione con l’uguaglianza che aveva ispirato come principio cardine la rivoluzione.

Nell’ottica della costruzione di una repubblica universale, in nome della dimensione sociale e politica che in Francia diventava dominante, sembrava essenziale differenziare i cittadini e gli elettori in attivi e passivi. La palese contraddizione fra il principio dell’uguaglianza e la divisione della cittadinanza veniva risolta con la soppressione di questa distinzione e con l’abbassamento dell’età per poter esercitare il diritto di voto. La divisione fra cittadini attivi e passivi portava con se una palese violazione dell’uguaglianza nell’appartenenza alla nazione. L’uguaglianza non era stata ancora sufficientemente realizzata all’interno delle istituzioni che si erano generate440.

Dagli anni immediatamente successivi alla nascita dello Stato nazione, sembrava essere stato stabilito che non potesse esistere alcun tipo di distinzione fra i cittadini per salvaguardare il principio dell’uguaglianza. L’abolizione di ogni classificazione della cittadinanza, sembra appalesarsi come necessità nei sistemi

politici egalitari per loro stessa definizione: le democrazie. Il mantenimento o la creazione di classi diverse di cittadini, comprometterebbe l’unità e l’uguaglianza su cui si basa la sovranità delle nazioni.

Presupporre l’esistenza di una cittadinanza passiva equivarrebbe al riconoscimento dell’esistenza di una maggioranza di persone di fatto escluse da ogni dinamica di partecipazione. Ciò significherebbe riconoscere l’esistenza di un’oligarchia condizionabile solo attraverso la creazione di “reti” in grado di influenzare il potere decisionale. In questo senso, i cittadini attivi finirebbero per costituire veri e propri gruppi di interesse, relegando quelli passivi ad una sorta di esilio, lontani dalla partecipazione ai processi decisionali. Così facendo si sancirebbe un’esclusione definitiva di una grossa parte dei cittadini dall’effettivo esercizio della sovranità. Per questo, in un paese democratico, non può esserci nessuna divisione fra cittadino e cittadino. La Costituzione italiana del 1948 stabilisce che:

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale441.

In base a questo articolo della Costituzione, vengono tutelati, senza alcuna differenziazione i singoli in quanto tali e viene tutelata la possibilità di associarsi. Nell’articolo successivo, il terzo, si va ancora oltre:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese442.

Dopo aver stabilito il principio dell’uguaglianza formale, fra tutti i cittadini davanti alla legge, si stabilisce anche l’impegno della Repubblica alla rimozione dei limiti di qualunque natura che si frappongono alla realizzazione del’uguaglianza. Per

441 Cfr. Articolo 2 della Costituzione Italiana. 442 Cfr. Articolo 3 Costituzione Italiana

cui ogni tentativo di differenziare la cittadinanza attraverso l’introduzione di qualunque tipologia di barriere sarebbe incostituzionale.

Fare riferimento all’esistenza di una cittadinanza attiva sembra dunque essere un errore che presuppone l’esistenza di una cittadinanza passiva, privata o autoprivatasi della sovranità conferitale dalla costituzione stessa, secondo la quale tutta la cittadinanza è attiva e depositaria di diritti.

Conclusioni

In definitiva, la definizione della sovranità data da Carl Schmitt non sembra facilmente accantonabile perché lo stato di eccezione non fa parte del passato. Se quotidianamente è possibile registrare all’interno delle democrazie occidentali una situazione in cui viene sospesa di fatto la costituzione, in cui al popolo sovrano è impedito di esprimersi, se è possibile l’insediamento di un governo non eletto, si modifica la costituzione e vengono imposti, agitando lo spauracchio della finanza, sacrifici alle fasce più deboli della popolazione, si assiste all’affermazione dello stato di eccezione come vero e proprio paradigma ordinario di tecnica di governo.

Per arrivare a questo punto, l’istituto dello stato d’eccezione ha subito una lenta trasformazione risultante da un processo evolutivo di lungo corso a partire dalla sua teorizzazione nel periodo fra le due guerre, pensata come risposta fallita alla crisi della democrazia. A causa dei totalitarismi alla fine della seconda guerra mondiale, i concetti di stato di eccezione e di sovranità apparivano ormai come privi di forza e sembravano dover essere definitivamente accantonati in nome dell’incompatibilità fra gli ordinamenti democratici costituzionali e il potere sovrano. Nelle costituzioni dell’era postbellica venivano enunciati principi di conservazione dell’ordinamento, norme e principi immodificabili, al punto da apparire esse stesse come detentrici della sovranità, se possibile anche più del popolo, in esse indicato come titolare443.

Dopo un’attenta analisi, sembra, invece, che non sia così. Anzi, tutte le teorie connesse alla sovranità cosiddetta assoluta nate a partire dalle elaborazioni di Hobbes e Bodin, che hanno trovato espressione nella celebre definizione schmittiana del sovrano come colui che decide sullo stato di eccezione, sembrano ritrovare vigore, rafforzandosi in quantità ed in intensità, nell’epoca contemporanea, in cui lo stato di eccezione e i campi che ne rappresentano la dimensione spaziale sono diventati un vero e proprio paradigma di governo.

443

A titolo d’esempio basta ricordare l’articolo 1 della Costituzione della Repubblica italiana che, dopo aver sancito che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, stabilisce: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione stessa». La costituzione, pur indicando in maniera inequivocabile il popolo come titolare della sovranità, pone dei limiti all’esercizio del potere della sovranità, quelli stabiliti dalla costituzione stessa che si autotutela.

L’esplodere degli effetti connessi alla globalizzazione economica, l’affacciarsi nella dimensione pubblica e politica della guerra al terrorismo globale e delle sue implicazioni contingenti e le crisi economiche indotte dalle grandi dinamiche speculative hanno creato uno stato di necessità costante, perpetuo. Questi fenomeni finiscono per amplificare la situazione di crisi degli istituti giuridici tradizionali, soprattutto quelli maggiormente esposti al cambiamento: la forma dello stato nazione, le funzioni del potere parlamentare-legislativo e la tradizionale distinzione col potere esecutivo, la cittadinanza come strumento di esclusione invece che di riconoscimento di diritti.

Abbandonare ogni riflessione sulla sovranità e su chi la detiene, considerare una norma come guida di una comunità, tralasciando di chiedersi chi nel caso concreto di un’emergenza è in grado di decidere se sospendere la norma per tutelarla, sembra decidere di non utilizzare uno strumento fondamentale per la lettura del mondo contemporaneo.

Porsi queste domande potrebbe contribuire ad analizzare i meccanismi che soggiacciono alle decisioni che condizionano la vita dei cittadini, teoricamente detentori del potere sovrano, praticamente in balia delle élites che governano. Questo significa indicare l’esistenza di un vero e proprio fossato che oggi tende sempre più a divaricarsi fra i principi democratici indicati all’interno delle costituzioni formali e le realtà oligarchiche che regnano e governano, mandando in crisi gli istituti democratici.