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5. Il dibattito pubblico sull'islam in Italia

5.5. Comitati di cittadini e NIMBY

In Italia, pressoché ogni dibattito sull’eventuale edificazione o apertura di una moschea ha visto una parte degli abitanti dei quartieri interessati esprimere la loro contrarietà e i propri timori riunendosi in comitati, organizzando assemblee e manifestazioni di protesta e, talvolta, raccogliendo firme per indire la consultazione dei residenti o per presentare ricorsi presso il Tribunale amministrativo regionale. Tali comitati, anche se agiscono localmente, hanno avuto un ruolo importante nel dibattito pubblico sull'islam e i musulmani perché hanno simbolicamente rappresentato un rifiuto "dal basso" della presenza e della visibilità dell'Altro musulmano e indirettamente hanno legittimato il discorso di coloro che si oppongono all'edificazione delle mosche o, addirittura, di coloro che vorrebbero limitare l'immigrazione islamica.

Spontanei o promossi da partiti politici o singoli opinion maker, i cittadini riuniti in comitati generalmente non negano il diritto al luogo di culto, anzi spesso riconoscono il pieno diritto dei musulmani ad avere una moschea, ma rifiutano che sia aperta o costruita nel quartiere in cui abitano. Quelle relativo alle moschee é un tipico atteggiamento o conflitto NIMBY (Not In My Back

Yard), ossia una protesta contro un’opera d’interesse pubblico che ha, o si teme possa avere, effetti

negativi sul territorio in cui viene costruita74. É questo il caso delle moschee, dove, in genere a seguito di incontri pubblici o percorsi partecipativi, i cittadini del quartiere dove é supposta sorgere la moschea possono arrivare a dirsi in linea di principio favorevoli ad una moschea che garantisca il diritto al luogo di culto, ma non sono disposti a pagarne i costi in prima persona accettandone la presenza nel proprio quartiere. Tale rifiuto é diversamente argomentato. Innanzitutto, vengono avanzate delle riserve relativamente alla destinazione d’uso dei locali da adibire a moschea o sulla conformità con le norme urbanistiche, ritenendo che il quartiere non sia adatto ad ospitare una moschea. In tal senso vengono generalmente avanzate argomentazioni relative ai problemi di viabilità e al deprezzamento degli immobili, ma anche argomentazioni relative alle dimensioni della moschea e alla sua visibilità. In altre parole, la moschea é generalmente giudicata estranea e invasiva, in particolare se prevede un minareto, oggetto simbolico che più di ogni altro riesce a coagulare un’ampia opposizione da parte dei cittadini proprio perché simbolicamente é interpretato come il segno dell’invasione e dell’usurpazione del territorio75. Non meno importante nell’opposizione alla moschea é la questione della sicurezza. La moschea é infatti accusata di portare degrado sociale e d’essere un possibile luogo di propaganda anti-occidentale. Ma anche il tema della sicurezza cela, almeno in parte, una più profonda paura dell’Altro e l’indisponibilità a condividere il “proprio”

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Seguendo Elisa Rebessi, i conflitti NIMBY possono altresì essere descritti come “un potenziale squilibrio fra benefici diffusi e costi concentrati per le popolazioni locali” (Rebessi 2011: 27): mentre i primi vanno a beneficio della collettività generale, che comunque tendono a percepirli poco, i costi concentrati ricadono sulla comunità territoriale, che invece li percepisce in modo acuto.

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Analizzando i risultati del referendum svizzero che ha vietato l’edificazione di nuovi minareti, Maria Bombardieri scrive giustamente che “possiamo affermare che il timore degli autoctoni nei confronti del’islam sia in parte inversamente proporzionale al processo di visibilizzazione dei musulmani” (2011:136-137).

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territorio, poiché con la moschea si teme una “islamizzazione dello spazio pubblico”, attraverso una maggiore presenza di corpi islamicamente marcati, di negozi religiosi o halal, di simboli percepiti e vissuti come estranei. Tutto ciò sembra nascondere la paura di perdere il controllo su un territorio considerato come proprio, di veder sostituire le proprie tradizione con quelle altrui, di dover condividere le risorse economiche (servizi sociali) e simboliche con chi é visto come estraneo se non invasore. Nei rari casi in cui la popolazione locale ed i comitati di quartiere han finito per accettare l’eventualità della presenza di una moschea nel proprio territorio, generalmente a seguito di percorsi partecipativi o di particolari rassicurazioni da parte delle autorità, le richieste sono state quelle di ridimensionare la struttura, prevedendo eventualmente altre sale di preghiera sparse nella città per evitare un eccessivo concentramento di fedeli, di avere garanzie su chi gestirà la futura moschea, sui finanziamenti e sulle libertà minime da rispettare all’interno della struttura.

I comitati a favore della moschea sono invece piuttosto più rari, ma esistono76. Composti generalmente da associazioni, centri sociali, singoli cittadini, opinion maker e, talvolta, dalle parrocchie di quartiere, questi comitati argomentano il loro “si alla moschea” appellandosi innanzitutto al diritto alle libertà religiosa. Alla necessità di dotare i musulmani di luoghi di culto visibili e dignitosi, é spesso associata l’opportunità di fare uscire i musulmani dalla clandestinità e dall’invisibilità, in cui ogni controllo risulta difficile se non impossibile. Viene infine sottolineata la funzione sociale della moschea che, piuttosto che essere all’origine di degrado, é fonte di controllo sociale, in particolare aiutano i migranti d’origine islamica a costruire reti di sociabilità e d’integrazione.

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Ci sono anche casi in cui si sono formati dei comitati a favore della moschea, come a Ravenna, ma sono piuttosto rari.

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SECONDA PARTE : I CASES STUDIES

In questa seconda parte, vengono presentati i due casi analizzati durante la ricerca, quello di Bologna, città che nel 2007-2008 è stata investita da un aspro dibattito pubblico sull'eventualità d'edificare una nuova moschea, e quello di Firenze, dove nel 2011-2012 s'è svolto un importante percorso partecipativo sull’eventuale futura moschea della città. Benché ad oggi in nessuna delle due città é prevista la costruzione di alcuna moschea, i risultati dei due percorsi sono stati molto diversi, se non addirittura opposti: a Bologna il dibattito pubblico ha fatto aumentare il livello di conflittualità e di sfiducia reciproca, mentre a Firenze il percorso partecipativo ha avuto il merito di deconflittualizzare il dibattito sulla moschea, di rinforzare la posizione della comunità islamica e di gettare le basi per la legittima presenza dell’islam nello spazio pubblico cittadino.

La scelta di analizzare i casi di Bologna e Firenze non è casuale, ma deriva da una serie di considerazioni, tra l'altro, legate proprio agli esiti dei due percorsi. Innanzitutto, le due città sono state coinvolte nello stesso dibattito pubblico, quello relativo all'eventuale edificazione di una moschea e, più generalmente, al posto e al ruolo dell'islam e dei musulmani nella città. Si tratta quindi di due "oggetti di studio" delimitati e, cosa fondamentale, paragonabili. In secondo luogo, tanto le due città quanto le rispettive comunità islamiche presentano diverse similitudini che hanno permesso di eliminare certe variabili e di "isolare" quegli elementi che sono all'origine di esiti tanto diversi. In tal modo, è stato possibile tentare di generalizzare i risultati che emergono dal confronto tra i due casi, in particolare per quel che riguarda gli strumenti e le modalità suscettibili di dar vita ad una politica pubblica in materia.

Questa seconda parte si limita a ripercorrere la storia dell'islam e dei musulmani a Bologna e Firenze ed a descrivere come si sono svolti i due percorsi, senza addentrarsi in un'analisi comparativa, che sarà l'oggetto della terza parte.

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Il caso di Bologna