3. Quadro giuridico
3.1. La legislazione sui luoghi di culto
In Italia, l’apertura di un luogo di culto non è soggetta ad alcuna autorizzazione particolare, se non alla necessità di rispettare le norme che disciplinano l’edilizia di culto. La costruzione di un luogo di culto è disciplinata da norme statali, regionali e pattizie48. La legge n.3/2001 ha infatti stabilito che la podestà in materia di edilizia di culto spetti in concorrenza allo Stato, cui compete la determinazione dei principi fondamentali, e alle regioni, che sono invece interamente competenti per quel che riguarda le disposizioni in materia. Di fatto, però, lo Stato non ha legiferato49, lasciando un vuoto normativo circa i principi che dovrebbero guidare le legislazioni regionali e ciò è all’origine di una mancanza di uniformità. Quel che regola gli edifici di culto è quindi la legislazione in materia urbanistica (legge n.865/1971 e successive modifiche), secondo cui gli edifici di culto sono “beni di interesse pubblico” e, come tali, devono essere compresi nella pianificazione del territorio sulla base delle esigenze dello stesso e finanziate almeno parzialmente. Il principio di fondo che si può quindi evincere dalla legislazione statale è che le esigenze religiose della popolazione locale debbano essere prese in considerazione nella pianificazione urbanistica comunale. Di fronte al vuoto legislativo dello Stato, è dunque alle leggi regionali che bisogna fare riferimento per capire quali sono le norme in materia di edilizia di culto. Differenti da regioni in regione, le norme condividono alcune linee di fondo, a cominciare dalla due norme seguenti:
- nei piani urbanistici, i Comuni devono identificare aree da destinare ad edifici di culto ed attrezzature per servizi religiosi, basandosi sulle esigenze della popolazione locale e sulle istanze delle comunità religiose;
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Questo principio ha finito per imporsi anche in paesi come la Francia dove più forte la separazione tra Stato e Chiesa. Cfr. Prelot (2007: 95- 118).
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Sulle prerogative della Chiesa, interessante quel che scrive Paolo Ronchi : “Sulla destinazione al culto di edifici, l’articolo 831.2 codice civile stabilisce esclusivamente a favore di quelli destinati al culto cattolico l’impossibilità di sottrarli,anche se appartengono a privati, «alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione,fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano»,sancendo de iure una discriminazione nei confronti di tutte le altre religioni” (2010:27).
48 Su questo tema cfr. Roccella (2006: 115-150).
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- tali aree sono assegnate alle comunità che ne abbiano fatto richiesta in proporzione alla loroconsistenza;
- per usufruire di aree e servizi, le confessioni religiose devono avere una presenza organizzata, diffusa e stabile.
Le legislazioni adottate da diverse regioni non han però mancato d’includere forme di discriminazione, in particolare subordinando la destinazione di aree e il finanziamento per la costruzione di luoghi di culto alla precedente stipula di un’intesa. Tali norme sono state sanzionate dalla Corte Costituzionale che ha riconosciuto il
“medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni religiose di fruire delle
eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune dettata dallo Stato […] la posizione delle confessioni religiose va presa in considerazione in quanto preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini, e cioè in funzione di un effettivo godimento del diritto di libertà religiosa, che comprende l’esercizio pubblico del culto professato come esplicitamente sancito dall'art. 19 della Costituzione. In questa prospettiva tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti. L’aver stipulato l’intesa […] non può quindi costituire l’elemento di discriminazione”50.
Tale sentenza, pronunciata nel 1993 e ribadita nel 2002, esplicita chiaramente che la legittimità a edificare luoghi di culto islamici e, eventualmente, anche a godere di eventuali agevolazioni economiche da parte delle istituzioni non può essere subordinato alla stipula di un’intesa né ad altre limitazioni, se non quella relativa alla necessità che la confessione religiosa sia organizzata e stabile. Nonostante le sentenze della Corte costituzionale, diverse regioni (Lazio, Liguria, Marche, Veneto, Molise, Calabria, Basilicata e Puglia), continuano ad avere leggi regionali che esigono che le confessioni religiose, per poter accedere ai contributi, devono possedere un’intesa con lo Stato o che siano organizzate ai sensi degli articoli 7 e 8 Cost. o in conformità con le norme vigenti. La conseguenza è la violazione del principio di uguaglianza, dell’uguale libertà delle confessioni, e della normativa comunitaria contro la discriminazione razziale/religiosa. Inoltre, come ricordato, la stessa Corte costituzionale ha altresì affermato la "non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma
garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione".
Per quel che riguarda il finanziamento degli edifici di culto, le leggi regionali prevedono la loro costruzione possa essere finanziata con una parte dei contributi riscossi dai Comuni per la concessione del permesso di costruire51. Ciò significa, come scrive R. Botta, che per “la costruzione di nuovi edifici – ma anche il loro mantenimento o assegnazione – spetta agli enti istituzionalmente competenti per la progettazione urbanistica del territorio il compito di prevedere, tenendo conto delle esigenze religiose della popolazione, la realizzazione di un certo numero dei suddetti edifici, secondo standard appositamente determinati da norme statali e regionali e utilizzando i mezzi finanziari all’uopo predisposti dalle stesse norme”52.
50 Sent. n. 195/1993. 51 Cfr. Roccella (2006: 135-37). 52
R Botta, “Diritto alla moschea” in S. Ferrari, Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, 2000, p.114
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In linea generale – come scrive Silvio Ferrari – “le leggi regionali, pur lasciando un margine di discrezionalità assai ampio all’autorità locale, hanno avuto il merito di stabilire alcuni criteri oggettivi per l’individuazione delle confessioni religiose che possono avvalersi delle disposizioni a sostegno dell’edilizia di culto. In base ad essi (ed anche a più generali disposizioni sull'autonomia delle confessioni religiose) resta escluso, per esempio, che le amministrazioni locali possano tenere in considerazione, nell’assegnare le aree da destinare ad edifici di culto, dell’orientamento ideale della comunità richiedente, privilegiando per esempio una comunità musulmana ‘moderata’ rispetto ad un’altra di ispirazione più ‘radicale’” (Ferrari 2009:223). Questo è stato il caso di Bologna e Genova, dove il prerequisito posto dall’amministrazione locale per la concessione del permesso per edificare la moschea era l’uscita dell’associazione islamica locale dall’UCOII.Per quel che riguarda le moschee già esistenti, le norme regionali stabiliscono i criteri che i singoli comuni devono seguire per il cambiamento della destinazione d’uso. In effetti, spetta all’amministrazione comunale concedere l’autorizzazione a modificare l’utilizzazione dell’edificio dall’uso a cui era originariamente destinato a quello di attività di culto degli edifici. Di fatto, come ce lo ricorda Bombardieri, “negli ultimi anni molteplici sono stati i casi di chiusura di sale per questioni urbanistiche, nonostante le condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza venissero rispettate. Il problema – continua Bombardieri – sta nella discrezionalità delle amministrazioni comunali nell’applicare queste norme” (2011:105). In effetti, lo strumento più utilizzato per chiudere una moschea improvvisata è stato quello della non conformità alla destinazione d’uso dei locali dove sorgeva. In altri casi, le moschee sono state chiuse per problemi igienico/sanitari e/o a causa della sicurezza dei locali. Se in certi casi, la scelta degli amministratori non poteva essere diversa, in altri le amministrazioni avrebbero potuto risolvere il problema della destinazione d’uso attraverso un atto amministrativo, ossia trasformando l’edificio dove sorgeva la moschea da commerciale o artigianale a edificio atto a ospitare servizi53. Come fa notare Maria Bombardieri, la legge 383 del 2000 sulle associazioni di promozione sociale offre a musulmani e amministrazioni locali la possibilità di superare gli ostacoli per l’apertura e la fruizione delle moschee. L’art. 32 prevede infatti che “lo
Stato, le regioni, le provincie e i comuni possono concedere in comodato beni mobili e immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale e alle organizzazioni di volontariato … per lo svolgimento delle loro attività istituzionali…La sede delle associazioni di promozione sociale e i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del ministro per i lavori pubblici …, indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
In base a tale legge, registrandosi in quanto associazioni di promozione sociale, le comunità islamiche avrebbero la possibilità d'accedere all’utilizzo di edifici pubblici, nei quali potrebbero praticare il culto, senza incorrere nel rischio di chiusura. Certamente questa soluzione non risolverebbe la questione di fondo legata al diritto al luogo di culto né quella relativa alla piena legittimità della presenza dell’islam nello spazio pubblico, ma rappresenta una strada possibile, che d’altronde è stata
53 Alcune amministrazioni locali, sostenute da una parte dei cittadini, fanno un uso distorto degli strumenti
urbanistici con lo scopo di rendere difficile l’apertura di luoghi di culto musulmani. A tal proposito, Roccella sottolinea che “i poteri amministrativi di governo del territorio, così come attualmente disciplinati, si prestano ad essere utilizzati […] come una nuova tecnica dei pubblici poteri per ostacolare l’esercizio dei diritti di libertà delle minoranze religiose” (2008: par. 6).