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3. Quadro giuridico

3.2. Verso un sistema pattizio locale?

Durante la loro breve storia italiana, le comunità islamiche hanno adibito a luoghi di culto ambienti diversi, quali garage, sottoscale, appartamenti, palestre, negozi, magazzini e capannoni industriali, ossia locali la cui destinazione d’uso non era conforme a quella del luogo di culto. La procedura è quasi sempre stata la stessa: un gruppo di musulmani creava un’associazione senza fini di lucro, affittava un locale privato o pubblico e lo adibiva a sala di preghiera. Per ovviare alle difficoltà nel trovare un luogo di culto, i musulmani organizzati in associazioni han talvolta fatto ricorso ad uno “stratagemma giuridico”, quello di presentare all’amministrazione locale una richiesta per poter usufruire di locali pubblici da adibire a cento culturale e, una volta ottenuta la concessione degli spazi, chiedere il cambio di destinazione d’uso per adibire i locali a luogo di culto. Giudicati abusivi dal Consiglio di Stato (sentenza n.4915/2010), tali “stratagemmi” sono stati uno dei modi escogitati dai musulmani per poter ottenere ed usufruire di un luogo di culto e così superare gli ostacoli che si trovavano ad affrontare, a cominciare da quelli posti sempre più spesso da legislatori regionali e amministratori locali, che continuano a non assegnare le aree necessarie alla costruzione di nuovi edifici di culto o a porre delle limitazioni che di fatto impedivano la costruzione, l’apertura o la fruizione di moschee.

Di fronte alla mancanza di una regolamentazione nazionale sui luoghi di culto e alla mancanza di una legge sulla libertà religiosa, negli ultimi anni s'è fatto strada un modello pattizio non basato su un’intesa, come era stato previsto dagli estensori della Costituzione, ma un modello pattizio "locale", cioè tra le singole comunità islamiche organizzate in associazioni e le amministrazioni comunali. Senza aspettare la promulgazione di nuove norme, tale modello si basa sulla legislazione esistente e si fonda sulla ricerca di un punto d’incontro tra i diritti di libertà religiosa della comunità musulmana e le preoccupazioni per il loro corretto esercizio che inquietano alcune amministrazioni locali e parte della popolazione. Il modello pattizio locale prende generalmente la forma del protocollo d’intesa, ossia di un libero accordo tra la locale comunità islamica e il Comune in cui sono enunciate le rispettive prerogative e obbligazioni. Richiamandosi a principi generali sanciti dalla Costituzione e da altre carte internazionali, il protocollo prevede generalmente forme di controllo da parte dell’amministrazione sui finanziamenti e sulle attività svolte nella moschea, in cambio della concessione del permesso di edificare una moschea o dell’attribuzione di un edificio da adibire a moschea. Generalmente, i protocolli d’intesa firmati nel corso degli anni a Genova (2008), Padova (2009) e Ravenna (2010), così come quello che era stato stilato a Bologna, si richiamano a quello di

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Colle val D’Elsa, siglato nel 200454, in cui era prevista la costituzione di organismi paritetici, cioè composti da rappresentanti della comunità islamica locale e da rappresentanti nominati dalle istituzioni, con la funzione di controllare attività e finanziamenti della moschea, ma anche di garanzia rispetto alla cittadinanza. I protocolli firmati prevedono inoltre un esplicito riconoscimento da parte della comunità islamica dei valori sanciti dalla Costituzione e l’utilizzo della lingua italiana nelle attività non strettamente cultuali che si svolgono all’interno delle moschee. In taluni casi, l’amministrazione comunale ha posto la condizione preliminare dell’autonomia dell’associazione islamica da organizzazioni giudicate “fondamentaliste” o “radicali”, come l’UCOII55.

Queste disposizioni, contenute in alcuni dei protocolli elaborati negli ultimi anni, pongono però una serie di quesiti relativi all’uguaglianza di tutte le confessioni religiose, alla loro indipendenza e alla non ingerenza dello Stato. Se infatti la richiesta di trasparenza dei fondi è assolutamente legittima, se non dovuta, in quanto giustificata da motivi d’ordine pubblico e dalla normativa vigente in materia di contabilità delle associazioni, l’istituzione di organismi di controllo sulle attività e i conti delle moschee, così come l’imposizione di svolgere le funzioni religiose in lingua italiana o di sottoporre i sermoni al controllo preventivo dell’autorità pubblica, o ancora di preclusioni legate all’orientamento politico e religioso della comunità musulmana, rischiano di essere incostituzionali. Tali disposizioni permetterebbe infatti allo Stato di interferire nell’organizzazione di una confessione religiosa, andando così contro al principio d’indipendenza e a quello che sancisce l’uguaglianza tra confessioni religiose davanti alla legge, in quanto un tale condizione è posta solo nei riguardi dell’islam. Una strada per uscire da una tale impasse è indicata da Silvio Ferrari, che pone come pre-condizione dello strumento pattizio la “chiara distinzione tra le attività di religione e culto da un lato e le altre attività che eventualmente si svolgano nella moschea o in locali ad essa adiacenti dall’altro. Per le prime l’autonomia della comunità musulmana deve essere piena: non vi è spazio in questo campo per la stipulazione di convenzioni che, neppure indirettamente possano limitarla (…). Per le seconde andrebbero invece considerate le forme di coinvolgimento e cooperazione tra comunità musulmana e comunità locale che possono essere ammesse e risultare vantaggiose per entrambe”. (2009:235- 236)

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Il protocollo d’intesa stipulato il 30 dicembre 2004 tra l’amministrazione comunale e la comunità musulmana per l’apertura di un centro culturale islamico (con annessa una sala di preghiera) a Colle Val d’Elsa è il modello a

cui sono ispirati gli altri protocolli. Il testo è disponibile in

www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=1734; per un commento cfr. Nicola Fiorita e Francesca

Tarchiani, L’Islam a Colle Val d’Elsa: pregi e difetti di un protocollo d’intesa, in

www.olir.it/areetematiche/85/documents/Fiorita_Tarchiani_Islam_Colle.pdf.

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La dissociazione dall’UCOII è stata posta come condizione anche dalla amministrazione comunale di Novara, che ha subordinato la concessione per l’apertura di un luogo di culto alla firma di una “carta dei doveri” da parte della comunità musulmana. Cfr. Sindaco di Novara. “Ecco come è nata la nostra moschea modello”. Intervista, in http://www.openpolis.it/dichiarazione/358122. Dall’UCOII si è dissociata anche la comunità musulmana di Genova (cfr. A Genova, boom di firme contro la moschea, in Stranieri in Italia, in http://www.stranieriinitalia.it/attualita-a_genova_boom_di_firme_contro_la_moschea_5268.html. A Bologna, come vedremo meglio in seguito, l’amministrazione comunale ha posto come condizione preliminare all’associazione islamica di dissociarsi dall’UCOII. Di fronte al rifiuto dell’associazione di accettare tale condizione, il sindaco ha affermato che questo rifiuto “è un elemento […] importante e negativo” che contribuisce a rendere impossibile la costruzione della moschea, perché “il legame con l’UCOII è un problema

per questo paese” (in http://bologna.repubblica.it/dettaglio/Il-Comune-ci-ripensa-la-moschea-

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Lo strumento dei protocolli d’intesa, ossia il modello pattizio locale, sembra comunque rispondere ad una fase precisa nella breve storia dell’islam in Italia, quella della graduale legittimizzazione reciproca tra musulmani, desiderosi di affermare i propri diritti e la propria visibilità nello spazio pubblico, e istituzioni locali, che partono da una situazione dove non solo negano dei diritti sanciti dalla Costituzione, ma dove si precludono l’accesso ad una parte della popolazione che vive sul proprio territorio. Lo strumento pattizio ha quindi un pregio principale, quello di favorire un’assunzione di responsabilità tanto dei musulmani che delle istituzioni.