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1. inTroduzione

I processi legati al fenomeno della globalizzazione hanno dimostra- to nel corso degli ultimi cinquant’anni la loro estrema fluidità, costrin- gendo la disciplina geografica a rigenerarsi discutendo nuovi approcci e metabolizzando nuovi paradigmi.

La Nuova Divisione Internazionale del Lavoro (ndiL), teorizzata

da FrobeL, HeinricHS e KraYe nel 1980, è riuscita solo fino ad un certo

punto a spiegare la struttura di quel sistema globale di produzione che si era imposto fin dagli anni Sessanta. Pur comprendendo difatti i limiti alla crescita imposti dalla saturazione dei mercati interni e da ciclici cali dei consumi, la New International Division of Labour (nidL) nell’originale

dizione inglese, ha dimostrato una visione poco nitida dell’evoluzione dei processi di globalizzazione, basandosi essenzialmente su di una contrappo- sizione, quella centro-periferia, che era sempre meno aderente alla realtà cui si riferiva. Sulla base di questo assunto la nidL ha trascurato, da un

lato, la validità della tradizionale Divisione Internazionale del Lavoro che si era imposta in maniera indiscussa fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, in particolare con riferimento alla sua ancora attuale applicazione a settori come quello energetico ed agricolo, quanto l’esistenza di fenome- ni economici che sono sfuggiti al suo schema ed alla sua comprensione.

Nella sua teorizzazione la nidL ha difatti dato poca rilevanza all’im-

portanza che può avere l’intervento dello Stato nel promuovere l’economia

* Dipartimento di Metodi e Modelli per l’Economia, il Territorio e la Finanza (MeMOteF)

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locale, ha trascurato l’entità di quei finanziamenti provenienti dalle gran- di multinazionali e destinati a conquistare un veloce accesso ai crescenti mercati interni dei Paesi in via di sviluppo più che a beneficiare dei van- taggi legati alle diverse dinamiche del mercato del lavoro, ha mal pesato l’importanza dei capitali locali, in particolare la loro crescente rilevanza nelle joint-venture, e quella dei rapporti di fornitura e sub-fornitura (coe,

2011). Allo stesso modo, il modello teorizzato nel 1980 poco considerava quella parte di investimenti che ha definito nel tempo una serie di delo- calizzazioni di «seconda generazione», cioè capaci di originarsi proprio da quei Paesi che erano stati a loro volta destinazione privilegiata dei pri- mi investimenti esteri direttamente produttivi, rivolgendosi verso nuove frontiere in cerca di nuovi mercati. Altro limite può essere riscontrato, infine, nell’aver sottovalutato l’entità dei flussi finanziari ancora presen- ti tra le economie sviluppate, così come il crescente ruolo del settore dei servizi (ibidem).

Come Held, McGrew, Goldblatt e Perraton sostenevano (1999), i modelli dicotomici Nord-Sud, centro-periferia, sembrano aver lasciato il passo ad una nuova «geometria dell’economia globale» (HeLd et al.,

1999, p. 429), una nuova geografia degli spazi produttivi e del potere che trascende i confini politici. La convinzione dell’esistenza di un model- lo unico applicabile globalmente è venuta meno, lasciando spazio alla sempre più ferma certezza della presenza di molteplici e differenti divi- sioni internazionali del lavoro (coe, 2011).

In sintesi, l’elemento chiave dell’economia cosiddetta globale non sembra essere più lo Stato, così come accadeva secondo la «classica» Di- visione Internazionale del Lavoro (ibidem), né tantomeno le multinazio- nali, come per la Nuova Divisione Internazionale del Lavoro, bensì la

global commodity chain, o catena globale di produzione, introdotta da ge-

reFFi e Korceniewicz (1994), che può essere definita come quell’insieme

di reti interorganizzative raggruppate attorno ad un bene o un prodot- to, capaci di collegare l’uno all’altro famiglie, aziende e Stati all’interno dell’economia mondiale (coe, 2011). La forma di queste interdipenden-

ze, evolvendosi nello spazio e nel tempo, non è mai uguale a se stessa, bensì definibile solo a livello della singola tipologia di prodotto, ovvero del particolare network di produzione globale (gereFFi e Korceniewicz,

1994; ceLaTa, 2009; coe, 2011).

Il comprendere come si muova un attore economico come Fiat SpA (1)

all’interno dello scenario disegnato dal dibattito teorico ora presentato

(1) Fiat SpA, d’ora in avanti Fiat, è la risultante della scissione parziale avvenuta a favore

di Fiat Industrial nella quale sono confluite tutte le attività riguardanti la produzione e la progettazione di mezzi agricoli ed industriali. Il titolo Fiat SpA è quotato alla Borsa di Milano dal 3 gennaio 2011.

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è, in sintesi, l’obiettivo di questo contributo. Attraverso l’analisi delle sue attività produttive, lo studio dei flussi di capitali, della localizzazio- ne dei suoi maggiori centri di produzione, dei rapporti con fornitori ed istituzioni e quindi della rete caratterizzata dalla global commodity chain legata alla realizzazione della world car italiana, si cercherà di fornire una rappresentazione esaustiva della distribuzione geografica del fenomeno produttivo e, tramite questa, di dimostrare la rilevanza di nuove fron- tiere nel dinamismo delle forme della divisione internazionale del lavoro.

2. L’inTernazionaLizzazionedeLLa FiaT

La Fiat, ponendosi come grande azienda in un Paese con un mer- cato significativamente limitato, ha dovuto ben presto sperimentare e affrontare problematiche legate all’internazionalizzazione delle sue at- tività di produzione e di vendita. Questa evidenza ha portato il gruppo, dagli anni Cinquanta, ad attuare una politica di espansione orientata essenzialmente alla ricerca di nuovi mercati, intervenendo commercial- mente laddove fossero ravvisate condizioni favorevoli all’espansione del- le proprie attività commerciali.

Provando a realizzare quest’idea di espansione commerciale, nel 1953 la Fiat arriva in Spagna entrando nel capitale della Seat, nel 1954 in Yugoslavia, attraverso una joint-venture con la Zavodi Crvena Zasta- va, nel 1969 è in Argentina grazie alla creazione di una società affiliata, nel 1966 sperimenta la penetrazione del mercato sovietico stringendo accordi di cooperazione che portano alla nascita dello stabilimento di Togliattigrad, nel 1968 definisce un’intesa con la Citroen in Francia e tra il 1971 ed il 1973 da vita a collaborazioni in Turchia ed in Brasile (baLceT e ernieTTi, 2002a, 2002b).

L’attitudine all’internazionalizzazione del Gruppo in un mercato quanto mai competitivo, pur venendo logicamente meno tra gli anni Set- tanta ed Ottanta a causa delle conseguenze delle crisi petrolifere, non è mai stata messa in discussione dai vertici aziendali diventando parte del dna del marchio. Gli anni Novanta, caratterizzati da una decisa ri- presa di questa tendenza, hanno visto il crescente interesse per i mer- cati dell’Europa centro-orientale, con la nascita nel 1993 di Fiat Auto Poland, per i mercati sudamericani, in particolare dopo la costituzione del Mercosur, per poi allargare nell’ultimo decennio i propri orizzonti alla Cina ed alla Serbia. Questa internazionalizzazione costante, mes- sa in atto fin dal secondo dopoguerra e volta alla penetrazione di mer- cati emergenti, ha trovato nel «Progetto 178» il suo principale vettore. Attraverso il Progetto 178, come sarà approfondito nei paragrafi suc- cessivi, la Fiat ha espresso le strategie legate all’evoluzione del processo

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di internazionalizzazione delle sue produzioni. Il driver principale risul- ta essere la ricerca di mercati estremamente dinamici capaci di rappre- sentare nuovi sbocchi commerciali ed al contempo luoghi di produzione caratterizzati da costi minori in virtù di un minor costo del lavoro e maggiori interventi statali. Un processo di globalizzazione del processo produttivo che mira dunque ad un’acquisizione costante di nuove quote nel mercato dell’automotive in contesti economici che consentono mag- giori margini di guadagno.

Proprio quest’ultima considerazione assume nel caso della Fiat si- gnificativo rilievo. L’azienda del Lingotto subisce infatti l’azione dei suoi competitor in particolare in quei segmenti che garantiscono surplus più significativi per ogni unità prodotta, ovvero nella produzione e vendita di quelle autovetture che hanno valori di mercato più alti. In funzione di questa condizione di mercato, la Fiat è chiamata ad operare più di altri in quei mercati emergenti capaci di garantire, in funzione della lo- ro costante espansione, una domanda in crescita.

3. LacaTenagLobaLedeLL’auTomobiLeiTaLiana: iL «progeTTo 178»

L’idea innovativa posta alla base del Progetto 178, risalente al 1993 ma ancora attivo, è stata quella di produrre un’automobile fortemente orientata al soddisfacimento dei mercati sudamericani, asiatici e dell’est europeo. Una world car frutto di un unico processo creativo e di una pro- duzione altamente standardizzata.

L’Italia di questo programma ha ospitato inizialmente il cuore, ov- vero il momento della progettazione, della ricerca e sviluppo, mentre la produzione delle automobili è stata assicurata da un sistema di po- li di produzione integrati capaci, al contempo, di soddisfare le esigenze dei crescenti mercati interni e il fabbisogno dei centri di assemblaggio (baLceT e ernieTTi, 2002a).

La geografia del Progetto 178 è stata basata soprattutto sull’im- piego di stabilimenti già presenti in Brasile ed in Turchia. A questi sta- bilimenti di produzione, totalmente indipendenti dall’esterno, si sono affiancati negli anni altri impianti deputati sostanzialmente all’assem- blaggio e localizzati in Argentina, Sud Africa, Marocco, Polonia, India, Egitto, Russia, Cina e Serbia. L’universo dei fornitori, essenziale alla realizzazione del progetto dell’azienda del Lingotto, completa lo schema di produzione del Progetto 178.

L’innovazione presentata dalla Fiat attraverso il progetto che ha portato alla nascita, tra le altre, dei modelli Palio e Siena, origina dun- que una catena di produzione globale alquanto complessa e in grado, nelle intenzioni del management dell’azienda del Lingotto, di trovare

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il giusto equilibrio tra il buy ed il make attraverso la definizione di un doppio network di produzione internazionale.

3.1. Dinamiche e geografia del network di produzione interno

Quello che viene definito network interno, il make, riguarda essen- zialmente quel flusso di merci che investe i diversi stabilimenti del grup- po Fiat e che lega gli stabilimenti deputati alla produzione a quelli che si occupano esclusivamente dell’assemblaggio.

All’interno di questo network, il Progetto 178 definisce una divisio- ne del lavoro asimmetrica, in termini di dimensioni e di specializzazio- ne, tra i suoi differenti impianti. L’applicazione di questa strategia ha tra i principali obiettivi il raggiungimento di economie di scala tali da poter giustificare gli ingenti investimenti necessari (camuFFo e voLpa- To, 2002). La grande ambizione del progetto consiste, come accennato,

in una produzione altamente standardizzata, ovvero in grado di avere come output finale un’unica famiglia di prodotti capaci di competere a diverse latitudini e, soprattutto, di incontrare le necessità di quei Paesi caratterizzati da un processo di motorizzazione profondamente dinami- co, senza richiedere alcuna modifica sostanziale.

La realizzazione di questo obiettivo non ha potuto prescindere dalla creazione di una struttura internazionale capace di mettere gli stabili- menti localizzati in diverse aree del globo nella condizione di produrre quanto disegnato ed ideato in Italia. Una particolare forma di prossi- mità questa, ovvero una conoscenza partecipata (amin, 2003), basata

su un continuo scambio di informazioni, codificate e non, indispensa- bili alla diffusione di quelle routine produttive che assumono la forma di linguaggi, misure e strumenti comuni in Italia così come in Brasile o in Russia. Routine nate dalla lunga esperienza produttiva sviluppata dalla Fiat principalmente nel nostro Paese negli anni precedenti la na- scita del Progetto 178 (voLpaTo, 2000, 2002).

Attraverso questa configurazione, ogni nodo della catena di produ- zione del Progetto 178 diventa un fornitore globale in grado, in qualunque momento, di sopperire alle necessità del mercato e degli altri impianti.

Questa particolare conformazione della struttura produttiva creata dalla Fiat per il suo Progetto 178 sembra, in tutta sostanza, non disco- starsi dall’applicazione di quel modello centro-periferia introdotto da waLLerSTein (1974) e richiamato nel primo paragrafo di questo contri-

buto come base della nidL. L’osservazione sembra essere congrua, ma

è necessario registrare alcune evidenze. Benché, come sottolineato, la prima fase del Progetto 178 sia stata concepita in Italia, lo stesso mo- dello produttivo ha previsto la nascita di centri per la ricerca e lo svi- luppo in quei Paesi in cui le auto derivanti dal progetto stesso avrebbero

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trovato commercializzazione, in particolare in Brasile, dove lo sviluppo tecnologico del Progetto 178 ha ricevuto notevoli input (baLceT e er- nieTTi, 2002a; Lung, 2002), rappresentando una novità non irrilevante

all’interno dell’organizzazione tipicamente descritta delle catene globa- li di produzione (ceLaTa, 2009). In questo modo, la Fiat ha cercato di

assecondare in maniera profittevole le diverse esigenze dei mercati in cui opera. Allo stesso tempo, l’asimmetria esistente tra i poli di produ- zione e relativa alla specializzazione ed alle dimensioni degli impianti è da considerarsi come elemento di grande dinamismo come prova il ca- so dello stabilimento di Tichy in Polonia, esempio questo di industrial

upgrading, ovvero di miglioramento della propria posizione all’interno

della catena di produzione del prodotto, nel dettaglio, da stabilimen- to deputato al solo assemblaggio a luogo di vera e propria produzione.

Quella della Fiat, sembra configurarsi quindi come una tenden- za, seppur limitata, ad una de-gerarchizzazione volontaria realizza- ta a vantaggio di una riconfigurazione su base regionale della propria struttura aziendale, ovvero ad una nuova territorializzazione nei con- fini di un contesto produttivo in cui resta comunque vivo il paradigma centro-periferia.

3.2. Dinamiche e geografia del network di produzione esterno

Il settore dell’automotive prevede quattro differenti attori: i pro- duttori di automobili, i fornitori di primo livello, i fornitori di secondo livello ed, infine, i fornitori minori.

I fornitori di primo e di secondo livello, così come i fornitori mi- nori, rappresentano il network «esterno», ovvero il momento del buy dell’attività produttiva di un’azienda, in particolar modo di una multi- nazionale come la Fiat. Questo ambito non può essere trascurato date le dimensioni dei flussi coinvolti, le peculiarità del sistema di produzio- ne considerato ed il ruolo ricoperto all’interno della catena di prodotto globale legata al Progetto 178.

Per quel che riguarda i fornitori di primo livello, la catena di pro- duzione globale imposta dalla Fiat con riferimento al Progetto 178, ha realizzato una distribuzione spaziale delle loro attività ben definita. I maggiori fornitori, forti delle loro capacità tecnologiche e delle loro produzioni a grande valore aggiunto, hanno difatti seguito la Fiat nel- la sua internazionalizzazione localizzando i loro stabilimenti nelle vici- nanze degli stessi impianti in cui le autovetture derivanti dal Progetto 178 vengono prodotte (camuFFo e voLpaTo, 2002). La spiegazione di tale

scelta strategica, che analiticamente riprende quanto già sottolineato per il network «interno», risiede nel ruolo che questi stessi fornitori han- no nel processo di produzione: i fornitori di primo livello partecipano in

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maniera decisiva a tutte le fasi della progettazione e della produzione, dal design alla verniciatura, rendendo imprescindibile una certa pros- simità spaziale, talvolta una vera e propria clusterizzazione derivante dall’applicazione di una strategia definita come follow-the-leader (ceLaTa,

2009), capace di portare alla creazione di sistemi produttivi alternativi (radoSevic e rozeic, 2005).

Questo approccio permette la produzione di auto completamente identiche non solo per quel che riguarda le loro caratteristiche interne ed esterne, ma anche e soprattutto da un punto di vista qualitativo: né è prova, ad esempio, l’aderenza dell’attività di produzione dei fornitori della Fiat agli standard qualitativi della normativa Iso 9000 (baLceT e

ernieTTi, 2002a; voLpaTo, 2002).

È lecito dunque concludere che all’interno di un progetto così strutturato, le dinamiche localizzative dei first-tier suppliers, ovvero dei fornitori di primo livello, debbano essere assimilate a quelle proprie dell’azienda leader.

L’analisi concernente i rapporti tra la Fiat ed i suoi fornitori di se- condo livello e, conseguentemente, alla loro distribuzione spaziale, fonda invece sull’esame di dinamiche differenti. Generalmente questi fornitori hanno pochi rapporti con il produttore, mentre più forti sono i legami tra i fornitori di secondo livello ed i fornitori di primo livello. I second-

tier suppliers non partecipano direttamente alle attività di produzione

che richiedono un particolare apporto tecnologico, al contrario sono chiamati in causa in quelle fasi della produzione altamente standardiz- zate in relazione a prodotti che, nel modello offerto dal vernon (1966),

sono già nella fase della loro maturità. Per questi motivi, all’interno del Progetto 178, i fornitori di secondo livello, alla stregua degli altri fornitori minori, vengono generalmente individuati attraverso logiche che tengono conto di tre variabili: il costo della manodopera, i costi le- gati alla logistica e, naturalmente, il rispetto degli standard qualitati- vi. In questo momento della produzione, anche all’interno del Progetto 178, le dinamiche relative al paradigma centro-periferia (waLLerSTein,

1974) e più coerentemente legate all’agent-based approach, tornano pre- potentemente. La necessità della prossimità viene allora compensata dall’evoluzione dei sistemi di comunicazione così come dalle capacità, crescenti, del sistema dei trasporti convenzionali. A differenza poi dei

first-tier suppliers, che sono in numero ridotto proprio in virtù del know-

how in loro possesso e della loro partecipazione alle diverse fasi del pro- getto produttivo, i second-tier suppliers sono in numero sensibilmente maggiore. Tale strategia permette al produttore di mantenere un forte potere di negoziazione e di poter facilmente sostituire un fornitore con un altro capace di offrire condizioni migliori (baLceT e ernieTTi, 1997;

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4. regionaLizzazionedeiproceSSidiproduzione

Considerare l’azione di un’azienda partendo dalla definizione della sua catena di produzione globale vuol dire inevitabilmente trascurare i rapporti esistenti tra quest’attore ed il territorio per focalizzarsi essen- zialmente sui rapporti esistenti tra imprese, tra strutture produttive. In questo modo però si rischia di trascurare il ruolo di quelle istituzioni da cui, molto spesso, deriva la conformazione delle stesse global commodity

chain (dicKen, 2003; ceLaTa, 2009).

Il disegno della catena di produzione globale legato al Progetto 178 non sfugge a questa fondamentale considerazione: interventi diretti a favorire la localizzazione di particolari processi produttivi, politiche statali volte a garantire fiscalità particolari, l’esistenza di blande orga- nizzazioni sindacali, la possibilità di affrontare un costo del lavoro de- cisamente inferiore, sono elementi comuni laddove, in presenza di un processo di motorizzazione in forte divenire, si sia avuta una sensibile espansione del settore dell’automotive.

Lo stesso Progetto 178 è stato influenzato, nelle fasi della sua rea- lizzazione, da una forte integrazione regionale delle aree in cui insisteva e, al contempo, di un alto livello di protezionismo. L’esempio maggiore in tal senso è certamente il Mercosur che, con il suo mercato interno e le sue tariffe esterne è stato designato dall’intellighenzia del Lingotto come il luogo cardine dell’intero progetto. Al contrario, l’apertura dei mercati in Polonia così come in Turchia, ha fortemente leso gli interessi della Fiat, dove il marchio italiano è rimasto legato, nella percezione co- mune, alla produzione di automobili low-cost e low-quality, a tutto van- taggio d’importatori francesi e tedeschi nonostante un costo del lavoro sicuramente vantaggioso (baLceT e ernieTTi, 2002a).

Oltre le istituzioni, sul territorio insistono altri elementi capaci anch’essi di orientare, in un certo qual modo, la definizione di qualsiasi catena di produzione avente respiro globale.

Tra esportazione dei prodotti e delocalizzazione all’estero esiste infat- ti tutta una serie di soluzioni quali la vendita di brevetti, la concessione di licenze, le partecipazioni azionarie estere, la stipula di convenzioni, di alle- anze e di joint-venture, che hanno come obiettivi principali l’abbattimento dei costi di produzione e, per quanto possibile, l’esternalizzazione dei rischi di mercato e che trovano nel capitale locale il loro perno imprescindibile. La Fiat, al pari di ogni altro agente internazionale, non ha potuto sottrar- si alla crescente importanza di questo ultimo intangibile attore, prova ne è l’insieme delle joint-venture che legano la realizzazione del Progetto 178 ad investimenti locali, pubblici e privati. Queste forme di collaborazione sono state utilizzate dalla Fiat come principale strumento di penetrazio- ne in quei nuovi mercati, quelle nuove frontiere, di cui si è fin qui parlato.

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L’esistenza di particolari obiettivi comuni è necessaria ma non suf- ficiente alla nascita di collaborazioni od alleanze di carattere economi- co. Il capitale deve essere affiancato da quell’insieme di relazioni che, uniche, esistono tra gli agenti e tra questi ed il territorio. Nessi e legami che possono portare alla riproduzione di quelle routine aziendali svilup-