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3.1 Gli effetti dei ruoli di genere

3.1.3. Il complesso di Michelangelo

Riconoscere e circoscrivere l'effetto degli stereotipi di genere dietro le scelte artistiche non è mai semplice, perché ogni indagine tocca necessariamente la vita privata delle artiste e deve quindi fare i conti con l'incapacità o la riluttanza delle stesse a rievocare in maniera lucida e imparziale il periodo storico in questione.

Tuttavia, già il dibattito neofemminista ha tentato di chiarire alcune tendenze comportamentali frequenti tra le artiste fino agli anni Settanta.201 La volontà di accreditarsi davanti al mondo maschile, l’indifferenza per le colleghe e la perenne preoccupazione di schivare gli stereotipi rivelano un diffuso complesso d’inferiorità, che si manifesta più o meno apertamente nel contraddittorio atteggiamento delle artiste verso il mercato e nell’autosvalutazione del proprio lavoro.

L’uscita dal sottobosco del dilettantismo obbliga le artiste ad allontanarsi dal prototipo della «pittrice»; una mossa che spesso complica il processo di affermazione pubblica pregiudica purtroppo l'autostima di chi la compie. Il desiderio di essere assimilate ai colleghi uomini – si torna a ripetere - spinge molte donne ad adottare schemi comportamentali maschili. Questa scelta non si limita al perseguire uno stile di vita più individualista e carrierista, ma si riverbera anche sul piano linguistico. Se c’è un dato che più di altri accomuna le dichiarazioni delle neoavanguardiste è il rifiuto dell’etichetta di «donna artista» o di «pittrice». La reticenza a declinare secondo il genere la loro professione è sintomatica di una volontà di autonarrazione che va di solito oltre la percezione di sé all’interno dell’ordine simbolico maschile/neutrale. Già Carla Accardi è di questo avviso:

Ero certa di voler fare qualcosa di diverso da quello che facevano le “donne artiste”. Per me queste ultime erano soprattutto delle pittrici, delle signore che si dilettavano. Mi volevo

201

Per un approfondimento su questo argomento si veda: S. de Beauvoir, La donna e la creatività, cit.; S. Weller, Il complesso di Michelangelo, cit.; S. Weller, La donna italiana e la creatività, in G. Statera, (a c. di), Il privato come politica: temi attuali del femminismo, cit.; A. M. Boetti Sauzeau, Arte femminista e

arte femminile, in Lessico Politico delle Donne, cit.; E. Emmy, Donna, arte, marxismo: con un’autoanalisi sullo sviluppo della creatività, Bulzoni, Roma 1977.

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allontanare il più possibile da quella immagine. Mi facevo chiamare artista e non pittrice202

Infatti, se da un lato la rivendicazione del titolo di «artista» o più spesso di «pittore» sancisce il distacco formale dal cliché della pittrice, dall'altro rivela la sostanziale adesione ai presupposti della cultura sessista da cui vorrebbe emanciparsi. In tal modo, le neoavanguardiste ricadono senza volerlo nel dominio della cultura patriarcale, compromettendo la già scarsa credibilità di cui godono nel campo dell’arte.

D’altra parte, come sottolinea Griselda Pollock, il genere si definisce quale «risultato del processo culturale di definizione dell’identità sociale, che colloca gli individui, a seconda del loro sesso, in una posizione asimmetrica rispetto al linguaggio, al potere sociale ed economico e ai significati».203 Un’asimmetria percepita in modo disomogeneo dalle artiste. La gran parte afferma infatti di non essersi mai sentita da meno dei colleghi. Ad esempio, Lucia Marcucci sostiene:

Ho avuto sempre un carattere forte, mai preda di debolezze. Certo, ho anch’io alti e bassi e le mie malinconie, ma non mi sono mai sentita inferiore a nessuno. Eppure nel contesto lavorativo avverto ancora oggi delle discriminazioni: a parità di successo, la donna è sempre inferiore agli uomini.204

Tuttavia, specialmente chi ha alle spalle un percorso di militanza femminista, ammette apertamente di aver subito delle discriminazioni. Così parla Cloti Ricciardi dei suoi compagni di strada:

L’idea di competere con una femmina li insultava, poiché si sentivano superiori. Il pensiero di confrontarti con loro in merito al tuo lavoro era oltraggioso205

Per aggirare lo scetticismo con cui è accolto il lavoro artistico delle donne, alcune fanno ricorso al travestimento del nom de plume asessuato o maschile. Questo agisce quale dis-identificatore — nel senso indicato da Goffman — per ridurre il pregiudizio e lo svantaggio sociale dell'essere donna. Ad esempio, Simona Weller firma i suoi primi

202

G. Politi, Carla Accardi, la forza del segno, Flash Art, XXXVII, 245, aprile – maggio 2004, p. 95.

203

G. Pollock, Vision and difference: femininity, feminism and histories of art, cit., p. 56.

204

L. Marcucci, intervista rilasciata all’autrice in data 2/12/2012 (v. apparati).

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quadri con la “V.” in rimando al cognome del marito Roberto Veller Fornasa; Eduarda Emilia Maino esordisce nell’ambiente milanese con il nome Dada (diminutivo di Eduarda) e dal 1961 è conosciuta come Dadamaino a seguito di un errore di stampa sulla brochure della mostra itinerante dedicata agli artisti di Zero e Nul e al Nuovo Realismo internazionale.206 A questi si possono aggiungere gli esempi di Marisa Merz, che usa il cognome del marito, e quello di Bianca Menna che esordisce nel 1970 con lo pseudonimo maschile di Tomaso Binga, adottato proprio per demistificare il potere di cui godono gli uomini nel campo dell’arte. Una strategia diffusa anche a livello internazionale: si pensi solo all’artista belga Evelyne Devaux (1935-1972), debuttante come attrice di teatro e televisione, che decide di mutare il suo nome in Evelyne Axell nel 1956; e di ridurlo in seguito ad Axell, per contrastare le resistenze delle gallerie verso le esordienti; e all’artista austriaca Valie Export (n. 1940), al secolo Waltraud

Lehner che nel 1967 abbandona il proprio nome da nubile e quello da sposata per adottare lo pseudonimo ispirato alla marca di sigarette Smart Export.207

Per riflettere sul diverso grado di coscienza con cui uomini e donne si relazionano in questo periodo, è utile considerare che già negli anni Venti, Duchamp assume l’identità femminile di Rose Sélavy, con il medesimo intento di mettere in discussione la nozione di genio creatore.208 Il ricorso a un’identità fittizia, culturalmente ritenuta inferiore a quella maschile, sottende il distacco in termini di autoconsapevolezza rispetto allo stratagemma ottocentesco ancora adottato quarant’anni dopo da alcune neoavanguardiste.

La scarsa autostima porta alcune tra le artiste ad assumere anche atteggiamenti autolesionisti: si mostrano approssimative nella presentazione del proprio lavoro, rivelano in questo periodo uno scarso spirito di competitività rispetto ai colleghi e tendono a vivere in modo contraddittorio la notorietà acquisita nel mondo dell’arte.209

Tale aspetto è ben evidenziato ne Il complesso di Michelangelo del 1976, testo di

206

Cfr. Mikro Zero/Nul – Mikro Nieuw Realisme, cat., Rotterdam, Galerie Delta, 7-9 agosto 1961; Jeugdfestival, Velp, 24-29 agosto 1961, Galerie Amstel 47, Amsterdam, 31 agosto -19 settembre 1961.

207

Cfr. J. Antoine, Stages in a Life Cut Short. Biography of Evelyne Axell, in Evelyne Axell: from pop art

to paradise, cat., Namur e Jambes, Musée Felicien Rops, 2004, Namur e Somogy, Parigi 2004, p. 10. A.

Husslein-Arco; S. Rolling; A. Nollert (a c. di), Valie Export: Zeit und Gegenzeit, cat., Vienna, Belvedere e Linz, Lentos Kunstmuseum, 16 ottobre 2010 - 30 gennaio 2011, Bolzano, Museion, 19 febbraio - 1 maggio 2011, König, Köln 2010; trad. it., Valie Export: tempo e controtempo, Museion, Bolzano 2010.

208

Secondo la rilettura proposta da Zapperi, il travestimento di Duchamp può essere interpretato come un dei primi tentativi di decostruzione del genere. V: G. Zapperi, L' artista è una donna: la modernità di

Marcel Duchamp, Ombre corte, Verona 2014. 209

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Simona Weller con introduzione di Cesare Vivaldi, dove il contributo italiano femminile alle correnti del XX secolo ottiene un suo primo riconoscimento. L’autrice lamenta il dilagare di una certa superficialità e vaghezza nel momento in cui le donne sono chiamate a documentare il proprio lavoro.210 Tra monito e denuncia, questa accusa è funzionale a giustificare gli esiti lacunosi e parziali di un’analisi autocritica condotta in chiaro stile femminista, in controtendenza ai tradizionali metodi selettivi e dove le stesse artiste sono chiamate in prima persona a un atto di auto-riconoscimento.

In aggiunta, come nella prima metà del Novecento, molte artiste mantengono nei confronti del proprio lavoro un atteggiamento ambiguo, trascurandolo o relegandolo nella sfera privata, o preferendo ad esso altre forme d’impegno.211

Senza contare che la fatica all’autopromozione «finisce per colludere, in questo modo, con un’effettiva tendenza a rendere le artiste invisibili».212 È complicato riportare esempi concreti in tal senso, perché nella maggior parte dei casi gli atteggiamenti descritti da Bentivoglio appartengono alla sfera del non-detto o si esplicitano nella scarsa disponibilità alla ricostruzione puntuale del proprio vissuto. Al contrario, le artiste della generazione precedente si sono spesso espresse con più franchezza in merito all’ambiguità del proprio comportamento. Ad esempio, Marisa Merz si distacca sin dall’inizio dalla competitività del sistema artistico e dalle pressioni del mercato. Questo prendere le distanze è spiegato da lei stessa quando scrive «A me non interessa né il potere né la carriera, m’interessano soltanto io e il mondo. Posso fare poco, pochissimo».213

Per Simona Weller, tutti questi fattori rappresentano le diverse facce del «complesso di Michelangelo»,214 ovvero del senso d’inferiorità che normalmente attanaglia le artiste; un complesso derivante in primo luogo dalla mancanza di una genealogia femminile. Per l'opinione comune, l’assenza di un corrispettivo donna del Maestro, il genio artistico per antonomasia, è la dimostrazione lampante dell’incapacità delle donne di raggiungere livelli di eccellenza nelle arti. Pochi anni prima che Linda Nochlin

210

Weller fa direttamente o indirettamente riferimento anche a Grisi, Apollonio, Vigo, Fioroni coinvolte tra le altre nel suo studio.

211

Questo atteggiamento è in linea con quanto evidenziato da Pancotto in relazione alle artiste della prima metà del Novecento. Cfr. P. P. Pancotto, Artiste a Roma nella prima meta del '900, cit., p. 11.

212

Cfr. M. Bentivoglio, Post-scriptum, in A. M. Baraldi (a c. di), Post scriptum: artiste in Italia tra

linguaggio e immagine negli anni '60 e '70, cat., cit., p. 4. 213

M. Merz, Come una dichiarazione, in «Bit», II, marzo-aprile 1968, p. 29, poi in R. Flood; F. Morris (a c. di), Zero to infinity: arte povera 1962-1972, cat., Londra, Minneapolis, Los Angeles e Washington 2001-2003, Walker Art Center, Minneapolis; Tate Modern, London 2001, p. 262.

214

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cominci a decostruire tale visione, sondando le vere ragioni ideologiche a monte dell’assenza di grandi artiste nel mondo dell’arte,215

le neoavanguardiste cercano di farsi strada superando pragmaticamente il disagio derivante dall’assenza di riferimenti culturali del proprio sesso e dalle barriere simboliche e pratiche del campo dell’arte.