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3.1 Gli effetti dei ruoli di genere

3.1.1 Il dilettantismo colto

Fino agli anni Settanta del Novecento la pratica artistica delle donne è ancora segnata dal retaggio del dilettantismo colto; vale a dire che viene considerata come mero coronamento delle virtù borghesi. L’origine di questo fenomeno va rintracciata nel XIX secolo, quando nonostante l'alfabetizzazione, l’accesso alle accademie pubbliche e al mondo del lavoro, la ricerca artistica delle donne non riesce a elevarsi alla dignità di carriera professionale: la loro arte nasce per essere un'attività amatoriale. A determinare questa situazione contribuiscono l'immutabilità dei ruoli di genere e lo sviluppo del mercato dell’arte, che fa da sfondo al processo di professionalizzazione dell’artista.167 La ridefinizione complessiva del campo artistico genera nuove dinamiche di inclusione ed esclusione, abbattendo le barriere socio-culturali precedentemente poste. Sicché, né le protagoniste dell’Ottocento francese – tra cui Rosa Bonheur, Camille Claudel, Suzanne Valadon - né le artiste coinvolte nelle avanguardie storiche – le futuriste Regina e Benedetta, l’espressionista tedesca Gabriele Münter e le russe Natalja Gonĉarova, Ljubov Popova, Olga Rozanova - riescono a consegnare agli anni Sessanta un immaginario simbolico alternativo a quello ufficiale, complice il processo di occultamento storico dell’arte al femminile, che mina all’origine il consolidarsi di una

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Non più assoggettato al controllo delle congreghe accademiche, l'artista infatti deve rispondere sin dall’Ottocento alla logica del mercato, conciliando le esigenze del sostentamento con gli ideali artistici. Perciò interagisce con due figure di mediazione: il mercante dell’arte che lavora sul piano economico e il critico d’arte su quello simbolico. Per un approfondimento sul percorso di professionalizzazione delle artiste tra XIX e XX secolo, si veda: M. A: Trasforini, Artiste accademie e scuole d’Arte in Italia, in Ead.,

Nel segno delle artiste, donne, professioni d'arte e modernità, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 74-78; E.

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genealogia di genere. Perciò, nonostante in questo lasso di tempo i mutamenti della condizione femminile vadano di pari passo al successo raggiunto da alcune figure borderline e alla messa a punto di strategie collettive di affermazione,168 la situazione giunge pressappoco immutata al secondo dopoguerra.

Per certi aspetti, la connotazione fortemente maschile del campo dell’arte trova ragion d’essere più sul piano narrativo che su quello fattuale. Essa è radica innanzitutto sul concetto di maschio inteso, a detta di Battersby, quale parametro dell’evoluzione culturale dell’uomo in senso generale che dei modelli di creatività. Di conseguenza il ‘genio’ è costruito attorno a una precisa identità sessuale, pensato sempre al maschile, si oppone per statuto - e sopperisce - al potenziale creativo delle donne, portatrici di nuova vita.169 Come afferma Griselda Pollock, ciò rivela quanto l’arte sia stata condizionata

dalle costruzioni di genere, o meglio quanto le costruzioni di genere abbiano contribuito a definire ciò che è arte e ciò che non lo è, a dichiarare chi è artista e a decidere chi vada ricordato e chi no.170 La struttura del campo dell’arte e il dilettantismo colto femminile appaiono, dunque, due aspetti antitetici e in parte collaterali alla mancanza di una genealogia di genere.

In quest’ottica, l’arte delle donne non viene percepita come il prodotto di un percorso evolutivo, ma come espressione estemporanea dell’alterità, almeno fino al neofemminismo degli anni Settanta. Il lavoro artistico continua a essere ritenuto poco adatto alle donne che, perseverando in questo cammino, si rendono responsabili di un disordine simbolico, giacché incrinano l’investimento sociale che si sta compiendo sul loro corpo di madri. A ridurre la distanza con la cultura di fine XIX secolo contribuisce, in maniera considerevole, il processo di controrivoluzione sessuale trainato, come già visto, dalla Chiesa e dalla politica nel secondo dopoguerra. Il recupero di attitudini

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L’associazionismo tra donne costituisce già nella prima metà del Novecento un mezzo di accreditamento individuale e di riconoscimento collettivo; ma al contempo crea un diverso limite, nella misura in cui ghettizza la produzione delle donne entro lo spazio e la visibilità concessi dal sistema. Ad esempio, l’A.N.F.D.A.L. (Associazione Nazionale Fascista Donne Professioniste Artiste e Laureate), sindacato nato nel Ventennio fascista per valorizzare le qualità intellettuali delle donne, finisce per svolgere un’indiretta funzione di arginamento, sulla base delle condizioni imposte dal regime che permette alle donne di dedicarsi all’arte a patto che non venga pregiudicato il ruolo all’interno della famiglia. V: S. Spinazzè, Artiste nel ventennio. Il ruolo dell’associazionismo femminile tra emancipazione

e nazionalizzazione, in M. A. Trasforini (a c. di), Donne d’arte: storie e generazioni, cit., pp. 57-77. 169

Per un approfondimento sul tema si veda: C. Battersby, Gender and genius: towards a feminist

aesthetics, cit. 170

V: G. Pollock, Vision and difference: femininity, feminism and histories of art, Routledge, London New York 1988.

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comportamentali e occupazioni tradizionali incoraggiano le donne a cimentarsi nell’arte quale forma di diletto. A ciò si aggiungono il ritorno a un regime di netta separazione tra pubblico e privato e la rigida distinzione tra i ruoli di genere e le rispettive aree – territoriali, culturali, professionali - di competenza.

Ne L’arte cambia sesso171 del 1975, Elsa Emmy offre un ritratto lucido e disincantato della pittrice italiana contemporanea, che ne rivela idiosincrasie congenite e culturali. Antitetica all’artista borderline ottocentesca spesso additata come fallen woman, la pittrice italiana proviene da una famiglia alto-borghese, dispone dei titoli e delle risorse finanziarie per sostenere i costi della produzione artistica e per garantirsi l’attenzione di riviste specializzate. Potenzialmente competitiva sul mercato, il suo carattere e la sua indole sono però forgiati su modelli femminili della società capitalistica, che ne fanno un soggetto dedito alla famiglia e al consumismo sfrenato, desideroso di rifuggire la noia della vita casalinga gettandosi nell’hobby artistico, ma incapace di maturare una coscienza critica rispetto alla realtà e alla propria condizione sociale. In tale prospettiva, Elsa Emmy assimila il «modello della pittrice» a un vero e proprio prodotto di classe: una sorta di alter ego della donna oggetto della società dei consumi. L’hobby artistico funge infatti da antidoto allo stato depressivo della «casalinga inattiva, la cui caratteristica è di voler sostituire la funzione perduta in famiglia con l’affermazione di sé in forma di esibizionismo patologico».172

D’altra parte, già un decennio prima, Betty Friedan evidenzia ne La mistica della femminilità come il ritorno delle donne ai lavori tradizionali rinfocoli la visione amatoriale dell’arte al femminile:

a prima vista le arti sembrerebbero la soluzione azzeccata per una donna: in fondo, possono essere praticate anche a casa. Non comportano necessariamente il temuto professionalismo: sembrano fatte proprio per le donne, offrono uno spazio indefinito allo sviluppo personale e alla soggettività, senza alcun bisogno di concorrere per ottenere una retribuzione173

In altri termini, nella società degli anni Sessanta, l’arte al femminile è generalmente tollerata come pratica d’evasione, conserva intatta la parvenza del riscatto nell’atto

171

V: E. Emmy, L' arte cambia sesso, C. Tringale, Catania 1975.

172

Ivi, p. 312.

173

B. Friedan, The Feminine Mystique, Dell, New York 1964; trad it., La mistica della femminilità, cit., p. 289.

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liberatorio del gesto creativo, purché rispetti la sua natura autoreferenziale, privata, rinunciataria. Ne consegue che il profilo della pittrice ricalca spesso lo stereotipo di femminilità angelica, infantile e priva di volontà d’affermazione. Se da una parte lascia intatte le sue caratteristiche di leggerezza ed eterea beatitudine, questa rappresentazione consolatoria esclude ab origine le donne dalla scalata al successo, inibendo il loro potenziale competitivo.

Per costruire la propria credibilità, le neoavanguardiste devono distaccarsi innanzitutto dal «modello della pittrice»; un processo che avviene in modo piuttosto graduale e spesso tortuoso. Oltre al ceto sociale d’appartenenza, molte artiste condividono infatti con le pittrici dilettanti diversi aspetti della vita pratica. Uno fra tutti è l’organizzazione spazio-temporale del proprio lavoro. A differenza dei colleghi, è più facile che lo spazio destinato al lavoro artistico venga ritagliato all’interno di quello domestico. Scrive Fioroni in riferimento all’inizio della sua attività:

Avevo brevemente lavorato come costumista per l’allora nascente Televisione italiana […], ma avevo lasciato anche quella attività e mi ero messa a dipingere nella veranda della casa dove abitavo con Ippolito in via Cirillo 15 ai Parioli.174

D’altra parte, tra Otto e Novecento, gli studi d'artista contemplano una vasta gamma tipologica che spazia dall'atelier classico per artisti maturi e consolidati fino a soluzioni estemporanee, talvolta precarie o anche inesistenti. L’ampliamento di tale orizzonte operativo va di pari passo alla diffusione di manufatti – collage, libri d’artista - e di esperienze artistiche – performance, happening - che non necessitano né di grandi spazi né di attrezzature specifiche.

In generale per le artiste di neoavanguardia il passaggio dalla fase amatoriale a quella professionale è più lento che per i colleghi e risente di maggiori resistenze esterne. In aggiunta, il ricorso a sistemazioni provvisorie risponde, nel loro caso, anche a specifiche esigenze di genere. Per molte, la pratica artistica deve conciliare con le mansioni familiari e la ritualità domestica. Soprattutto tra quelle sposate, poche sono le artiste che possono permettersi uno studio indipendente e hanno la possibilità di lavorarvi per molte ore al giorno. Ad esempio, Lucia Marcucci, Elisabetta Gut e Ketty

174

G. Fioroni, Autobiografia 1990, ripr. in Giosetta Fioroni, cat., Parma, Salone delle Scuderie in Pilotta, 6 marzo -18 aprile 2004, Skira, Milano 2004, p. 196.

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La Rocca portano avanti la propria attività in casa negli anni Sessanta, adibendo un vano dell’abitazione a proprio studio o lavorando in cucina o in soggiorno.175

Diversamente, Cloti Ricciardi, Giosetta Fioroni e Nanda Vigo posseggono un piccolo studio, necessario per la creazione di opere particolarmente ingombranti o funzionale anche allo svolgimento di un’altra professione.176

In aggiunta, in una condizione di totale responsabilità del ménage familiare, la maternità e l’accudimento dei figli impongono tempistiche operative discontinue rispetto a quelle dei colleghi; ciò implica periodi d’inattività e l’adeguamento del proprio impiego a un diverso ordine di priorità giornaliere. Fanno eccezione le poche artiste che seguono una traiettoria di vita più individualistica – Fioroni, Vigo e Dadamaino – o coloro che non hanno avuto o preferito non avere figli, come Ricciardi.