• Non ci sono risultati.

TEMI E MODI DELLA CORRENTE PROTO-FEMINIST

1.2 Temi di ricerca

1.2.3 Maternità e ruoli social

La trasposizione del proprio vissuto consente alle artiste d’interpretare l’ordine simbolico a partire dalle esperienze passate e di rielaborare i codici visivi tradizionali sulla base di comportamenti e attitudini propri del mondo femminile, fino a quel momento sublimati o relegati nel privato.

La genitorialità, il lavoro di cura, le faccende domestiche travalicano la sfera casalinga per accedere alla dimensione artistica, azzerando le distanze tra arte alta e arte bassa, e tra i rispettivi immaginari di riferimento. Questi tre diversi aspetti, che designano traiettorie di ricerca distinte nella feminist art, negli anni Sessanta vengono più spesso fusi nel tema della maternità. Le opere che seguono intepretano la maternità nel senso più ampio possibile, in maniera diretta o indiretta, spaziando dai cambiamenti fisici che la gestazione comporta agli obblighi sociali e alle diverse attitudini comportamentali che ne derivano.

In Respiro (1968, fig. 51), Cloti Ricciardi riveste le pareti della sala del teatro di Giancarlo Nanni di Roma con una grande tela, pensata per essere tirata e deformata dagli spettatori. Sul piano visivo, l’intervento richiama Caverna dell’anti-materia (1959) di Pinot Gallizio, dove lo spazio si smaterializza sotto la totale presenza dei rotoli dipinti che ne invadono mura, soffitto e pavimento; un vero e proprio detournement che, come per Respiro, fa posto al visitatore al suo interno, creando una dimensione metaforica, una realtà provvisoria, un anti-mondo. Nell’opera di Ricciardi, tuttavia, la componente formale scompare a vantaggio di quella comportamentale in quanto gli spettatori sono chiamati a innescare il movimento pulsante che dà loro la sensazione di trovarsi all’interno di un essere vivente. Già la parola respiro suggella la relazione tra corpo ospitante e corpo ospitato: l’ambiente si riconfigura come polmone o come placenta, a seconda che si voglia riferire il titolo all’atto di respirare o di accogliere un anelito di nuova vita. Nel secondo caso, la creazione di uno spazio intermedio modificabile da una o più persone, rinvia oltretutto il concetto di placenta inteso da Irigaray come «spazio altro», luogo che non appartiene né alla donna né all’embrione, ma che permette la coesistenza di entrambi.438

438

166

Questa interpretazione potrebbe trovare un precedente nell’opera Muro (1966, fig. 52), dove Ricciardi muove dalle curve del suo corpo per costruire, mediante una precisa operazione proiettiva, una forma geometrica. L’origine dell’opera è però celata agli spettatori perché le pareti del solido sono innalzate a un’altezza tale da impedire a quest’ultimi di dedurre l’associazione di fondo.439

Perciò sia in Muro che in Respiro, l’atto di avvolgere il pubblico entro un ambiente che simboleggia, rispettivamente, il proprio corpo o un corpo qualunque potrebbe rivelare un approccio pragmatico al tema della maternità; tema involontariamente sviscerato da un punto di vista sensoriale. Proprio quella della maternità è infatti un’esperienza a cui l’artista decide di non avvicinarsi per un vero e proprio rifiuto fisico.440

Chiusa nel suo linguaggio minimalista e concettuale, l’opera di Ricciardi dialoga con lavori di artiste coeve che tentano di ripensare il tema della maternità, fino ad allora condizionato dallo stereotipo della «madre-madonna». Basti pensare a Hon - en katedral (1966, fig. 53) di Niki de Saint Phalle: una gigantesca Nana incinta, distesa sul dorso come in procinto di partorire. L’opera è realizzata con il supporto del suo compagno Jean Tinguely e di Per Olof Ultvedt per il Moderna Museet di Stoccolma. I visitatori possono accedervi passando per la vagina e decidere se recarsi al piccolo planetario installato nel seno sinistro; trovare ristoro nel bar collocato nel seno destro, assistere alla proiezione del film svedese del 1922 Peter il vagabondo nella sala cinematografica da dodici posti situata in una delle due gambe; o ammirare falsi dipinti di antichi maestri nella galleria disposta lungo l’altra gamba. Frena le critiche dei moralisti, il motto dell’ordine britannico della giarrettiera dipinto al posto del reggicalze: «honi soit qui mal y pense» (ovvero: «sia svergognato chi pensa male»).441 Nel decennio successivo, la rivisitazione della maternità per mezzo di uno spazio rimodulato ritorna in Ambiente Origine (1976) di Carla Accardi, presentato in occasione della personale presso la galleria autogestita Beato Angelico. Come già per Tende (1965-1966), Ambiente arancio (1966-1968) e Triplice tenda (1969-1971), Accardi si cimenta nella costruzione di un’area nomade e anti-istituzionale, una specie di «stanza

femminile, il Melangolo, Genova 2014, p. 14. 439

L’opera è esposta in occasione della Dissertare-Disertare (Genazzano, palazzo Colonna, 2006). Cfr. L. Iamurri (a c. di), Autobiografia/Autoritratto: Eustachio, Catania, Montessori, Ricciardi, Monaci, Stucky,

Woodman, cat., Museo Hendrik Christian Andersen, cit., p. 35. 440

C. Ricciardi, intervista rilasciata all’autrice in data 6/7/ 2014 (v. apparati).

441

V: Niki de Saint Phalle, cat., Nizza, Musèe d'art moderne et d'art contemporain, 2002, Musèe d'art moderne et d'art contemporain, Nizza 2002.

167

tutte per sé» che richiama il separatismo femminista e le pratiche dell’autocoscienza. Allo stesso tempo, in Ambiente Origine l’artista riflette nello specifico sull’esperienza individuale e femminile della maternità: «Ho seguito il tema del rapporto tra madre e figlia in prima persona [...] ho una madre anziana e una figlia adulta».442

Le opere prese in esame sembrano evidenziare dunque una linea di continuità nelle poetiche a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, tese a demistificare la visione classica di maternità nella cultura visiva occidentale e ad aprire nuove prospettive critiche per rappresentare la gestazione, specialmente a partire dal legame intersoggettivo che sottende.

La genitorialità permea diverse poetiche di neoavanguardia anche perché nel decennio Sessanta la maggioranza delle artiste considerate si sposa e ha dei figli. Dunque queste donne si trovano a confrontarsi, proprio in questo periodo, con i molteplici cambiamenti che tale esperienza comporta.

La maternità funge anzitutto da stimolo poetico, essendo essa stessa un atto creativo; al contempo, ne limita la libertà richiamandole ai compiti previsti dal funzionamento della vita di coppia tradizionale. Le mansioni di cura dei figli sono affidate alle donne, le quali devono rimodulare tempi e modalità del proprio lavoro in base alle incombenze domestiche. Molte si vedono costrette a sospendere l’attività artistica, per assolvere ai doveri familiari, oppure a ripensare la propria ricerca in un altro ordine d’idee. Nondimeno, l’isolamento forzato in cui si ritrovano e il confronto intimo e assiduo con i figli costituiscono una preziosa fonte d’ispirazione. Di fatto, mentre adempiono alla regola dell’«armonico equilibrio»,443

conciliando il lavoro artistico al ruolo di mogli e madri, riescono a elevare la quotidianità familiare a dignità artistica.

Si può far risalire la prima esibizione pubblica del vissuto quotidiano alla mostra d’esordio di Marisa Merz, allestita nel 1966 proprio in casa dell’artista: una situazione inusuale dove l’evento espositivo avviene in un ambiente informale e conviviale. Affacciatasi al mondo dell’arte a quarant’anni, Merz trova nell’esperienza della maternità una risorsa poetica. Ad esempio, le Scarpette (1966, fig. 54), lavorate a maglia con un filo di nylon, prendono spunto dall’esigenza concreta di creare delle

442

C. Accardi, in A. M. Sauzeau Boetti, Le finestre senza la casa, in «Data», 27, luglio-settembre, Milano, 1977, p. 37. L’opera viene presentata nel maggio nel 1976 in occasione della sua personale presso lo spazio espositivo autogestito.

443

168

calzature per lei e per la figlia; lo stesso vale in Altalena per Bea (1968), un enorme triangolo di legno sospeso al soffitto della sua casa-studio mediante cerniere e assali, destinato sì a fruizione privata ma al contempo assurto a simbolo dell’amore materno.444

Anche le «lavagne» (fig. 55) di Simona Weller traggono origine da un’attività educativa. Weller vi lavora dal 1970 – poco prima del suo ingresso in Rivolta femminile – partendo dai quaderni dei suoi bambini, all’epoca studenti delle scuole elementari, per sviluppare un’analisi sulla scrittura infantile in cui coniuga i ricordi dell’apprendimento scolastico dei figli a quelli della sua funzione materna.

Già Crispolti sottolinea nella produzione dell’artista un racconto inteso a «sillabare figuralmente gli strumenti primari di un possibile svolgimento narrativo dal rapporto quotidiano».445 Nate sulla spinta espressiva di Twombly e Novelli, queste sillabazioni, aprono per il critico al recupero di una vera e propria dimensione aurorale e infantile e di una condizione «“a monte” del figurare, e appunto del figurare narrativamente»;446 una dimensione che poco ha a che fare, per intendersi, con il tran tran giornaliero.

Per ammissione della stessa Weller, invece, le mansioni di cura hanno un’influenza nient’affatto secondaria nell’orientamento della sua poetica.447

In questa prospettiva, le lavagne hanno il pregio d’interpretare la genitorialità ponendo al centro di essa il lavoro pedagogico delle donne. Così facendo, anticipano alcuni temi del dibattito teorico femminista intenzionato a riconfigurare e valorizzare il rapporto madre-figlio. Se ad esempio si considera il pensiero filosofico di Kristeva, le opere prese in esame già conferiscono forma estetica ad alcuni elementi del cosiddetto «ordine semiotico della madre»; o meglio, del passaggio da questo all’ordine simbolico, introdotto per Lacan dalla legge del Padre. Pur non configurando il rapporto simbiotico che si instaura tra madre e figlio durante la fase pre-edipica, le lavagne esaltano le risorse pre-simboliche che attingono alle esperienze infantili della diade madre-bambino.448 In aggiunta, grazie ai propri figli, Weller, come Marisa Merz, procede verosimilmente, alla rievocazione

444

Cfr. G. Celant, Marisa’s swing, «Art Forum», 1992, pp. 97-101.

445

E. Crispolti, Risillabare la realtà, 1972, in S. Barbagallo (a c. di), Simona Weller. Verba picta, cat., cit., pp. 203-204.

446

Ivi.

447

Cfr. il paragrafo 2.4 Sotto la maschera nella prima parte della tesi.

448

Per un’analisi sul recupero del territorio materno nell’economia del linguaggio si veda: J. Kristeva,

Théorie d’ensemble e Polylogue, Edition du Seuil, Parigi 1968; trad. it., Materia e senso. Pratiche significanti e teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1980, pp. 154-181.

169

della propria infanzia e del primordiale rapporto con sua madre. Un recupero auspicato anni dopo dalla filosofa femminista Luisa Muraro, secondo cui il nuovo ordine simbolico delle donne deve fondarsi sulla figura della madre, funzionale alla costruzione di una genealogia di genere.449

Sulle prime tappe del percorso di crescita si concentra anche Post-partum Document (1973-1979), dove Mary Kelly (n. 1941) monitora i primi sei anni di vita del figlio, traslando sul piano estetico la ritualità associata all’infanzia. Nata nell’Iowa, l’artista studia negli anni Sessanta a Firenze e a Londra dove coglie i riverberi della rivolta studentesca e partecipa a diversi collettivi femministi. Rimasta incinta nei primi anni Settanta, si dedica a opere in cui tenta di dimostrare come concetti quali soggettività, rappresentazione, desiderio e differenza sessuale non siano altro che costruzioni sociali. In Post-partum Document, l’esplorazione del rapporto madre-figlio si concretizza nella raccolta feticistica di oggetti e indumenti del nascituro, dando forma all’indagine introspettiva del cambiamento imposto dal suo ruolo di madre e dei progressi che il bambino compie nell’acquisizione del linguaggio. Avvalendosi del linguaggio documentario dell’arte performativa e concettuale, arricchito da elementi delle teorie marxiste, femministe e psicoanalitiche, l’artista punta a rendere visibile la relazione psicologica che s’instaura tra madre e figlio piuttosto che i soggetti coinvolti in essa.450

La casalinghitudine connessa alla cura dei figli viene interpretata con maggior livore da Mierle-Laderman Ukeles (n. 1939) in Hartford Wash: Washing, Tracks, Maintenance (1973, fig. 56). Qui l’artista pulisce stando a carponi per quattro ore, sfregando vigorosamente l’ingresso del Wadsworth Atheneum Hartford Connecticut, poi lava i pavimenti della sala espositiva per altrettanto tempo. Performance di «arte manutentiva»,451 Hartford Wash porta gli umili lavori casalinghi assolti dalle donne a livello di contemplazione estetica e rivela quanto l’immagine del museo dipenda strutturalmente dal lavoro svalutato di manutenzione e conservazione quotidiano.452

449

V: Diotima, L'ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.

450

V: M. Kelly, Post-partum document, Routledge & Kegan Paul, Londra 1983.

451

Il termine fa riferimento al manifesto sulla Maintenance Art redatto dall’artista nel 1969, un anno dopo la nascita del suo primo figlio. La duplice condizione di artista e madre, la porta a contestare le dichiarazioni di neoavanguardia che esaltano la figura del genio, elevando a statuto artistico il lavoro di cura dei figli e della casa. http://www.feldmangallery.com/media/pdfs/Ukeles_MANIFESTO.pdf; sulle

performance di arte manutentiva si veda: http://www.arnolfini.org.uk/whatson/mierle-laderman-ukeles-

maintenance-art-works-196920131980/MierleGuidefinalweb.pdf (accesso 6/4/2015).

452

Cfr. M. Know, Genealogy of site specificity, in Id., One place after another: Site-specific art and

170

Sulla stessa lunghezza d’onda viaggia il corto Semiotics of the Kitchen (1975, fig. 57)453 in cui Martha Rosler propone una versione parodistica dell’attività culinaria. La telecamera fissa riprende una donna posta dietro un piano da lavoro su cui trovano posto diversi utensili da cucina, ognuno dei quali è preso, nominato e adoperato senza cibo, mostrandone solo il procedimento d’uso. La polifonia di suoni e rumori che ne deriva demistifica la routine legata al lavoro domestico e polemizza contro le industrie nazionali di produzione alimentare. Quella proposta da Rosler è un’antitesi di Julia Child, icona televisiva di trasmissioni culinarie dedicate alle massaie, capace di restituire il «significato casalingo degli arnesi con un lessico di rabbia e frustrazione».454

Come chiariscono questi lavori, l’interpretazione della maternità tra gli anni Sessanta e Settanta vede il passaggio da una visione sublimata a un’interpretazione più realistica, che non cela gli aspetti poco gradevoli, ripetitivi e monotoni che caratterizzano questa esperienza di vita, specialmente quando manca l’assistenza da parte del partner.455

Pertanto, mentre negli anni Sessanta le neoavanguardiste accettano in maniera incondizionata i modelli imposti, le colleghe feminist partono dall’intimo e dall’apparentemente banale per marcare con astio spazi d’azione, strumenti a disposizione e attitudini delle donne. Una sfera, quella personale e giornaliera, che secondo Kristeva può essere l’unico punto di partenza per i grandi rivolgimenti della storia moderna, una volta finita l’epoca delle rivoluzioni. Nel quotidiano infatti sono inscritti i linguaggi più forti, quelli che hanno radici antiche e perdurano non solo come memoria ma anche tracce invisibili e incomprensibili del corpo.456

Di riflesso, il contrasto contenutistico che si evince nelle opere di questi due decenni si estende anche alla concezione stessa dello spazio casalingo.

Ad esempio, il concetto di casa trasmesso nel video di Rosler è opposto a quello proposto in ambito architettonico da Nanda Vigo circa quindici anni prima. A partire dalle teorie spazialiste di Fontana, quest’ultima lavora negli anni Sessanta a ridefinire l’ambiente domestico, rinunciando alla superficialità degli elementi d’arredo in favore

453

video in b/n, 6’ 9”; disponibile su: http://www.eai.org/title.htm?id=1545 (accesso 7/7/2015).

454

M. Rosler, Semiotics of the Kitchen, ivi.

455

Per una panoramica delle ricerche artistiche delle donne sul tema della maternità nel Novecento, si veda Massimiliano Gioni (a c. di), La Grande Madre, cat., Milano, Palazzo Reale, 26 agosto – 15 novembre, Skira, Milan 2015; Per il contesto italiano si confronti anche: R. Perna, Arte, fotografia e

femminismo in Italia negli anni Settanta, cit. 456

171

di una decostruzione strutturale giocata sul fattore-luce. Nello specifico l’artista punta alla:

Massima eliminazione del mobile se non di estrema utilità come tavolo pranzo o sedute: integrazione delle arti e atmosfere mutabili condizionate dall’illuminotecnica.457

In questa logica, Interno Bianco (1959-1963, fig. 58)458 è un’abitazione ricavata in un condominio dalla pianta pressoché irregolare, che Nanda Vigo progetta da giovane laureanda appena rientrata in Italia dopo un apprendistato a New York. Si tratta di uno spazio monocromatico bianco, le cui pareti sono rivestite da panelli in vetro smerigliato; pannelli dietro cui corrono tubi fluorescenti bianchi, blu e rossi che possono essere accesi e miscelati a piacimento. Definito da lei stessa ‘Ambiente cronotopico’, Interno Bianco risponde a tutti gli effetti agli obiettivi che Nanda Vigo si pone nella progettazione degli interni, ovvero «far raggiungere il benessere psico-fisico di chi lo abita, isolandolo dai condizionamenti della vita che sta fuori».459 Il progetto gioca sull’intreccio tra architettura, design e arte. Una soluzione di continuità collega il pavimento con gli elementi d’arredo - letti, mobile bar e divani - in una linea interrotta solo dall’inserimento di un mobile antico e di opere d’arte, come quella di Castellani, commissionata appositamente per il soggiorno. Ne deriva un processo di azzeramento che parte dagli achromes di Manzoni, ma si sviluppa sul piano architettonico, per rimettere in discussione l’inerzia fisica degli spazi tradizionalmente intesi, anche dopo la rivoluzione razionalista. Spogliata di qualsiasi orpello decorativo, l’appartamento progettato da Nanda Vigo è uno spazio neutrale, che a primo acchito non reca alcun segno della casalinghità femminile.

L’esatto opposto, per intendersi, di quanto avviene nella già citata Womenhouse (1972, fig. 59), dove Miriam Schapiro (1923 – 2015) e Judy Chicago (n. 1939) evidenziano al contrario tutti gli elementi strutturali, culturali e pratici dell’ambiente domestico che ne fanno il luogo di massimo impiego femminile e di espressione del

457

N. Vigo, intervista rilasciata all’autrice in data 13/9/2014 (v. apparati).

458

In riferimento alla ricerca architettonica di Nanda Vigo si veda B. Pastor, Nanda Vigo: interni ‘60-’70, Abitare Segesta, Milano 2006.

459

172

pieno coinvolgimento delle donne nelle dinamiche casalinghe sin dalla prima infanzia.460

460

173 2.

Uno sguardo sul mondo

2.1 Attualità

Le opere prese in esame in questo paragrafo sono incentrate su macrocambiamenti ed eventi storici che segnano il decennio Sessanta: l’urbanizzazione, l’allunaggio, la Guerra in Vietnam.

Si tratta di tematiche piuttosto distanti tra di loro, dalla risonanza internazionale e più o meno indirettamente incidenti sulla vita dei singoli. Nell’affrontarle le artiste raccontano i mutamenti sociali e culturali del proprio tempo e, con essi, la metamorfosi antropologica che investe le donne. Quest’ultimo aspetto è diretta conseguenza della diversa posizione che occupa il soggetto femminile all’interno della società; una posizione di maggiore autonomia, mobilità e che garantisce un’ampia libertà d’espressione. Guardare al mondo con occhio critico implica pure di soppesarne limiti e idiosincrasie. A ben vedere, molti argomenti di queste opere afferiscono a una dimensione operativa – politica e sociale – di quasi totale pertinenza maschile. Data l’ancora esigua partecipazione delle donne alla vita pubblica, le artiste interpretano tanto i cambiamenti morfologici e culturali dell’ambiente in cui vivono quanto gli avvicendamenti storici dell’epoca da una prospettiva decentrata, esterna; un punto di vista altro che significa, a un tempo, la propria estraneità a certi ambiti d’azione, l’isolamento in spazi socio-culturali protetti e le iniquità della società patriarcale.

Il periodo postbellico è caratterizzato dalla ricostruzione dei centri cittadini, delle reti di trasporto e dell'economia industriale. Tale processo incrementa crescita e sviluppo nel segno dell'industrializzazione e della concentrazione urbana, divenendo occasione per la riforma legislativa dei settori connessi all'urbanistica e soprattutto per l'avvio di

174

politiche ambientali complessive. Tra le grandi opere del secondo dopoguerra, si registra l’Autostrada del Sole (1956-1964) fortemente voluta dai governi di sinistra per rilanciare l’economia del paese. Le radicali trasformazioni del paesaggio indotte da questa costruzione sono testimoniate da artisti quali Mario Schifano, Giorgio de Chirico e Renzo Vespignani, attraverso lavori che celebrano la ricerca di un nuovo equilibrio tra natura e cultura.

La riqualificazione urbanistica dei centri cittadini e la costruzione di importanti condotti viari a scorrimento veloce va di pari passo al promulgamento del nuovo Codice della Strada (1959): misura che pone rimedio alla disastrosa segnaletica stradale preesistente, provvede all’ordinamento dei vari segnali stradali e modifica in maniera rilevante l’arredo urbano.

Tra le prime ricerche degli anni Sessanta che attingono al linguaggio segnaletico tentando di ridefinire l’estetica urbanistica si ricorda il ciclo Verkehrszeichen und Signale (1961-1972) del tedesco Winfred Gaul, sulla cui scia si pongono le sperimentazioni di Jannis Kounellis, Franco Vaccari, Christo, Bruning Peter.

Nell’ambito della poesia visiva questo sentiero è battuto da Miccini, Pignotti e Ketty La Rocca.

Basti considerare L’approdo, intervento curato da Pignotti del 1967, che consiste nella chiusura del tratto autostradale Firenze Nord e nella sostituzione dei legittimi cartelli con delle opere d’arte. Per l’occasione, Ketty La Rocca presenta Noi Due (figg. 60-61): il segnale circolare, che indica nel lessico stradale le direzioni di marcia consentite, viene adottato e traslato di segno, andando a indicare, nella biforcazione delle frecce, la separazione di due traiettorie di vita. Chiarisce il rebus la scritta