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Definiti l’orizzonte storico, il contesto familiare d’origine e alcune relative coordinate culturali, si vuole ora indagare in modo più approfondito l’identità della generazione delle artiste di neoavanguardia e le idiosincrasie che ne influenzano di riflesso la personalità.

Stretta tra due coorti di ben altro spessore – quella della Seconda guerra mondiale e quella sessantottina – la generazione dei giovani cresciuti negli anni Cinquanta ha visto una chiara definizione antropologica solo nell’ultimo ventennio.90 Fino ad allora, la generazione in questione è stata generalmente descritta in opposizione a quella del decennio Sessanta; fattore che ha determinato, specialmente nel dibattito femminista, una frettolosa svalutazione della coorte di donne che precede quella del neofemminismo degli anni Settanta, gettata in una zona grigia che ne ha ulteriormente sbiadito i contorni e appiattito le sfaccettature.

Per un verso, l’opposizione tra questi due gruppi è tangibile. Se i giovani che trainano i movimenti studenteschi e operai del 1968 s’impongono per la forza del loro carattere e un crescente senso d’indipendenza dal contesto familiare, quelli della generazione precedente sono ancora legati al tessuto sociale d’appartenenza, nelle cui logiche plasmano modelli comportamentali, atteggiamenti e aspettative di vita. Inoltre, in mancanza di riferimenti generazionali e di politiche d’aggregazione, il portato del proprio strato sociale acquista maggiore rilevanza per i ceti più agiati, dove i cambiamenti socio-culturali si insinuano con lentezza. Peraltro, chi cresce negli anni Cinquanta vive fin da subito mutamenti come l’inurbamento, la diffusione dei mass

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V: C. Saraceno, Pluralità e mutamento. Riflessioni sull’identità femminile, Franco Angeli, Milano 1987; S. Piccone Stella, Crescere negli anni Cinquanta, cit.; P. Sorcinelli (a c. di), Identikit del Novecento:

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media, il successo della televisione, l’espansione di nuovi consumi e l’imporsi di una crescente attenzione per fenomeni legati al sesso; cambiamenti che saranno tratti dominanti della società degli anni Sessanta.

L’intreccio tra questo ritratto generazionale e la condizione femminile del secondo dopoguerra lascia emergere spinte più o meno evidenti che orientano destino e poetiche delle neoavanguardiste. Simone de Beauvoir traccia di questo iter un ritratto lucido, distaccato e impietoso già nel 1949. «Donna non si nasce, lo si diventa»91 afferma nel Secondo Sesso giacché fin dall’infanzia maschi e femmine sono inseriti in due differenti percorsi di crescita, predisposti al soddisfacimento delle future aspettative sociali. La filosofa, antesignana del neofemminismo, analizza l’influenza del fattore biologico sul destino dell’individuo a partire dalla tenera età, dove educazione familiare e letteratura per l’infanzia tessono per le donne la trama di simbologie culturalmente associate alla “femmina” e alla “femminilità”. Esortate all’indolenza, alla volubilità, all’asservimento, le bambine – continua de Beauvoir – sono al contempo ammaestrate sin da subito al lavoro di cura, così predisposte a ricoprire con dedizione il futuro ruolo di madre.92

Ciò significa che fino alla stagione femminista degli anni Settanta, la “donna”, il concetto di “femminilità”, è pensato solo quale alterità, cioè come elemento di contrasto all’identità maschile. L’educazione di genere, che risente di modelli comportamentali ispirati dalla morale cattolica, ottiene due risultati: contribuisce a rafforzare la convinzione sociale di una naturale asimmetria gerarchica tra uomini e donne; e incoraggia quest’ultime a introiettare l’idea della propria alterità, intesa come ovvia inferiorità, precludendo ogni possibilità di autorappresentazione.

Consapevoli o inconsapevoli che siano, le scelte poetiche e di vita delle artiste risentono innanzitutto del grado di adesione a questo tipo di stereotipi e simbologie. Non a caso, i riferimenti a un’educazione difforme o estranea a schemi di genere precostituiti affiorano spesso nelle dichiarazioni delle artiste oltre la ritrosia a parlare del proprio vissuto.

Ad esempio, Lucia Marcucci confessa come il padre, desideroso di un figlio maschio, la spingesse a incarnarne le virtù virili, a essere coraggiosa, temeraria, a non lamentarsi mai, ad affrontare qualsiasi difficoltà con fermezza. La sollecitazione ad

91

S. de Beauvoir, Le deuxieme sexe, Librairie Gallimard, Paris, 1949, trad. it. Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 271.

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adottare schemi comportamentali maschili, viene accettata di buon grado dall’artista che ammette «non giocai con le bambole, mai mi atteggiai a mammina, mai ritagliai un vestito, mai lessi letteratura per bambine»,93 dilettandosi piuttosto col gioco della guerra, delle costruzioni e degli indiani. Viceversa, Tomaso Binga (n. 1931), artista della stessa generazione, cresce in un ambiente familiare contrario alla tradizionale divisione dei ruoli. «In casa nostra» sostiene «non si parlava mai di matrimonio: la priorità era lo studio e l’indipendenza economica».94

In generale, è plausibile che l’educazione progressista, improntata alla parità tra i sessi e alla piena realizzazione personale, abbia incoraggiato in certe artiste un maggior senso (auto)critico; oppure, al contrario, che il medesimo risultato sia raggiunto in reazione a un’educazione clericale particolarmente severa. Basti pensare che l’atteggiamento dissacratorio nei confronti della dottrina e della morale cattolica in Ketty La Rocca è verosimilmente radicato proprio nell’educazione ricevuta a Spoleto, in un collegio locale di religiosi, dove si trasferisce a seguito della morte del padre avvenuta nel 1950.95 Simili percorsi educativi potrebbero dunque fornire una spiegazione allo sguardo distaccato e contestatario con cui, ad esempio, Lucia Marcucci oltre a Ketty La Rocca interpreta i cliché di genere del proprio tempo. Cionondimeno, il carattere corrosivo delle loro opere è connaturato al linguaggio proprio della poesia visiva degli anni Sessanta, che permette ad alcune neoavanguardiste di trasporre sul piano estetico la questione femminile.96

All’educazione acquisita in famiglia si sommano poi le direttive dei percorsi pedagogici istituzionali, come pure i riferimenti simbolici dell’immaginario collettivo adulto. Come evidenzia Piccone Stella, i modelli femminili imposti negli anni Cinquanta sono numericamente circoscritti, preordinati alle logiche della famiglia patriarcale e si stagliano su un orizzonte simbolico piuttosto limitato.97 D’altra parte, a

93

L. Marcucci, Memorie e incanti: extraitinerario autobiografico, Campanotto, Pasian di Prato 2005, p. 35.

94

T. Binga, conversazione privata in data 10/10/2013.

95

Cfr. E. del Becaro, Cenni biografici, in Ead., Intermedialità al femminile: l'opera di Ketty La Rocca, cit., pp. 209-210.

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Questo argomento sarà trattato nel paragrafo 1.1 La costruzione dell’immagine femminile nei media della seconda parte della tesi.

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Afferma Piccone Stella che accanto alla figura della semplice lavoratrice si allineano quelle -di ben altro calibro- della donna tradizionale e dell’emancipata. La prima, madre, angelo del focolare, dedita alla cura della casa e dei figli, summa di diktat cattolici e morali. La seconda, presentata come figura tipico- ideale fuori scala ma, al contempo, di semplice imitazione; perché modellata sulla necessità di ricomprendere anche l’immagine della donna tradizionale; v: S. Piccone Stella, Modelli di donne, in Ead.,

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lenire – o meglio a modificare – l’effetto del determinismo di genere nella costruzione dell’identità sociale femminile intervengono i cambiamenti introdotti nei percorsi di formazione istituzionale. Le forme di socialità tra i due sessi si trasformano, infatti, sotto gli impulsi dei profondi mutamenti che investono il sistema scolastico come l’avvento delle classi miste e il crescente ingresso delle donne nell’istruzione superiore. Questa sinergia impone a ragazzi e ragazze di confrontarsi su un terreno comune e in modo diretto, ossia facendo a meno della mediazione familiare; fattore che costringe soprattutto quest’ultime ad adottare nuove forme di autocontrollo e dialogo. Di contro, l’impossibilità di ricorrere a un codice comportamentale basato su rigidi dettami, non solo complica il dibattito con l’altro sesso, ma inibisce anche quello col proprio. Precisa Piccone Stella «le donne, soprattutto le giovani, vivono ignare l’una dell’altra, prive d’indicazioni politiche unificanti, frenate dalla solida presa di un sistema morale apparentemente in perfetta salute».98

La mancanza di una salda trama d’interrelazione femminile si evince piuttosto facilmente dalle testimonianze delle artiste. Tra coloro che perseguono un percorso solitario predomina la sensazione di essere sole in un mondo affollato di presenze maschili. Certamente in parte hanno ragione, vista la pesante sproporzione numerica tra artisti e artiste negli anni Sessanta e considerato che l’inserimento delle donne in quasi tutte le correnti di neoavanguardia ne comporta la distribuzione in contesti diversi, talvolta geograficamente distanti e spesso non comunicanti. Ad ogni modo, la situazione cambia per le artiste coinvolte in gruppi di neoavanguardia, dove è più facile entrare in contatto con altre artiste e costruire anche legami di amicizia e stima reciproca. Ad esempio, Marina Apollonio, artista legata al Gruppo N di Padova, afferma:

Nanda Vigo l’ho incontrata solo un paio di volte e ricordo che aveva un carattere molto particolare. Invece ho stretto una profonda amicizia con Dadamaino, nonostante la differenza anagrafica. Aveva in grande considerazione il mio lavoro. Poi, frequentando il Gruppo T, mi sono confrontata spesso con Grazia Varisco99

Crescere negli anni Cinquanta, cit., pp. 127-133. 98

Ivi, p. 121.

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Invece, Cloti Ricciardi che gravita attorno alla Scuola di Piazza del Popolo, spiega:

Conosco Giosetta Fioroni da una vita, ma ci siamo sempre frequentate con un certo distacco. Apparteniamo a due pianeti differenti anche a livello caratteriale. […] Ad ogni modo, le artiste erano troppo poche per provare invidia l’una dell’altra. Quando ci si riuniva al bar Rosati, c’era la contentezza di trovare qualche compagna… l’alleanza veniva spontanea: ti dava più energia, più forza, più tranquillità.100

Una volta inseritesi in un campo dell’arte ad ogni modo chiuso e misogino, si trovano a fronteggiare un duplice problema: la definizione di sé come artista donna, modello ancora privo del riconoscimento sociale, e l’identificazione da parte degli artisti uomini di un interlocutore di sesso femminile. Questione questa che solleva una riflessione pubblica già negli anni Sessanta, attraverso il rapporto dialettico tra Carla Lonzi e Carla Accardi. Nelle ultime pagine di Autoritratto, Accardi allude all’esistenza del conflitto di genere:

voglio che ci sia questo problema donna-uomo, e basta. Un giorno uno mi dice “non c’è tanto”. No, no, no.. io la mattina dopo mi rialzo e il problema c’è. C’è anche se non è fatto per forza di… io non c’è l’ho fatto di astiosità, per niente, perché l’ho sviluppato come esami, come riflessione..(..) Tu [Lonzi] dicevi giustamente “però io sono un tipo che amo molto assicurarmi una felicità”. Allora, ho pensato “questo è giusto”: perché una donna se deve cambiare metodologia deve sempre aver presente il fatto che sta lottando, però, per poter godere di una parte di felicità.101

In realtà, capita spesso che le artiste considerate raggiungano consapevolezza solo qualche anno dopo il proprio esordio, a seguito di forme di discriminazione o prevaricazione subite in quanto donne. Nanda Vigo afferma:

Quand’ero giovanissima non mi rendevo neanche conto dell’esistenza del problema uomo- donna. Forse molta della mia sicurezza, della mia forza la devo a quella lontana forma d’incoscienza.102

100

C. Ricciardi, intervista rilasciata all’autrice in data 6/7/2014 (v. apparati).

101

C. Accardi, in C. Lonzi, Autoritratto, cit., p. 300.

102

52 Anche Simona Weller dichiara:

ho capito di essere considerata più donna che artista, diversi anni dopo essere entrata in quel mondo maschile, competitivo, volgare, del sistema dell’arte103

Ancora Lucia Marcucci confessa come proprio la contrapposizione uomo-donna sia stata la fonte ispiratrice della sua poetica:

Già all’inizio degli anni Sessanta tutti questi problemi agivano in me e nella mia opera: L’ansia e il malessere per trovare un rapporto con il contesto, vorticoso Kaos in cui era il mio corpo femminile e la mia mente maschile, il bisogno della concretizzazione fra le tradizioni di memoria e la tecnologia e altro ancora…la poesia visiva opera “impura”, opera ambigua, poesia e pittura, ma non queste né quella, opera intermedia, inter-mass-media, poesia uscita dal libro, pittura entrata nel libro, poesia da gridare negli stati, pittura da guardare sui musi delle strade: fu la mia opera, la mia mania invasante, la mia riemersione.104

L’incoscienza che anima sulle prime queste artiste, consentendo lo slittamento temporaneo della problematizzazione dell’identità di genere su un piano secondario, è probabilmente dovuta alle esperienze vissute durante il periodo scolastico. Molte delle artiste di neoavanguardia condividono gli anni della formazione accademica con i futuri colleghi, maturando sin da subito la volontà di confronto paritario e di condivisione. Ad esempio, Fioroni, Kounellis, Bignardi e Lombardo, sono reduci dall’Accademia di Belle Arti di Roma, in cui l’innovativa didattica di Scialoja li incoraggia verso uno sviluppo artistico istintuale, psichico e libero da qualsiasi logica di sistema.105

Grazia Varisco pone l’accento sull’importanza che il background comune ha avuto nella formazione del Gruppo T, dove era presente come compagna di liceo di Boriani; solo dopo la maturità stringe amicizia con Colombo e infine Devecchi, che pur non avendo frequentato l’Accademia è parte integrante dal gruppo.106

Significativo poi è il caso del Gruppo 63, formato a Roma da Lucia Di Luciano e

103

S. Weller, intervista rilasciata all’autrice in data 1/2/2013 (v. apparati).

104

L. Marcucci, Il guerriero androgino. La donna, l’opera, la poesia visiva, in D. Corona (a c. di) Donne

e scrittura, Atti del seminario internazionale, Palermo 9 - 11 giugno 1988, La luna, Palermo 1990, p. 398. 105

Cfr. G. Celant, Giosetta Fiorini, cit.

106

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Giovanni Pizzo, Lia Drei e Francesco Guerrieri, due coppie di coniugi rispettivamente colleghi all’Accademia di Belle Arti e a quella del Nudo di Roma.

Queste nuove forme di aggregazione fungono da volano al consolidamento di una cultura giovanile che si distacca da quella dei padri, ponendovisi in antagonismo. La condivisione di un retroterra comune e simili esperienze di solidarietà sono, dunque, alla base della struttura duttile, orizzontale e versatile dei gruppi della neoavanguardia.107

Al contempo, il cameratismo che ne deriva innesca un rapporto dialogico nuovo tra i sessi, predisponendo il cambiamento dell’identità femminile secondo una logica generazionale, oltre che di emancipazione. Prive di un esplicito codice di auto- rappresentazione e accomunate dal desiderio di miglioramento personale e di benessere, nonché da una certa indifferenza per gli stereotipi femminili imposti,108 le artiste di neoavanguardia tendono a modificare se stesse spinte dal desiderio di assorbire modi di pensare e di agire suggeriti dai fermenti critici che attraversano la cultura circostante. Di contro, il percorso di formazione che coinvolge queste artiste non perde la sua carica d’ambiguità, perché mentre consente e incoraggia il confronto paritario con l’altro sesso, lo predispone in un’asimmetria di genere socialmente istituita. Vale a dire che questo cammino educativo riscrive solo in parte, la rigida divisione dei percorsi di vita maschili e femminili, al punto da velare d'ambivalenza le attitudini e i comportamenti adottati di volta in volta dalle donne.