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La cute nella zona dell’accesso chirurgico viene tricotomizzata Una volta in sala operatoria, viene preparato il campo sterile: il paziente si trova in posizione

2.6 Vie d’accesso all’articolazione dell’anca

3.2.2 Complicanze locali precoc

• Lesioni nervose

Le seppur rare lesioni neurologiche di questo tipo di chirurgia sono quelle a carico del nervo sciatico, del nervo femorale e del nervo femoro cutaneo laterale.

Chiaramente ogni via di acceso può causare danni neurologici, l’incidenza varia a seconda delle casistiche e dei fattori di rischio individuali dal 0,6-3,7% nei primi impianti “semplici” fino al 5,2% nei casi di malformazioni o displasia congenita)30. Rarissimamente la lesione è una lesione da taglio, più frequentemente si tratta di compressioni o stiramenti.

Le lesioni da stiramento sono più frequenti quando è necessario un allungamento dell’arto maggiore di 2.5cm (come per esempio nei casi di deformazione congenita dell’anca o ancora nei casi di revisione). Le lesioni da compressione si possono verificare o per la formazione di un ematoma post operatorio o per un errato posizionamento dei divaricatori. A seconda della via utilizzata sarà più a rischio una struttura nervosa rispetto ad un'altra. In particolare, nella via postero laterale (Fig. 3.1), sarà il nervo sciatico ad essere più soggetto a danni mentre nella via anteriore lo saranno il nervo femoro cutaneo ed il nervo femorale (Fig. 3.2).

Il quadro clinico cambierà in base al nervo interessato; se la lesione è a carico del nervo sciatico, poiché è destinato all’innervazione dei muscoli estensori del piede e della caviglia generalmente, si avrà la “caduta del piede”, con perdita della sensibilità nella regione posteriore ed anterolaterale della gamba e del piede (ad eccezione della sua porzione dorsomediale). Più raramente una lesione a carico del nervo sciatico può causare anche danno ai muscoli della loggia posteriore della coscia e parte del grande adduttore.

58 Se invece risulta danneggiato il nervo femorale, ci sarà incapacità di estensione della gamba durante la marcia per deficit quadricipitale.

Trattandosi per lo più di lesioni da stiramento o da compressione e quindi di neuroaprassie, queste lesioni spesso guariscono spontaneamente. In tutti i casi è comunque utile un trattamento a base di elettrostimolazione e neurotrofici, tutori per correggere l’equinismo del piede (nel caso di deficit degli estensori), e kinesi passiva. Durante l’accesso anteriore, vi è inoltre il rischio di lesione il nervo femoro-cutaneo laterale, nervo sensitivo, che può determinare l’insorgenza di fastidiosi disturbi della sensibilità della coscia.

• Lesioni vascolari

Le complicanze vascolari associate all’intervento di artroprotesi d’anca sono rare, ma possono avere conseguenze potenzialmente letali. Il rischio complessivo è stimato attorno allo 0,3% 31. Le lesioni possono essere meccaniche, fatte dai retrattori o dallo strumentario usato per la preparazione acetabolare, lesioni termiche da metilmetacrilato, o dalla penetrazione diretta del polimero 78.

La lesione vascolare si può presentare come un evento intra-operatorio, con un’emorragia acuta, o con un’emorragia tardiva post-operatoria e l’evento risulta più comune nel caso di revisione protesica o di anca precedentemente operata. La mortalità si associa con una frequenza del 7%; nel 15% dei casi si rende necessaria l’amputazione 32.

Sartorius m.

Fig.3.2: Decorso dei nervi femorale e femoro cutaneo laterale nella regione anteriore della coscia con evidenza della

loro prossimità al muscolo sartorio Fig. 3.1: Decorso del nervo ischiatico nella

regione dell’anca con evidenza della sua prossimità ai muscoli extrarotatori

59 Le strutture vascolari esposte a maggior rischio sono l’arteria e la vena femorali, i vasi iliaci esterni e comuni, l’arteria otturatoria, l’arteria e la vena glutea superiori, l’arteria circonflessa femorale mediale e laterale 32,33.

I vasi iliaci comuni ed otturatori sono a rischio di lesione soprattutto in caso di protrusioni acetabolari, soprattutto se sono necessarie delle viti per stabilizzare la componente protesica; in alcuni casi è utile effettuare una angiografia preoperatoria. E’ comunque consigliabile il posizionamento delle viti nel quadrante acetabolare postero-superiore 34.

• Dismetria residua

Nella protesica d’anca standard, le due componenti articolari, coppa e testa femorale, sono libere di muoversi fra di loro. Ciò significa che l’insieme puo’ dislocarsi in casi di movimenti estremi o in caso di errato posizionamento delle componenti. La stabilità dell’articolazione protesica è legata comunque non solo alla geometria delle componenti ma anche, in parte dalla tensione dei tessuti molli e dai legamenti attorno all’anca. In alcuni casi, per ottenere una sufficiente stabilità dell’articolazione è quindi necessario aumentare la tensione dei tessuti molli e, questo può essere fatto allungando l’arto. Esistono poi delle situazioni nelle quali, per errore tecnico e di programmazione, l’impianto causa un allungamento o un accorciamento dell’arto, pur avendo una corretta stabilità.

In letteratura, vengono riportate differenze di lunghezze degli arti in seguito ad intervento di sostituzione protesica che variano dai 0,4 ai 3,9 35; risulta comunque accettabile una dismetria residua fino a 1 cm 36.

Se tale differenza viene percepita dal soggetto, può essere necessaria una scarpa con rialzo plantare o una revisione dell’impianto.

Esistono infine alcuni pazienti che hanno la percezione di essere dismetrici senza che questa sensazione trovi conferma nei fatti. Questo fenomeno, chiamato ”differenza funzionale della lunghezza della gamba”, è dovuto alla tensione esistente nella massa muscolare attorno alla “nuova anca”. Tale sensazione generalmente migliora o scompare dopo un periodo compreso tra le 6 settimane ed un massimo di 3 mesi. Il problema della dismetria e la sua valutazione verrà approfondito in seguito.

60 • Lussazione

Uno studio su più di 2500 pazienti ha stimato che la lussazione post intervento di protesi unilaterale d’anca, sia del 2,4% in un follow up a 90 giorni, e riguarda maggiormente soggetti over 75 anni, sotto trattamento polifarmacologico e con disturbi psichiatrici 37. L'instabilità può verificarsi precocemente o tardivamente dopo l'intervento ed essere una conseguenza di un trauma o di un mal posizionamento; altre cause possono essere prese in considerazione, come l’accorciamento e la rotazione postoperatoria dell’arto, preesistenti disordini neuromuscolari che causino debolezza e deficit propriocettivi che possono aumentare il rischio di cadute, ed anche precedenti interventi chirurgici all’anca (Fig.3.3). Tra i fattori predisponenti si ricordano: le condizioni dell'osso e dei tessuti molli, il modello di protesi, l'approccio chirurgico usato o il follow-up postoperatorio. Per quanto riguarda l’approccio chirurgico, la lussazione è una complicanza sicuramente più frequente nelle protesi posizionate mediante accesso postero laterale che in quello anteriore. Uno studio su quasi 400 pazienti trattati non per artroprotesi ma per emiartroprotesi su fattura, con diversi tipi di accesso, distinguibili comunque come anteriori e posteriori alla capsula, ha evidenziato, ad un follow up di 6 mesi, un tasso di lussazioni del 2,3%; la totalità delle lussazioni ha riguardato i pazienti operati con accesso posteriore 38.

L’evento lussazione nella via posteriore è da attribuire al sacrificio muscolare che questa via richiede, compromettendo almeno dal punto di vista teorico la stabilità articolare. Altro fattore di rischio che espone maggiormente questa via alle lussazioni rispetto alla via anteriore è la natura dei movimenti lussanti; movimenti comuni come sedersi su una sedia bassa o il movimento di perno sull’arto inferiore nell’atto di girarsi nel letto (flessione >90° ed intrarotazione) possono essere lussanti in caso dell’accesso posteriore; tali movimenti sono sicuramente più comuni rispetto all’extrarotazione che causerebbe lussazione negli accessi anteriori.

I pazienti, durante la degenza vengono accuratamente informati sui rischi di lussazione e adeguatamente istruiti sui movimenti consentiti; viene infatti loro consigliato di usare uno spessore (come ad esempio un cuscino) da tenere tra le cosce qualora vogliano girarsi su un fianco, e di utilizzare sedute più alte e un eventuale rialzo per il wc e per il sedile dell’auto nel caso abbiano subito un accesso posterolaterale; di evitare l’extrarotazione nel caso abbiano subito un accesso anteriore.

61 La lussazione può avvenire o posteriormente o anteriormente, verificarsi una sola volta o recidivare. Nella prima e talvolta anche dopo il secondo episodio di lussazione senza una causa evidente che si verifichi dopo l'intervento, è consigliabile una gestione conservativa. In caso di lussazione recidivanti, si deve ricorrere alla revisione dell’impianto.

• Frattura periprotesica

Le fratture femorali intraoperatorie sono più frequenti nel corso delle revisioni e sono generalmente dovute all’eccessivo “fit” di uno stelo protesico o dall’inserzione di una componente femorale dritta in un femore curvo. Altra causa di frattura periprotesica può essere l’eccessiva forza eseguita con un divaricatore tale da superare la resistenza dell’osso stesso. Per questa tipologia di fratture, il trattamento può variare dalla semplice proscrizione dal carico per il primo periodo post operatorio, alla sostituzione dell’impianto, ai cerchiaggi metallici o alla sintesi di con placche e viti.

Esistono poi delle fratture periportesiche che si verificano a distanza dall’intervento chirurgico. Queste, secondo la National Joint Registry of England and Wales (NJR) in 2012 rappresentano la causa del 9% circa delle revisioni di protesi d’anca, cioè la quinta causa più comune di revisione dopo la mobilizzazione asettica, l’osteolisi, il dolore e la lussazione 39.

L’incidenza di questa complicanza sta aumentando soprattutto a causa dell’allargamento delle indicazioni alla protesi: attualmente infatti, grazie ai nuovi

Fig.3.3: Reperto Rx di lussazione

62 materiali e al miglioramento della tecnica operatoria, l’impianto protesico viene eseguito anche in pazienti molto anziani, obesi, con scadente qualità ossea o anche in pazienti molto giovani che dopo l’intervento mantengono le loro abitudini comportamentali e che quindi possono andare incontro a traumi efficienti da provocare frattura per protesica. Fattori di rischio per questa temibile complicanza possono infatti essere suddivisi in generali (come l’osteoporosi o le patologie neurologiche), locali (come i difetti corticali iatrogeni, a loro volta suddivisibili in accidentali, come le microfratture, o volontari, come nei casi di revisione qualora sia necessaria la rimozione del cemento), o ambientali (come scale, tappeti, o animali domestici che possono essere responsabili di cadute accidentali). Ne esistono varie classificazioni, ma la più completa risulta essere quella di Vancouver elaborata da Duncan e Masri, che considera:

Tipo A: quelle fratture che interessano la regione trocanterica, e sono generalmente fratture stabili;

Tipo B: quelle fratture che avvengono intorno allo stelo o subito sotto a questo, B1 quando lo stelo è stabile ed il bone-stock adeguato,

B2 quando lo stelo è instabile ed il bone stock adeguato e B3 quando lo stelo è instabile e il bone stock inadeguato; Tipo C: quelle fratture che avvengono distalmente allo stelo.

Per le fratture periprotesiche che si verificano a distanza dall’intervento, il miglior trattamento è sicuramente rappresentato dalla prevenzione e dalla diagnosi precoce di eventuali microfratture medianti esami radiografici eseguiti a brevi intervalli nel primo anno. In caso però di frattura il trattamento prevede la riduzione e la stabilizzazione lesione, mediante viti, cerchiaggi, placche o stecche d’osso da cadavere se lo stelo non risulti mobilizzato; in caso contrario (Tipo B2), si renderà necessario sostituire lo stelo, usando protesi a stelo lungo non cementate in grado di oltrepassare la frattura almeno del doppio del diametro corticale così da ottenere una stabilità paragonabile a quella che si ottiene con un chiodo endomidollare; in caso di mobilizzazione dello stelo (frattura tipo B3) sarà necessario associare alla riprotesizzazione un innesto osseo; in caso invece di fratture della diafisi (Tipo C) il trattamento prevede un’osteosintesi come una comune frattura femorale preferendo una riduzione a cielo aperto per assicurare il raggiungimento di un perfetto asse anatomico40.

63 • Infezione periprotesica

L’infezione postoperatoria dell’articolazione protesica è una rara ma devastante complicazione della chirurgia di sostituzione articolare: la sua incidenza si attesta tra l’1 e il 3%, e tra i microrganismi più frequentemente isolati ci sono cocchi Gram+ (come S. Aureus, Stafilococchi coagulasi – e Streptococco spp., ma anche i bacilli Gram- possono essere isolati nel 10% dei casi, e queste infezioni sono spesso polimicrobiche 41.

E’ stato dimostrato che il rischio di infezioni profonde aumenta per preesistenti condizioni patologiche del paziente, come l’artrite reumatoide(1,2%), l’artropatia psoriasica (5,5%), il diabete mellito (5,6%), e il cateterismo uretrale post-operatorio nei pazienti maschi (6,2%) 42. Recenti studi indicano che la Prosthesic Joint Infection (PJI) è il primo motivo di fallimento per le protesi di ginocchio e il terzo per le protesi d'anca negli Stati Uniti. Anche in Europa, con lievi differenze tra i paesi, PJI è tra i primi tre motivi che portano ad un intervento di revisione 43,44.

Poiché i principali agenti eziologici si riscontrano comunemente sulla cute o sulle mucose, è necessario instaurare un’efficace profilassi antibiotica in grado di garantire un’elevata concentrazione tissutale di antibiotico al momento dell’incisione cutanea, che rappresenta il momento più critico della contaminazione; generalmente si sceglie una cefalosporina di prima generazione e una copertura antistafilocicca; in particolare, presso la Clinica Ortopedica Universitaria 1 Pisana, la profilassi prevede la somministrazione di 2g di Cefameziana e 1g di Vancomicina 30 e 60 minuti prima dell’intervento, 600mg di Clindamicina più la Vancomicina se i pazienti sono allergici alle penicilline. Inoltre è necessario garantire un’ adeguata asepsi nel corso dell’intervento e nelle fasi postoperatorie fintanto che non si è ottenuta la cicatrizzazione completa della ferita.

Clinicamente, una PJI può essere associata ai tipici segni e sintomi infiammatori: arrossamento locale, calore, gonfiore, dolore e rigidità alle articolazioni. In alcuni casi possono comparire drenaggio persistente della ferita o fistole secernenti; questi segni clinici possono però essere assenti e l'unico sintomo può essere il dolore locale ed, eventualmente, la rigidità dell'articolazione colpita. Per questo motivo, un PJI deve sempre essere sospettata in presenza di una protesi articolare dolorante senza altre spiegazioni convincenti al dolore.

Gli accertamenti necessari per escludere un’infezione periprotesica, comprendono l'esame clinico, gli esami di laboratorio (indici di flogosi e conta con formula dei

64 globuli bianchi), l'aspirazione dell'articolazione e tecniche di imaging (immagini ecografiche di raccolta, segni radiografici di mobilizzazione, eventualmente anche scintigrafia con leucociti marcati). Un certo numero di fallimenti protesici, considerati precedentemente come casi non infetti, sono ora riconosciuti come fallimenti settici e questo grazie ad una migliore capacità di effettuare indagini microbiologiche e diagnostiche.

Ogni infezione superficiale deve essere completamente drenata e accuratamente detersa il più presto possibile; nel caso si voglia cercare di mantenere le componenti, possono essere usati sistemi di drenaggio. Le infezioni che si manifestino oltre i sei mesi dall’intervento, richiedono di frequente la rimozione dei componenti e, se presente, del cemento e si può seguire, immediatamente o in un secondo tempo (dopo 8-12 settimane), un reimpianto. Per non causare periodi troppo lunghi di inattività nel caso dell’intervento in due tempi, è consigliato l’utilizzo di spaziatori preformati antibiotati. La revisione in due tempi con spaziatori preformati e protesi non cementate ha riportato tassi di eradicazione del 94% a 10 anni di follow-up.