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Tra gli aspetti più importanti che determinano la qualità di vita urbana si annoverano la dimensione e l’organizzazione della città. Il concetto di dimensione ottimale della città nasce in seguito ad alcuni ragionamenti e dati di fatto come l’oppressione e il disordine delle metropoli, la diffusione disordinata delle funzioni e attività urbane e le

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problematiche collegate allo sviluppo ed alla decadenza delle città stesse. La dimensione ottimale di una città avrebbe effetti positivi sui rapporti sociali, sul controllo politico, sulla vitalità dell’ambiente, sui tassi di inquinamento, sui tempi di spostamento, sull’economicità della produzione e sui costi di gestione ordinaria a prescindere dalle dimensioni dei centri urbani.

1.3.1 Spread e Sprawl

Man mano che l’agglomerazione urbana si trasforma in Metropoli svanisce la definizione netta tra città e campagna e attorno ai nuclei urbani si forma un’area dai confini sfumati, un “non luogo urbano” direbbe Martinotti (Martinotti, 1993, p. 14). Non è definibile rurale un luogo verde dove vivono persone la cui occupazione principale non è l’agricoltura, il territorio rurale circostante le città ha subito un’invasione da parte di una popolazione non agricola che lavora per lo più in città e dipende da mezzi di sussistenza urbani e suburbani. Si va determinando un processo di suburbanizzazione al di fuori delle aree urbanizzate a scapito dell’antica distinzione tra urbano e rurale. Ma il rapporto tra centri urbani e aree rurali non è sempre stato critico. A partire dalla rivoluzione industriale le campagne si spopolarono e le persone cercarono fortuna nelle città che inevitabilmente crebbero e le attività industriali e commerciali si diffusero nella campagna circostante (spread inteso come allargamento positivo). Successivamente il settore terziario vide un veloce sviluppo nei centri che diventarono sempre più popolati e difficilmente vivibili, tanto da spingere anche le residenze di chi lavorava in città, fuori dal centro. Dunque i vecchi schemi di divisione tra urbano e rurale, caratterizzati essenzialmente dalle attività lavorative, quasi scomparirono.

Ecco che sorgono nuove comunità “non rurali” in campagna, composte dalla maggior parte delle persone che pur avendo un impiego nel terziario scelgono di godere dei benefici di una residenza in campagna, innescando tutta una serie di necessità di collegamenti efficienti tra il polo centrale e le campagne circostanti, con un duplice effetto: su traffico e spostamenti di massa della popolazione da casa al lavoro e sulla tutela delle campagne circostanti i poli urbani. I limiti tra urbano e rurale non sono più così percepibili. Diventa dunque opportuno liberare il termine rurale dal significato implicito di agricolo soprattutto nel momento in cui in un’area non urbana almeno la metà della popolazione vive di attività non agricole, che possono essere di tipo industriale, commerciale o altre di tipo urbano.

Il fenomeno della metropolitanizzazione o meglio megalopolitanizzazione deriva dalla concentrazione di popolazione che provocano una ampia rete di correnti umane. E’ indubbio che il processo di metropolitanizzazione proseguirà nelle parti di Megalopoli considerate ancora rurali. Mentre la popolazione rurale anche non agricola sta crescendo le statistiche segnalano un calo di densità nelle città, soprattutto dove la congestione urbana era maggiormente sentita. Si va così delineando la diffusione della popolazione nelle campagne circostanti, alla ricerca di una maggiore qualità urbana.

In un certo senso l’espansione suburbana ha alleviato l’affollamento che stava diventando intollerabile per la densità di popolazione a miglio quadrato, ma sono anche sorti nuovi problemi a causa dell’attività, del traffico delle città centrali e del fatto che aree rurali si sono trovate impreparate ad affrontare le nuove domande del mercato che si sono presentate. Si sentì quindi la necessità di nuovi programmi per conservare la bellezza naturale del paesaggio, assicurare la salute, la prosperità e la libertà della popolazione. Nonostante i primi problemi sorti le statistiche su Megalopoli, descritte da Gottman, dimostrarono che la popolazione è sana e c’è maggior possibilità di osmosi sociale e di

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perfezionamento professionale. Fenomeno che si sta confermando in altre parti del mondo oggi, come per le città asiatiche che in pochi decenni

Le città vivono ormai da cinquant’anni il cosiddetto fenomeno dello sprawl che è appunto l’inarrestabile tendenza ad espandersi nel territorio circostante con periferie e zone suburbane togliendo suolo all’agricoltura.

La parola sprawl, coniata in USA negli anni Sessanta, significa sdraiata, che concettualmente è traducibile in “città diffusa”. Ingersoll delinea la differenza tra centro urbano e sprawl definendo il centro statico e quindi facile da comprendere come il punto di fuga di una prospettiva, mentre lo sprawl è mosso, volubile ed incomprensibile. Se i tessuti urbani di un tempo erano descritti in una maglia di strade e l’identità dei luoghi era stabilita da una gerarchia architettonica di monumenti e spazi urbani, una buona parte dei tessuti di oggi sono conurbazioni periferiche composte da strade di scorrimento, svincoli elevati, cartelloni pubblicitari e grandi edifici circondati da parcheggi. Nello sprawl mancano una visione d’insieme, la sintassi del tessuto territoriale e regole urbanistiche ed architettoniche su cui si basa un centro urbano efficiente.

La città diffusa è un fatto geografico urbano che ha fisicamente cambiato il paesaggio e le modalità di vita delle società, la vita civile della piazza è stata abbandonata perché si lavora e si vive altrove, la strada in centro ha perso la sua funzione commerciale e di intrattenimento sociale a causa della concorrenza dei centri commerciali suburbani e dell’aumento del traffico.

Ingersoll trova alcune ragioni della crescente dispersione urbana nei terreni meno costosi, nel fatto che le tasse siano più basse, nel facilitato uso dell’automobile rispetto ai centri cittadini per il fatto che in periferia sono meno frequenti i vincoli urbanistici e infine, non meno importante, nel desiderio di vivere immersi nel verde.

Sebbene i confini siano spesso considerati in senso negativo, a volte un ostacolo da demolire altre un limite da non superare, accade poi che la mancanza del senso di confine disorienti il cittadino.

Come si può fermare lo sprawl? Con la Krierstadt krier o con la generic city di Koohlaas, cioè: meglio il ritorno alla piccola città preindustriale di convinzione etnocentrica che prevede una grande determinazione e coesione decisionale politica o il pensiero di Koolhaas il quale riconosce il cos urbano e il consumismo che padroneggia? (Ingersoll, 2004, p. 17). C’è una scelta possibile che presti attenzione alla qualità urbana cioè alla qualità ambientale e alla qualità di vita dei cittadini? Meglio avere un quartiere residenziale e spostarsi in massa o meglio avere piccoli quartieri autosufficienti con una buona densità abitativa e dunque spostarsi poco? Nel primo caso verrebbero a crearsi quartieri dormitorio e ci sarebbe un enorme spostamento di massa che creerebbe ingorghi e inquinamento, nel secondo caso si genererebbero quartieri multifunzionali per lo più autonomi e gli spostamenti sarebbero ridotti. Una via di mezzo in cui il territorio sarebbe in parte caratterizzato dallo spread vede le residenze distribuite per lo più sul territorio con spazi privati e i servizi concentrati in altezza di modo che gli spostamenti siano mirati a pochi luoghi centrali. Le attività industriali e agricole hanno necessità di spazi ampi e generalmente non vicini a centro e residenze.

Negli anni 50 lo shopping mall entra nel repertorio dei progetti di architettura. Nasce negli USA dal progetto del modernista austriaco Victor Gruen, ancora oggi preso a modello erano concepiti come enormi volumi di massimo tre livelli, isolati dall’esterno con un ampio parcheggio tutto attorno e le gallerie sotterranee per lo smistamento delle merci. In America all’epoca lo sprawl è già pratica consueta e consolidata grazie alla numerosa presenza di popolazione in periferia, munita di automobile, ma le conseguenze dei centri commerciali non erano state previste così globali e persistenti. Già dieci anni dopo le

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attività commerciali dei centri storici erano in difficoltà e la partecipazione civica era in declino a favore degli affollamenti dei centri commerciali in periferia. (Ingersoll, 2004, p.45). Tanto che essere liberi di consumare sembra la sola libertà possibile e interessante. Ma non è così. La libertà della polis era concepibile sotto forma di dialogo e nello sprawl l’uomo si è auto-privato di questo diritto, non esistono i punti fissi e tutto può essere centrale e ciò disorienta e inibisce la socialità. Riscoprire il senso di responsabilità verso gli altri, prendersi cura dell’ambiente, partecipare al dialogo per definire e risolvere i problemi collettivi sono altri modi di sentirsi liberi. Anche se, al di là del fenomeno degli

shopping malls, l’idea positivista di organizzazione delle fabbriche ottocentesche portò

alla forma urbana usata da Hausmann e Cerdà (le proporzioni inquietanti-enormi di vialoni parigini e quartieri catalani nasce dalle nuove regole sull’igiene), l’entusiasmo per i trasporti su rotaie portò alla fusione tra infrastruttura ed edificato, concetti che saranno tra le basi delle future metropoli e l’insistenza sul ruolo delle strade veloci nei modelli modernisti prepara l’idea di una città estesa (Ville Radieuse Le Corbusier, Grossstadt di Hilberseimer, Brasilia Costa e Neimeyer).

1.3.2 Decentramento e controurbanizzazione

La definizione di controurbanizzazione è stata coniata dallo studioso Brian L.J. Berry che rovescia la precedente definizione di Tisdale e chiama counter-urbanization la tendenza degli anni Settanta del secolo scorso al decentramento delle città. Definisce controurbanizzazione “il processo di deconcentrazione della popolazione che implica un passaggio da uno stato di maggiore concentrazione e uno di minore concentrazione” (Martinotti, 1993, p. 31) e questo fenomeno sta dando nuova forma al territorio insediato. Berry spiega la tendenza alla controurbanizzazione con la ricerca di libertà di movimento, l’individualismo, la ricerca di aree sicure ed il rifiuto all’integrazione forzata e concentrata nei centri urbani più densi. Ciò non esime dal ritenere in parte responsabile del fenomeno le scelte di enti pubblici e privati nella localizzazione delle attività e dei servizi, come anche la disponibilità dell’automobile privata e la conseguente crescita delle reti di collegamento sparse nel territorio. Muscarà analizza i dati su cui si fonda la tesi della controurbanizzazione, secondo la quale è avvenuto un arresto della crescita urbana o addirittura un’inversione di tendenza demografica nelle città. Si assiste ad una diminuzione generale di crescita in quelle che erano definite aree metropolitane, ma una crescita costante nelle aree definite non-metropolitane che quindi si stavano urbanizzando e dilatandosi verso le aree metropolitane. Questi fenomeni, mal gestiti nel tempo, hanno contribuito alla definizione della cosiddetta città diffusa o sprawl.

Su questo Gottman esprime i suoi dubbi, egli ritiene che il decentramento non sia necessariamente dovuto a ideologie negative sulla città moderna che implicano una volontà di evasione dalle centralità urbane, bensì analizza le varie definizioni di centralità, convinto che il decentramento non implichi la mancanza di necessità di luoghi centrali. Un luogo assume valore di centralità a seconda delle categorie di fenomeni a cui si fa riferimento. Esiste la centralità fisica, storica, economica, funzionale, demografica, politica e così via. In ogni caso per centralità si intende un luogo di incontro, di scambio, di convergenza, di contiguità e di irraggiamento, in cui non necessariamente avvenga la manipolazione di oggetti in movimento da e verso tale centralità. Ovvero esiste anche la centralità di relazioni che può essere una serie di passaggi non solo in un determinato spazio geografico di cose, prodotti e persone ma anche di informazioni, idee e progetti. Gottman distingue tre tipi di centralità per convergenza per contiguità e per irraggiamento in cui prevalgono rispettivamente per la convergenza il momento della confluenza al

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luogo fisico, per la contiguità i legami che uniscono le attività e le funzioni insediate nel contesto circostante e per l’irraggiamento che per definizione è il luogo dal quale si distribuiscono gli oggetti o i fenomeni stessi che si espandono altrove attraverso reti di vario tipo.

Dalla teoria dei luoghi centrali si può dedurre che anche la città stessa sia una centralità all’interno di una rete di nodi. Il concetto di decentramento e centralità sono influenzati storicamente da vari fenomeni quali: le rivoluzioni americana e francese, le idee politiche dell’Umanesimo in cui fonda le radici la democrazia politica che si contrappone alle centralità volute dalle divinità proprie delle epoche precedenti, fino alle ideologie marxiste e leniniste che si sono servite dei concetti di periferia e centralità per verificare le proprie dottrine sociali sull’ingiustizia economica causata dal capitalismo. Ma il fenomeno del decentramento o anche detto della controurbanizzazione non implica la mancanza di necessità di centralità, è piuttosto una conseguenza di disagi nel conciliare una crescente domanda di convergenza in alcuni punti del tessuto urbano con un insoddisfacente offerta di accessibilità. Si ritiene che il decentramento sia una politica risolutiva della congestione del traffico, dovuta come detto dal desiderio di convergenza e da altri caratteri della vita di città che Gottman definisce propri del gigantismo della dimensione urbana delle metropoli odierne. Il problema, come osserva lo studioso americano, è che quanto più si passa da semplici modelli di forma urbana ad un solo centro a quelli reticolari della città attuale, tanto più si ha l’impressione di appartenere ad un sistema che si definisce mobile, ma che appare irrigidirsi entro meccanismi di interconnessioni tra centralità tra esse decentrate (Gottman J. Muscarà C, 1991, pp. 48 - 60).

Nel corso del XX secolo l’urbanizzazione ha cambiato direzione e la città cresce estendendosi nelle campagne circostanti, mescolando aspetti rurali, urbani e suburbani. Il concetto viene espresso con termini diversi a seconda del Paese in cui ci si trova ad esempio in Inghilterra si è sempre parlato di conurbazione per definire una regione, diciamo extra muros, densamente edificata e abitata, non lontano dalle previsioni che fece sir William Perry a fine ottocento in cui ipotizzava che Londra avrebbe ricoperto tutta l’Inghilterra. In America invece, per definire gli agglomerati urbani sviluppatisi fuori dalla città nella campagna adiacente, furono usate espressioni come exurban e rurban dai quali si sviluppa il concetto di distretto urbanizzato o distretto metropolitano.

Di seguito vengono brevemente delineati alcuni aspetti dell’urbanizzazione contemporanea, considerando come le città in continuo sviluppo si relazionino con la popolazione e con il territorio.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, i cicli di urbanizzazione sono riassumibili con un iniziale e prolungato accentramento urbano in città negli anni Cinquanta e Sessanta, dovuto al boom economico che provocò di conseguenza lo spopolamento delle campagne e dei centri rurali; un conseguente declino della crescita urbana nei tre decenni successivi ed un ritorno alla crescente concentrazione urbana nelle città a cavallo tra i secoli XX e XXI, che secondo i dati statistici dell’ONU potrebbe continuare almeno fino al 2050. L’interrogativo pressante è dunque come le città potranno sostenere questa prevista crescita urbana o meglio con quali nuovi modelli territoriali.

Negli anni Cinquanta, mentre l’economia si stava riprendendo e si andava verso il boom degli anni Sessanta, viene a delinearsi una nuova struttura urbana, quella contemporanea di tipo metropolitano: basata su sistemi costituiti da alcuni poli centrali e una corona di insediamenti esterni, legati da rapporti di tipo funzionale. La forma metropolitana tende infatti ad una struttura policentrica, ma definita dalla complementarietà tra funzioni del centro e funzioni della periferia che non sono secondarie alle prime. Questo spiega la

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successiva inversione di tendenza per cui le grandi città perdono via via la loro capacità gravitazionale nei confronti delle funzioni dirigenziali delle maggiori organizzazioni produttive. Il complesso dei comuni metropolitani italiani è cresciuto quasi del 22%, soprattutto grazie alla forte industrializzazione concentrata nel Nord-ovest. I comuni non metropolitani presentano un tasso di crescita positivo pressoché proporzionale alla dimensione del comune, mentre i comuni metropolitani crescono in media molto più rapidamente e anche in tal caso la crescita è correlata alla loro dimensione. In questo primo decennio post bellico prevale dunque la tendenza lineare alla concentrazione, anche se la relazione tra crescita e dimensione dei comuni inizia a subire gli effetti distorsivi della trasformazione metropolitana. Al contrario delle iniziali aspettative, negli anni Settanta e Ottanta, si assiste ad un declino della crescita urbana con conseguenti previsioni di deurbanizzazione e morte delle città.

L’intenso ritmo di vita delle città diffuse rende inevitabile però lo spreco di tempo, spazio e materiali. La nuova società dinamica man mano si è resa conto di dover affrontare i problemi creati dallo sviluppo di un’urbanizzazione su larga scala, difficilmente arrestabile. In un certo senso l’espansione suburbana ha alleviato l’affollamento dei centri prodotto dagli ingorghi di traffico che per densità di popolazione a miglio quadrato stava diventando intollerabile. Ma sono anche sorti nuovi problemi a causa delle numerose attività sviluppatesi in breve tempo in aree rurali, che si sono trovate impreparate ad affrontare le nuove domande del mercato. La difficoltà di gestione della questione urbana sta nel fatto che i problemi come la valorizzazione delle risorse, l’uso del suolo, la fornitura d’acqua, le attività culturali, i trasporti, la politica, son collegati tra loro e diventa difficile gestirli insieme. Nascono così nuovi programmi mirati ad affrontare dei problemi tra cui conservare la bellezza naturale del paesaggio, assicurare salute e sicurezza ai cittadini, mantenere alta la qualità di vita della popolazione.

In Italia, come dimostrato dai censimenti del decennio 1970-1980, si è verificata un’inversione di tendenza per cui sembrava quasi che la crescita urbana si stesse avviando al declino, soprattutto nei centri maggiori e di più antica industrializzazione. Tuttavia questa analisi si scontra con il continuo ampliamento delle urbanizzazioni dei suoli, con l’affollamento quotidiano dei maggiori centri urbani e con le problematiche ambientali connesse alle città cioè inquinamento atmosferico, idrico e acustico. L’affollamento dei centri più importanti e il conseguente sistema urbano ed economico messo in moto è spiegabile con il fenomeno dei city users: cioè quella nuova popolazione metropolitana, non residente, di lavoratori pendolari, consumatori, uomini d’affari che si intrattengono nella Metropoli per pochi giorni o poche ore. Ecco che si può in parte spiegare il paradosso definito da Martinotti per cui nelle analisi statistiche degli anni Settanta le città si stavano svuotando e nonostante ciò erano caratterizzate da un vigoroso sistema economico e sociale non direttamente individuabile dai censimenti (Martinotti, 1993, p. 19).

Secondo questa tendenza la città si stava ampliando al di fuori del centro fino a quel momento inteso come tale, sconfinando nelle periferie e nelle campagne circostanti. Nascono tanti comuni satellite dove si concentra la crescita urbana degli ultimi decenni, a scapito dei comuni rurali e del centro città. Tuttora, almeno in Italia, si riscontrano delle difficoltà nel monitoraggio del fenomeno, dovute all’organizzazione di gran parte del territorio ancora in Comuni e Provincie. L’uso infatti di statistiche su enti territoriali differenti ed autonomi è più difficile da accordare, da questo lato sarebbe probabilmente più agevole l’istituzione di aree metropolitane, con caratteristiche uniformi, che facciano capo ad un’unica organizzazione territoriale, la Città metropolitana, in modo da essere confrontate e monitorate assieme. Certamente la questione non è disgiunta dalle

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problematiche riguardanti la mancata chiarezza e la lentezza delle leggi e della loro applicazione, a partire dalla L. 142 del 1990 che sanciva la definizione di aree metropolitane. In merito alla complessità dell’argomento si rimanda al capitolo 6 sulle normative.

La risoluzione del paradosso delle metropoli sta nella presenza in città dei consumatori metropolitani: pendolari che usufruiscono dei servizi offerti e che congestionano in determinati periodi stagionali o quotidiani le città. Mentre infatti le statistiche rilevano un abbandono delle città da parte dei residenti, dopo un primo periodo di forte attrazione, la sensazione invece che si ha vivendo le nuove metropoli è di affollamento, traffico e confusione, dovuto all’aumento dei consumatori metropolitani. Essendo un fenomeno difficilmente controllabile tramite statistiche, sarebbe necessario innanzitutto adeguare gli strumenti statistici e di analisi dei flussi di persone per poter dimensionare queste nuove forme urbane metropolitane e successivamente pensare ad un adeguamento del tessuto urbano a seconda dei bisogni delle varie popolazioni, in modo da non escludere