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CAPITOLO 2. INQUADRAMENTO SOCIO-ECONOMICO

2.4 TEORIE SUL GIUDIZIO ESTETICO

Innanzitutto per discutere riguardo all’estetica di un oggetto edilizio sarebbe necessario avere chiaro il concetto di estetica. Si può dire che, nel contesto di studio in cui si opera, l’estetica venga intesa come la filosofia delle forme.

2.4.1 Il giudizio estetico secondo Hume

Hume pone l’accento sulla differenza tra giudizio che una persona dà e sentimento suscitato in essa, mentre il primo è un attribuzione di opinione su di un fatto, un pensiero, un oggetto e può essere erroneamente condizionato da fattori esterni, il sentimento è sempre giusto perché non dipende dall’entità che lo produce, ma dall’idea che la persona ha di essa.

Le variabili che intervengono nella valutazione dell’estetica sono molteplici e difficilmente classificabili come ad esempio: lo stato di salute di chi esprime il giudizio, l’umore, l’epoca in cui si sta giudicando e l’epoca dell’oggetto giudicato, l’autore dell’oggetto giudicato, l’esperienza sull’oggetto o sulla categoria a cui l’oggetto appartiene di chi esprime il giudizio. Se poi esiste un qualsivoglia pregiudizio da parte dell’osservatore, esso va ad inficiare le sue facoltà intellettuali. Secondo Hume un ulteriore metro di giudizio ad esempio per un opera d’arte è quanto più si avvicina allo scopo per cui è stata fatta.13 Un concetto interessante tratto da Hume esprime la differenza tra bellezze profonde e frivole, le prime sono le più eccellenti perché derivano

13 Nel caso specifico delle aree dismesse non può essere considerato dato che la funzione primaria dell’oggetto edilizio è andata persa con la dismissione.

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dall’intenzione e dal ragionamento, le seconde sono le più grossolane che colpiscono un occhio inesperto ma ben presto lasciano spazio alla noia o vengono poi considerati difetti. La maggiore difficoltà è dunque trovare un osservatore senza imperfezioni che ne abbagliano il giudizio. Hume scrive “soltanto un forte buon senso, unito ad un sentimento squisito accresciuto dalla pratica, perfezionato dall’abitudine ai confronti e liberato da tutti i pregiudizi, può conferire ai critici questa preziosa qualità.” Il filosofo scozzese sostiene che nella ricerca delle regole del gusto rimangono due categorie di discordanze: i diversi umori degli esseri umani e i loro costumi, le epoche ed i paesi. Egli sostiene che un pubblico straniero nei confronti di un opera “non può mai spogliarsi pienamente delle idee e dei sentimenti abituali e gustare descrizioni che non riflettono in nulla il suo ambiente.” Ritorna in mente il concetto di riconoscimento di paesaggio, il giudizio su qualcosa può essere espresso se esiste una forma di esperienza riguardo a quel qualcosa, un immagine, un vissuto, mentre se non si hanno riferimenti, non si può basare un giudizio su alcun elemento. Senza esperienza è possibile invece seguire il sentimento che quel qualcosa provoca, il sentimento come lo intende Hume fine a se stesso che non ha riferimenti con ciò che lo provoca. Altra osservazioni di Hume è la ricerca di una via di mezzo tra semplicità e raffinatezza. Egli scrive che gli eccessi in entrambe le parti non sono piacevoli, e dice anche che la via di mezzo, benché sia molto ampia, è difficile da individuare. Egli spiega come sia conveniente preferire l’estremo della semplicità a quello della raffinatezza, partendo dall’ipotesi che lo spirito umano è per sua natura limitato pertanto risulta impossibile operare con tutte le facoltà assieme, ci saranno facoltà predominanti in ciascuno, che oscureranno il giudizio; per questo motivo maggiore è il grado di semplicità nelle descrizioni riguardanti uomini, azioni e passioni umane, meglio verrà compreso.

2.4.2 Il giudizio estetico secondo Kant

La Critica del Giudizio kantiana si divide in due parti fondamentali che corrispondono ai due tipi di giudizi riflettenti ovvero: i giudizi del gusto estetico del bello e del sublime che riflettono sulla congruenza dei dati empirici con le nostre facoltà conoscitive e i giudizi teologici che riflettono sulla congruenza dei dati empirici con una finalità immanente ai fenomeni stessi. Kant definisce giudizio riflettente quello per cui “se è dato soltanto il particolare e il giudizio deve trovare il generale, esso è riflettente” (Kant, 1790, p. VIII). Kant distingue tra due tipi di bellezze: libera e aderente. La bellezza libera valuta il bello senza presupporre alcun concetto a priori dell’oggetto, mentre la bellezza aderente è la valutazione del bello che presuppone l’idea di come quell’oggetto dovrebbe essere per definirsi bello.

Kant distingue tra giudizio determinante e giudizio riflettente. Noto che “il Giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale”, il giudizio determinante opera la sussunzione del particolare, dato l’universale. Ovvero il giudizio determinante fornisce l’insieme delle conoscenze in quanto consiste nel ricondurre i dati particolari sotto categorie. Viceversa il giudizio riflettente è quello che dal concetto particolare ricava il principio universale. Kant ritiene che il giudizio riflettente permette di integrare il giudizio conoscitivo determinante con la ricerca di un’organizzazione universale che derivi dai particolari. Il giudizio riflettente consente all’uomo il desiderio di avere un giudizio determinante dopo aver riflettuto sull’unità intrinseca dei particolari che sono rintracciabili attraverso il giudizio riflettente. Leibniz analogamente andava in cerca di una giustificazione dell’armonia che governa il complesso delle esperienze sensibili; il problema era come giustificare una corrispondenza armonica fra fenomeni

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corporei e spirituali e Leibniz postulò l’esistenza di un’armonia prestabilita la quale regolasse a priori i due ordini di fenomeni. Mentre Kant ritiene che il giudizio riflettente va in cerca di un’armonia tra esperienze sensibili e forme del nostro intelletto che non va intesa a priori, ma come una meta da raggiungere, sempre presente ma mai del tutto raggiungibile.

Mentre il giudizio estetico del bello deriva dalla percezione di un’armonia fra dati sensibili e le nostre facoltà conoscitive, il giudizio estetico del sublime deriva dalla percezione di una sproporzione straordinaria fra la grandezza o la potenza dei dati sensibili e le nostre forme a priori di conoscenza. Esempi di sublime sono la percezione di sproporzione che abbiamo di fronte ad una montagna enorme (sublime matematico – in tal caso il senso di misura è la grandezza) o a una spaventosa tempesta (sublime dinamico – in tal caso il senso di misura è la potenza).

Kant distingue tra i significati di bellezza libera e bellezza aderente. Anzitutto si può dire che per Kant il bello è la percezione disinteressata, che però possiede carattere di necessità e di universalità. La bellezza libera è la valutazione del bello che non presuppone l’esistenza di un concetto dell’oggetto valutato per come dovrebbe essere se fosse bello, mentre la valutazione del bello nella bellezza aderente “presuppone il possesso preventivo dell’idea di come dovrebbe essere l’oggetto contemplato affinché possa essere bello” (Kant, 1790, p. X). Il ragionamento di Kant a proposito del giudizio estetico parte da un concetto proprio dell’empirismo inglese, espresso da Edmund Burke nel 1756 in Ricerca

sull’origine delle nostre idee di sublime e del bello:

“A un occhio superficiale, può sembrare che siamo molto diversi gli uni dagli altri nei nostri ragionamenti, e anche nei nostri divertimenti: ma nonostante questa diversità, che credo sia più apparente che reale, è probabile che tanto il canone della ragione che quello del gusto siano sempre gli stessi in tutte le creature umane”

Esiste un’antinomia di principi nel pensiero del Burke, a cui Kant aggiunge un terzo. Il primo principio dice “ognuno ha il suo proprio gusto”, il secondo afferma l’impossibilità di disquisire sul gusto estetico in quanto vi sarebbe una sua validità universale e Kant ammette l’universalità del gusto ma ritiene che sia possibile dibattere sul giudizio estetico in quanto l’universalità che lo caratterizza può essere controllata razionalmente. Egli dunque offre un’interpretazione opposta alle conclusioni che lo stesso Burke da ad un suo ragionamento che lo distanzia dal filone degli empiristi inglesi.

Kant distingue inoltre tra giudizio estetico e giudizio teologico per cui mentre il primo è soggettivo e concerne la finalità formale, il secondo concerne la finalità reale, oggettiva della natura, non ha a che fare né col sentimento né con il bagaglio intellettuale del soggetto giudicante, il giudizio teologico si limita a valutare l’accordo tra oggetto e concetto che ne determina le relazioni oggettive quali finalità della natura.

Kant delinea quattro caratteri del giudizio estetico: disinteressato, universale, incondizionato e necessario.

A proposito del disinteresse del giudizio estetico, Kant si avvicina al pensiero di Hume quando dice che il giudizio estetico non è necessariamente avulso dal contesto intellettuale dell’osservatore perciò può accadere che egli inserisca nella sua valutazione considerazioni di carattere intellettuale, soggettive. Aggiunge che non essendo il giudizio di gusto un giudizio di conoscenza e quindi logico, ma estetico appunto, ne consegue che è soggettivo. Kant spiega il disinteresse del giudizio estetico attraverso il ragionamento per cui se un oggetto viene giudicato esteticamente, all’osservatore non deve interessare se tale oggetto esista realmente o meno, in modo che il giudizio estetico non sia condizionato dalla sua esistenza, ma sia frutto di uno sforzo di immaginazione dell’oggetto stesso (Kant, 1790, pp. 15 - 18).

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Per quanto riguarda il senso di universalità del giudizio estetico egli ritiene che ci sia un’analogia tra universalità del giudizio logico e del giudizio estetico; quest’ultimo infatti ha carattere universale come quello logico ma in assenza di ogni concettualità. Si distingue in tal modo l’universalità soggettiva del giudizio estetico per la quale si ha coscienza del disinteresse per l’esistenza o meno dell’oggetto, dall’universalità oggettiva propria del giudizio logico (Kant, 1790, p. 24).

Già una riflessione kantiana, antecedente agli scritti sul Giudizio estetico, anticipa i caratteri di universalità e di disinteresse della bellezza: egli meditava su come l’uomo in senso universalmente riconosciuto trovi il sentimento di bellezza in molti elementi della natura senza conoscerne i fini della loro esistenza, perciò si potrebbe affermare che la sensazione di bellezza proviene, come una conseguenza, dall’osservazione coscientemente disinteressata dell’oggetto.

Un'altra caratteristica è l’incondizionatezza del giudizio ovvero esso deve essere puro. Questo pensiero riprende i concetti di bellezza libera e bellezza aderente, che descrive l’una come superiore dal punto di vista della purezza del gusto, ma la bellezza aderente, seppur condizionata dalla percezione oggettiva e dunque impura, presenta il vantaggio di soddisfare oltre che il gusto estetico anche la ragione.

L’ultimo aspetto analizzato da Kant è il carattere di necessità che deve avere il giudizio estetico. Egli risolve la questione vedendo nel giudizio estetico un simbolo dell’imperativo categorico e nel bello un simbolo dell’eticità. Egli dice che il bello è il simbolo del bene morale e sotto questa luce deve avere il consenso universale. Conseguentemente la necessità dei giudizi del bello si spiega in quanto pensata nel giudizio estetico, soltanto come una necessità esemplare, cioè la necessità dell’accordo comune in un giudizio considerato esempio di un modello esemplare o di una regola universale (che non si può addurre), per cui la ricerca della conformità ad essi diviene necessaria pur non essendo una necessità assoluta.

Perciò la condizione di necessità che presenta un giudizio di gusto sta nell’idea di un senso comune. Su questo argomento si può in parte collegare il pensiero più recente su cui si basa lo studio del premio nobel per l’economia Elinor Ostrom, che viene accennato nei paragrafi successivi. Si può immaginare l’ipotesi che Ostrom, nel perseguire le sue ricerche (che hanno portato a dimostrazioni reali), avesse anzitutto fiducia nel senso comune così come lo intendeva Kant, ovvero una certa sensibilità comune a tutti gli uomini per cui è possibile comunicare ad altri, non solo i contenuti concettuali bensì anche “lo stato d’animo che consiste nella disposizione delle facoltà conoscitive rispetto ad una conoscenza in generale” (Kant, 1790, p. 53). Il dubbio su cui riflettere è se l’uomo fosse in grado di comunicare ed interagire così come ipotizza Kant, allora probabilmente il successo delle tesi della Ostrom sarebbe più diffuso e le tesi maggiormente applicate.

2.4.3 Il giudizio estetico secondo Hegel

Gli scritti sull’estetica di Hegel sono in realtà una laboriosa raccolta, ad opera dei suoi discepoli, iniziata dopo la sua morte, da cui ne uscirono tre tomi dell’opera Vorlesungen

uber die Aesthetik, apparsi tra il 1835 e il 1838.

Secondo Hegel l’estetica è una scienza autonoma che considera il “bello dell’arte”. Presupposto della genesi delle Lezioni sull’Estetica di Hegel è il suo costante interesse personale per le cose dell’arte nonché il suo sistema filosofico (così Nicolao Merker nella prefazione all’Estetica di Hegel tomo I). Se in Kant la trattazione del bello riguardava tanto il bello naturale che quello artistico, per Hegel, in virtù del principio per cui tutto quello che è spirituale è superiore a ogni prodotto naturale, l’essenza della bellezza risiede

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nell’arte in quanto prodotto dello spirito. Non dunque il “bello naturale”, bensì solo quello generato dallo spirito, che secondo Hegel sta più in alto del bello naturale. Egli scrive “l’estetica indica […] esattamente la scienza del senso, del sentire, e, in questo suo

significato di nuova scienza […] ha avuto origine nella scuola wolffiana al tempo in cui in Germania si consideravano le opere d’arte in relazione ai sentimenti che dovevano produrre […] Tuttavia il vero e proprio termine per la nostra scienza è filosofia dell’arte, e più specificatamente filosofia della bella arte” (Hegel, t.I, p. 6).

Per quanto riguarda la rappresentazione dell’arte, Hegel individua tre definizioni: l’opera d’arte è un prodotto dell’attività umana; essa è creata essenzialmente per l’uomo, a beneficio del cui senso, anzi, viene più o meno tratta dal sensibile; ha un fine in sé. Per quel che riguarda il primo punto Hegel ritiene che l’opera d’arte ha un lato puramente tecnico che arriva fin quasi alla perizia artigiana (e ciò massimamente nell’architettura, nella scultura, meno nella pittura e nella musica). Tale abilità è necessaria all’artista per dominare il materiale esterno e non essere ostacolato dalla riottosità di questo.

Per quanto riguarda poi il posto dell’opera d’arte rispetto ai fenomeni esterni della natura, Hegel premette che la coscienza comune ritiene che la produzione artistica dell’uomo sia inferiore al prodotto della natura. Infatti l’opera d’arte è di per sé qualcosa di morto, ciò che fa di un’opera d’arte un prodotto della bella arte è la sua origine derivante dallo spirito. L’interesse umano ed il valore spirituale di un avvenimento vengono messi in rilievo nell’opera d’arte in maniera più pura e perspicua, di quanto non sia possibile nel campo della realtà. Allora in questo senso l’opera d’arte è superiore ad ogni prodotto della natura. A questo punto Hegel si domanda quale sia il bisogno dell’uomo di produrre l’arte e, partendo dal riconoscere un impulso superiore a cercare soddisfazione a bisogni supremi e assoluti, giunge a teorizzare che il bisogno assoluto da cui sgorga l’arte è originato dal fatto che l’uomo è coscienza pensante ed il bisogno universale dell’arte è conseguente al bisogno razionale che l’uomo ha di elevare alla coscienza spirituale il mondo esterno ed interno come un oggetto, in cui egli riconosce il proprio io(Hegel, t.I, p. 39).

Per quanto riguarda il fine dell’arte, Hegel parte dalla considerazione che un’idea molto diffusa nella coscienza comune è che lo scopo dell’arte è l’imitazione della natura, intesa come abilità a riprodurre forme naturali quali esse esistono (Hegel, t.I, p. 51). In questa rappresentazione vi è solo il fine interamente formale, che ciò che già esiste nel mondo esterno, venga fatto una seconda volta dall’uomo come egli meglio può con i mezzi che ha (fine formale). Ma tale ripetizione può essere considerata una fatica superflua e presuntuosa, giacché quel che si rappresenta già esiste in natura e rimane indietro rispetto ad essa se è solo sua imitazione. “È da dire insomma che l’arte, limitandosi ad imitare la

natura, non può mai gareggiare con essa ed acquista l’aspetto di un verme che si sforza di strisciare dietro a un elefante” (Hegel, t.I, p. 53).

Di fronte a questo insuccesso il fine si riduce al solo diletto di produrre qualcosa di simile alla natura, diletto che viene presto ad annoiare quanto più l’imitazione è simile al modello naturale, tanto più è fredda e senza vita. Anche Kant a proposito del diletto dell’imitazione come tale, cita l’esempio di come colui che sappia imitare alla perfezione il canto dell’usignolo venga presto a noia, poiché si riconosce in ciò solo un’opera di destrezza e niente più. In questo senso ogni modesta invenzione tecnica ha un valore superiore e l’uomo può essere più fiero di avere inventato il martello o la chiave che della destrezza ad imitare. Ma al di là del lato formale dell’arte, essa suscita opposti entusiasmi ed accresce le contraddizioni dei sentimenti e delle passioni. Questa molteplicità della materia, dice Hegel, ci obbliga a non fermarci ad una determinazione così formale, perché

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la razionalità avanza la richiesta che si veda sorgere da elementi così contradditori un fine più alto, in sé più universale e che lo si sappia raggiunto.

Hegel dunque partendo dall’idea del fine formale, giunge a descrivere il fine sostanziale quale capacità e vocazione di domare, educare gli impulsi, di purificare le passioni e giungere all’ammaestramento ed al perfezionamento morale.

Nel complesso la scienza dell’estetica si divide in tre settori principali: una parte generale, la quale ha ad oggetto e contenuto l’idea universale del bello artistico, in quanto è l’ideale ed insieme il rapporto diretto di questo con la natura da una parte, con la produzione artistica dall’altra. In secondo luogo dal concetto del bello artistico si sviluppa una parte speciale, in quanto le differenze essenziali che questo concetto contiene in sé si svolgono in una gradazione di diverse forme particolari di configurazione. In terzo luogo vi è un’ultima parte che deve considerare il singolarizzarsi del bello artistico, in quanto l’arte procede alla realizzazione sensibile delle sue produzioni e si conchiude in un sistema delle singole arti e delle loro specie e generi (Hegel, t.I, p. 86). L’idea del bello artistico o ideale è l’idea accompagnata dalla determinazione più precisa di essere realtà essenzialmente individuale e di essere una configurazione individuale della realtà accompagnata dalla determinazione di far apparire in sé essenzialmente l’idea.

Dopo aver considerato il bello artistico in sé e per sé, esso va considerato nel suo dirompere nelle sue determinazioni particolari: cioè nelle forme artistiche. E dunque Hegel dispiega la dottrina delle forme artistiche, secondo la quale le forme dell’arte non sono altro che i diversi rapporti di forma e di contenuto, rapporti che sorgono dall’idea stessa, in quanto sviluppo di quel che è implicito nel concetto di ideale e viene ad esistenza mediante l’arte. Le forme d’arte dunque sono intese come sviluppo realizzante il bello. Hegel individua tre forme principali di arte: l’arte simbolica, in essa l’idea cerca ancora la sua vera espressione artistica perché in se stessa è ancora astratta ed indeterminata e non ha perciò in se l’apparenza adeguata ma si trova in opposizione di fronte alle cose esterne della natura. In secondo luogo l’arte classica secondo cui l’idea non si ferma all’astrazione e all’indeterminatezza di pensieri generali, ma è in sé stessa libera soggettività finita, che essa coglie nella sua realtà come spirito. Lo spirito, ora, come soggetto libero, è determinato in sé e ad opera propria e in questa sua autodeterminazione possiede la forma esterna a lui adeguata. In questa unità di contenuto e forma senz’altro adeguata risiede appunto la forma d’arte classica. In terzo luogo la forma d’arte romantica crea di nuovo la separazione di contenuto e forma propria dell’arte simbolica ma in senso opposto. Infatti se si concepisce l’idea del bello come spirito assoluto, per se stesso libero,