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Per meglio comprendere la situazione attuale e capire come agire anche e soprattutto in una prospettiva futura, è opportuno studiare a fondo la storia dell’urbanistica per avere un quadro migliore delle vicende storiche, politiche, economiche, ambientali che hanno fatto l’evoluzione dell’umanità e della sua più importante espressione sul territorio: gli insediamenti.

L’uomo si stabilizza su un territorio per insediarsi e produrre utilizzando le risorse dell’ambiente circostante, la concentrazione antropica, data dall’attività insediativa, dà luogo al fenomeno urbano che risulta formarsi a seguito di due scelte della comunità insediata: anzitutto la scelta della stanzialità (per cui l’uomo riconosce i luoghi e la disponibilità di risorse con cui soddisfare i propri bisogni) e la scelta della prossimità (per cui i gruppi umani scelgono di addensarsi tra loro al fine di trarre benefici reciproci dalla cooperazione e dalle possibili sinergie). Nel momento in cui la scelta iniziale di stanzialità è compiuta dalla collettività e non più da qualche singolo individuo, nascono i fenomeni di condensazione urbana sul territorio, i quali trasformano l’ambiente e danno luogo a spazi artificiali di aggregazione che caratterizzano i sistemi urbani. Si avvia così il processo di civilizzazione, che porta al fenomeno Città (Cacciaguerra S., 2014, p. 205). La scelta delle popolazioni di concentrarsi in densi stabilimenti urbani deriva inizialmente da necessità difensive e per lo stesso motivo si sviluppa l’organizzazione politica e sociale comunitaria. Storicamente nello studio della città si evince una sorta di rispetto per le connotazioni sociale e politica intrinseche nella concezione stessa di città, fin dall’antichità i filosofi e gli studiosi si sono posti delle domande su come potesse essere la città ideale, fondamentalmente alla ricerca di un benessere sociale che fosse alla base dell’organizzazione urbana e territoriale. La letteratura ci ha lasciato numerosi scritti su questi argomenti. L’obiettivo dei fondatori di utopie, da Aristotele e Platone a Tommaso Moro, Fourier, Sant’Agostino o Tommaso Campanella, era l’organizzazione sociale nel suo insieme. Anche nella loro ricerca della città ideale sorgeva la contrapposizione tra forma spaziale e società. Prendiamo ad esempio due tra i più rappresentativi filosofi dell’antichità, Aristotele e Platone: essi si posero degli interrogativi su quale potesse essere la dimensione ideale per una città in cui regnasse una buona qualità di vita. Platone formulò ipotesi sulla densità abitativa dello spazio e sull’organizzazione dei terreni agricoli e degli spazi collettivi, Aristotele invece, dando indicazioni più generiche e lungimiranti, scrisse nel suo saggio “Politica” che una città doveva essere grande abbastanza da essere “autosufficiente per vivere armoniosamente secondo i principi di

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che “per decidere le questioni attinenti alla giustizia e per distribuire le cariche secondo

il merito è necessario che ciascuno cittadino conosca la personalità di tutti gli altri”, si

stima che a quel tempo Atene contasse 250.000 abitanti inclusi gli schiavi.

La cinta muraria e la torre fortificata sono stati a lungo i simboli architettonici del potere della città occidentale, sebbene il concetto di comunità urbana e la sua rappresentazione territoriale si siano evoluti distintamente nei secoli: si pensi alle caratteristiche diverse di città palatine e monasteriali (Lasha), polis, municipia, urbe, civitas, comuni, città stato e signorili. La città contemporanea è ormai distante dal concetto di città racchiusa entro le mura, soprattutto nel XX secolo questa concezione viene stravolta e cambiano anche gli elementi rappresentativi del pensiero sociale. Al posto della torre solida e robusta in pietra prendono piede altre tipologie architettoniche simboliche: i grattacieli ostentano fragilità e leggerezza anziché forza e protezione. La scelta dei materiali esprime una società non più preoccupata dal mantenere strutture difensive ma aperta al mondo, complessa e in evoluzione, questo perché la moderna tecnologia militare in principio aveva reso superflue le mura e le torri fortificate e man mano viene abbandonato il concetto di città come riparo dall’esterno. Come i grattacieli rappresentano più che un semplice cambiamento di dimensione rispetto alle torri antiche, così la crescita urbana non modifica solo la dimensione della città ma anche la dinamica interna. Si attenua la distinzione tra intra ed extra muros, la crescita della popolazione e di servizi rompe i vecchi schemi e la crescita dei suburbi di periferia mette in crisi l’idea dell’unità di pianta, di governo e di società della comunità cittadina.

Si osserva in genere che ogni epoca plasma la città secondo proprie necessità e secondo gli ideali del momento. Fino al Medioevo la città rispecchia esigenze di difesa militare ed è chiusa a guscio tra le mura; nell’Ottocento viene concepita secondo la metafora della fabbrica per avere un miglior controllo sociale. Sempre dal pensiero positivista, che si usò per organizzare le fabbriche, deriva l’idea della fornitura di servizi a rete per la metropoli. Nel 1945 Le Corbusier propose l’Unité d’habitation, una stecca svettante sul prato aperto, ideata per contenere circa 1500 abitanti. Anche i viali parigini e gli enormi quartieri catalani di Barcellona nascono da esigenze di igiene in seguito alle epidemie diffusesi nei vicoli e nelle ristrette città medievali; ancora la città lineare è stata concepita sull’onda dell’entusiasmo per il trasporto su rotaie, nel 1882 Arturo Soria y Mata organizza un intero quartiere a Madrid lungo una linea tramviaria, in America è stata ipotizzata una città sopra una linea ferrovia che collega New York a San Francisco. Con la diffusione dell’automobile i modelli urbani modernisti del secondo dopoguerra - Ville Radieuse (Le Corbusier), Grosstadt (Hilberseimer), Brasilia (Costa e Neimeyer) - si adattano alla circolazione veloce preparando la strada verso la città estesa. È interessante citare il concetto espresso da Christopher Alexander nel suo saggio del 1965, “The City is not a tree”, dove individua il problema centrale del pensiero modernista: egli paragona la visione modernista della città ad un albero i cui componenti sono tutti connessi fra loro attraverso la struttura stessa, il risultato è la monofunzionalità dello zoning che segrega gli elementi urbani. Un ulteriore impronta è stata lasciata dall’avvento del computer con il quale divenne possibile controllare o quantomeno conoscere la complessità dei fattori urbani (topografia, geologia, orografia, assetto stradale, spazi vuoti, edificato, skyline e così via.).

La città contemporanea appare un confuso amalgama di frammenti eterogenei, nel quale non è possibile riconoscere alcuna regola d’ordine, alcun principio di razionalità che la renda intelligibile, ma come sostiene Henry Miller “confusione è parola inventata per

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Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo la dimensione delle metropoli è tale da mandare in crisi gli strumenti urbanistici e di controllo fino a quel momento adoperati ed è il periodo appunto in cui si passa dalla concentrazione urbana basata sull’organizzazione della società dell’epoca e sulla divisione del lavoro alla fase del decentramento di residenze ed attività lavorative senza però sapere né le leggi ne la forma che la città avrebbe assunto. Per la prima volta subentra un fattore finora trascurato nella codificazione della forma urbana: la salubrità delle città, salubrità intesa come garanzia minima di condizioni di vita igienicamente accettabili ha contribuito al fenomeno del decentramento urbano. Con la nascita delle metropoli si ha l’introduzione del verde urbano come elemento di progettazione alla pari delle residenze, degli affari e delle attrezzature pubbliche, mentre le industrie che nel XIX secolo erano al centro del pensiero socio-economico, vengono considerate in relazione al contesto e quindi collocate per lo più lontano dalle residenze e dalle principali attività urbane. Si possono dunque raggruppare i tratti comuni delle forme metropolitane in pochi schemi esposti di seguito (Aymonino, 2000, p. 110).

Una critica alla città moderna, figlia dello zooning funzionale e del razionalismo, fu fatta inizialmente dalla giornalista Jane Jacobs negli USA degli anni Cinquanta, che la definì il risultato della pianificazione monofunzionale degli spazi, che aveva contribuito a formare la frammentazione della popolazione stessa. Il razionalismo fu interpretato forzatamente da un edilizia speculativa che trasformò le città e le periferie urbane in ammassi di edifici privi di qualità abitativa ed estetica in cui la comunità non riusciva a socializzare. La Jacobs auspicava città non da contemplare come opere d’arte ma che fossero entità interattive e funzionali dove cioè potessero convivere edifici antichi e moderni, distretti commerciali e quartieri residenziali, appartamenti con negozi e caffè al piano terra, marciapiedi larghi su cui passeggiare e spazi protetti per bambini, spazi urbani in cui potesse coesistere una varietà sociale e culturale. La descrizione della Jacobs rifletteva le città europee di un tempo, quelle che poi gli Europei hanno trasformato per avvicinarsi al modello americano (Miani F., 2003, p. 32).

Nei paragarfi successivi verrà tracciato un excursus degli insediamenti storici e della formazione delle città di maggior interesse, dalla preistoria all’Ottocento, con lo scopo di approfondire alcuni eventi che hanno segnato la storia dell’urbanistica e farne tesoro nell’approccio alla condizione attuale.

1.2.1 Forme urbane nella preistoria

In base alle scoperte paleontologiche fatte finora, non si può affermare con precisione scientifica che durante i periodi protostorico e preistorico, la stirpe umana abbia sviluppato e seguito il concetto di urbanistica come lo intendiamo oggi. Tuttavia lo sviluppo umano relativo alle attività di stanziamento, che va dall’età della pietra all’età del ferro, è utile a comprendere le successive evoluzioni urbanistiche e architettoniche degli agglomerati urbani.

La descrizione a grandi linee dell’evoluzione insediativa preistorica e protostorica viene raggruppata in età paleolitica, età neolitica, età dei metalli (rame, bronzo e ferro).

Durante l’età paleolitica la tipologia abitativa era la caverna naturale: dei ripari sotto roccia, esistenti in cui le prime famiglie si raccoglievano organizzate in embrionali forme sociali entro grotte isolate. Non esisteva ancora una forma insediativa. Lo scopo primitivo era la ricerca di un riparo dalle intemperie, dal clima sfavorevole e dai predatori.

Successivamente compaiono le prime caverne artificiali che venivano realizzate per mezzo di opportune opere murarie di pietra a secco sulle caverne naturali, al fine di

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adattarle meglio alle esigenze umane o in alternativa si procedeva all’escavazione di caverne artificiali ex novo entro terreni rocciosi. Con le caverne artificiali si riscontra la prima rudimentale tipologia insediativa, le caverne infatti potevano essere distribuite su terrazzamenti sovrapposti a formare i primi villaggi rupestri. L’unica direttrice di formazione e sviluppo insediativo era l’adattamento alla natura della roccia e del terreno. In figura 1 è rappresentato un modello di un raggruppamento di capanne dell’Africa Sud-occidentale, in cui si riscontrano delle similitudini con gli insediamenti del Mediterraneo, per la forma subcircolare delle capanne e dell’argine. La dsitribuzione delle capanne entro l’argien è casuale. L’immagine a fianco illustra la pianta di un villaggio organizzato all’interno della cinta fortificata con abitazioni disposte in file parallele lungo strade orientate da Est a Ovest alle quali si poteva accedere da una strada anulare addossata al bastione. Le case possedevano due soli locali; il pavimento era formato da travi ricoperte da uno strati di argilla. Caratteristico il sottofondo stradale costituito dall’accostamento di grossi tronchi di quercia. Al villaggio si accedeva tramite una sola porta di ingresso.

Figura 1 Modello di un raggruppamento di capanne dell’Africa Sud-occidentale. A fianco: pianta del villaggio preistorico fortificato, fondato sul promontorio del lago di Biskupin (Polonia) nell’età del bronzo, tra VII e IV a. C.

Nell’età paleolitica nascono anche le prime abitazioni all’aperto, le capanne che si diffondono poi durante l’età neolitica. La planimetria della capanna poteva essere circolare o subcircolare o anche quadrangolare. In centro Italia sono stati ritrovati tracciati di capanne del diametro di 3 – 4 metri. La tipologia insediativa seguiva uno schema simile a quello di figura 1. Le capanne erano disposte entro un argine o delle mura fatte in pietra a secco. La forma planimetrica degli insediamenti sembra fosse stata prevalentemente circolare, subcircolare o elittica, probabilmente per la maggiore facilità nel tracciare le opere di difesa. Soprattutto nel Mediterraneo si trovò questa embrionale tipologia d’insediamento in cui le capanne erano distribuite in lotti serviti da vie di comunicazione disposte secondo una trama ortogonale. L’aggere o le mura del villaggio in pietra a secco costituivano la prima rudimentale forma di perimetrazione dell’insediamento. Sono stati rilevati insedimenti in cui le capanne erano disposte allineate in file parallele e altri invece in cui sebbene la disposizione delle capanne fosse casuale, l’organizzazione del tessuto urbano composto da opere con funzione pubblica e aggeri in pietra, si sono sviluppati prima nel Mezzogiorno e poi verso nord. I Paesi del Mediterraneo si svilupparono precocemente rispetto ad altri anche grazie ai traffici marittimi e commerciali. I criteri costruttivi di queste forme insediative erano di carattere distributivo, sorti spontaneamente e allo stesso tecnico, generati da naturali esigenze di ordine, praticità e adattabilità al terreno.

Durante il Neolitico si sviluppa un’altra tipologia abitativa: le palafitte. Le tecniche di realizzazione variavano a seconda del terreno sotto il lago. Se era sabbioso i pali venivano

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conficcati, se era roccioso venivano tenuti su ammassando rocce attorno, che talvolta fuoriuscivano dal lago.

Nelle paludi o nei laghi minori invece veniva costruito un piano (zatterone) che si appoggiava sul fondo e un altro piano in superficie, i due livelli erano intervallati da materiali argilloso e fascinaggi, supportati da pali verticali conficcati nel fondale. Le dimensioni di questi zatteroni erano tali da ospitare numerose capanne (le dimensioni di queste stazioni potevano oscillare da 3.000 mq – palafitte di La Térre - a 60.000 mq – palafitte di Chabrey nel lago di Ginevra -).

Figura 2 Ricostruzione di capanne palafitticole a pianta quadrata, collegato da un ponticello ad altro raggruppamento oppure alla terraferma. A fianco: Ricostruzione di una stazione lacustre. Il raggruppamento delle capanne è immaginato costituito da varie “isole” molto vicine e collegate da ponticelli. (Morini, 1963). Non è rimasta traccia delle forme insediative su palafitte, ma solo di alcune fondamenta delle stesse, che risultano strutturalmente ordinate. Tuttavia, dalle singole tracce ritrovate, si può dedurre che per gli stanziamenti venivano scelti luoghi ricchi d’acqua, di pascoli e di cacciagione. Anche in questo caso, la ragione di questa evoluzione costruttiva dell’abitazione e la scelta di spostarsi in acqua e in alto, era per motivi di sicurezza e riparo dai predatori.

Alcuni esempi di stazioni palafitticole provengono dalla zona dei laghi di Varese. I pali sporgenti dal fondo sorgono da un ammasso di ciotoli e pietre di ogni foggia e dimensione, ossia da fondo rialzato artificialmente. Gli avanzi della industria umana (carbone, schegge, armi di pietra, cocci di stoviglie, ceneri) formano uno strato variabile che raggiunge i 20 cm. Nel lago di Garda, ove l’ampio bacino è dominato dai venti e da correnti, le tracce delle palafitte (Peschiera, Pacengo, età neolitica) sono sepolte sotto le dune che le onde del lago hanno accumulato verso la riva.

Figura 3 Stazioni palafitticole dei laghi di Varese, della Brianza e di Garda.

Con l’avvento dell’era dei metalli, l’uomo si dotò di armi metalliche per difendersi, abbandonò così le abitazioni in mezzo all’acqua e si trasferì sulla terraferma. È documentata la presenza delle stazioni terrremaricole (o terrremare) in più parti dell’Italia

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settentrionale. La tipologia di costruzione è simile alle abitazioni palustri sopra descritte, con l’aggiunta di un argine di terra per la difesa dagli allagamenti. Erano alte dai 2 ai 4 metri sopra terra. La figura 4 rappresenta la Terramara rinvenuta nei pressi di Parma. Secondo le idee del Pigorini, che la esplorò nel 1888-89, questa terramara aveva una forma trapezoidale ed una superficie di circa 20 ha. Era circondata da un fossato largo 30 m e profondo 3,5 m coronato verso l’interno da un argine di terra rinforzato da pali. L’angolo acuto di Sud-Ovest spartiva l’acqua che giungeva dal torrente Fossaccia che, dopo avere fluito attorno all’abitato, si immetteva nel canale di scarico esistente ad oriente profondo solo 60 cm, in modo da mantenere il fossato sempre pieno d’acqua. Un solo ponte di legno indicato dal numero 4, permetteva l’accesso alla zona abitata. Il Pigorini intravide degli isolati rettangolari, determinati da tre strade longitudinali parallele e da un complesso di altre cinque strade di minore larghezza normali alle precedenti. Come gli isolati, anche le strade si elevavano dal fondo ed erano supportate da palificazioni. Tra la strada principale larga 15 m e l’argine orientale trovo uno spazio rettangolare di 100x50 (6) limitato da un fossato (2); In tale spazio indentificò l’Arce in relazione a 5 pozzetti colà rinvenuti che credette fossero serviti per il rito di fondazione. Tre ponticelli di legno (3) collegavano questo luogo presumibilmente sacro alle strade. Non furono ritrovati resti di capanne. Esternamente al fossato furono individuate due necropoli una adiacente al alto occidentale e l’altra, costruita col medesimo sistema della terramara col fossato attorno, vicino al lato Sud-Est.

Figura 4 Terramara di Castellazzo di Fontanellato (Parma).

Le terremare, come le palafitte, venivano costruite prevalentemente lungo corsi d’acqua, in luoghi ricchi di pascoli e cacciagione. Mentre durante il paleolitico l’uomo cerca il sistema per adattarsi alla natura e al terreno, ora si sforza di superare alcuni dei vincoli che la natura impone, sempre principalmente per ragioni difensive.

Nell’età dei metalli la tipologia primitiva di capanne in pali e rami si evolvette in capanne costruite in blocchi di pietra a secco con pareti cilindriche e tetto conico sovrapposto. I primi esempi sono già riscontrabili nel Neolitico. Le pareti cilindriche furono inizialmente in mattoni crudi e poi in blocchi di pietra e venivano coperte da cupole a corsi aggettanti. Diffusesi in Mesopotamia, a Creta, in Africa del Nord, passarono per Malta e attraverso l’Egeo arrivarono in Italia, dove abbiamo testimonianza di questa tipologia abitativa attraverso i Nuraghi in Sardegna, in cui generalmente il torrione più antico si trova al centro e gli altri fortificano il recinto ai lati, e attraverso i trulli in Puglia, presenti in quasi tutto l’altipiano calcareo dell’antica “Apulia Petrea. Sono case a tronco di cono costruite in lastre di pietra senza cemento, simili alle Tailoti delle Baleari e con sistema costruttivo analogo a quello dei nuraghi sardi.

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Figura 5 A sinistra: Pianta del nurahe Lugherras. Al centro: Nuraghe Oes a Torralba. A destra: Veduta dei trulli ad Alberobello.

La tipologia insediativa in questa fase era data principalmente dalla presenza centrale di una costruzione più imponente delle altre, che probabilmente nacque con funzione funebre e fu poi utilizzata e costruita per i vivi. Attorno sorgevano le case circolari in pietra, con tetto a cupola, sparse in modo vario, senza un preciso ordine. Tuttavia anche in questo caso la scelta di questi stanziamenti era dettata dalla presenza di corsi d’acqua, pascoli o cacciagione.

Sempre durante l’età dei metalli, nelle regioni settentrionali dell’Istria, della Venezia Giulia e dell’Alto Adige, per ragioni geografiche differenti, si svilupparono speciali forme urbanistiche dette castellieri. Essi sono dei villaggi costruiti sulle sommità delle colline dai 100 agli 800 m s.l.m., in modo da sbarrare e difendere le valli.

I villaggi erano anularmente fortificati da muraglioni formati da blocchi di pietra sovrapposti e a volte esistevano più giri concentrici di mura. Si è rilevato anche che le mura erano più spesse dalla parte esposta alla bora. La cerchia di mura aveva un diametro che variava dagli 80 ai 200 metri entro cui le capanne erano distribuite casualmente attorno ad un edificio centrale. In epoche successive i castellieri divennero opidi o fortificazioni o villaggi, tanto che furono anche definiti i prototipi delle città fortificate. L’uso di blocchi e lastre in pietra è prerogativa dei Paesi celtici e del nord, la Bretagna, la Cornovaglia, il Devon e altri, in cui si mescolano tipologie con funzioni funebri come i dolmen e altre più progredite dal punto di vista costruttivo adibite ad abitazione, che non vanno comunque disgiunte dalle necropoli.

In Portogallo c’è testimonianza di un insediamento abitativo (Citana de Briteiros) dell’età del ferro, in cui sono presenti elementi urbanistici molto progrediti rispetto alle testimonianze precedenti. Il tessuto risponde ad un’organizzazione chiara e precisa in cui le strade non sono più rappresentate dagli spazi liberi esistenti tra le capanne, ma assumono un aspetto definito: pavimentate, rettilinee, dotate di marciapiedi, parallele e