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Il concetto di turnaround

Nel documento Banche, crisi aziendale e turnaround (pagine 89-96)

L A VALUTAZIONE DELLA SOSTENIBILITÀ DEL TURNAORUND

III.1 Il concetto di turnaround

Letteralmente l’espressione “turnaround” indica l’inversione di rotta, il “giro di boa”, ad esempio di una nave o di un aereo, fatto per tornare al punto di partenza originario. Nella terminologia aziendale stava anche a significare la temporanea chiusura di un impianto industriale per permettere la manutenzione, la riparazione o la sostituzione delle macchine.

Nella letteratura manageriale, con il termine turnaround si è tradizionalmente indicato il complesso delle azioni tese ad affrontare e superare una situazione di crisi o di declino, fino al ritorno ad uno stato fisiologico. Più recentemente, nella definizione di turnaround sono stati compresi tutti i processi di rilancio delle imprese, prescindendo dal fatto che essi siano o meno originati da una condizione di difficoltà dell’azienda49. Secondo le concezioni più recenti, dunque, la crisi è soltanto

uno dei possibili eventi detonatori (“trigger events”) del turnaround, il cui elemento distintivo consiste dunque non nell’evento all’origine, bensì nella radicalità del cambiamento che intende perseguire, nell’ottica di dischiudere nuovi orizzonti per l’azienda. Secondo la concezione di Sicca ed Izzo50, ad esempio, “c’è turnaround in tutte le situazioni nelle quali all’impresa si richiede un

cambiamento radicale delle sue strategie, dei suoi modelli di comportamento, della sua organizzazione, della sua cultura, dei suoi processi, ossia un ripensamento della sua stessa identità. Ma c’è turnaround anche quando – ben lontana da una crisi – un’impresa modifica le regole del gioco del settore in cui opera, ovvero riconfigura proattivamente il suo business”. Dunque, l’evento scatenante il turnaround può consistere sia in una minaccia – potenziale o già concretizzatasi – sia in un’opportunità, ed il tratto distintivo di un processo di turnaround non risiede nella sua causa scatenante ma nella drasticità del cambiamento che esso intende determinare.

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Guatri L., “Crisi e risanamento delle imprese”, Giuffrè, Milano (1986)

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Va tuttavia osservato che, su un piano strettamente empirico, l’esperienza del turnaround risulta ancora prevalentemente collegata a momenti critici della vita aziendale, poiché solo raramente il soggetto economico di un’azienda in condizioni di floridezza avvertirà l’esigenza di mettere in discussione in modo radicale la propria formula imprenditoriale, a meno che non intenda aggredire il mercato attraverso politiche di innovazione.

Secondo un lavoro di Bibeault51, largamente accreditato in dottrina, tutti i processi di turnaround, a

partire da un trigger event, si sviluppano attraverso cinque fondamentali tappe: 1. il cambio del management;

2. la fase della valutazione del percorso da intraprendersi; 3. la fase dell’emergenza;

4. la fase del riequilibrio;

5. il ritorno alla crescita normale.

Il cambiamento – possibilmente tempestivo – dei vertici manageriali è considerato, sia in letteratura che nella pratica aziendale, la premessa indispensabile dell’avvio di un processo di turnaround. Ciò sia in quanto, come già osservato, il management esistente è spesso l’ultimo a riconoscere l’esigenza di intraprendere un rilancio, sia per un tema di immagine/credibilità (rispetto al quale la sostituzione dei vertici assume un valore simbolico e catartico, essendo rappresentativo della “svolta”), sia, infine, per le probabili responsabilità (“dolose” o anche solo “colpose”) del management rispetto allo status quo dell’azienda oggetto di turnaround. Il cambiamento dei vertici è spesso indispensabile anche al fine di ristabilire all’interno dell’azienda un clima positivo e connotato da ottimismo. Tuttavia, in letteratura non mancano voci contrarie, che osservano come il cambiamento dei managers, specie quando questi, godono di stima presso il personale, possa produrre un impatto negativo, lacerando l’organizzazione, ed aumentando il livello di instabilità, incertezza ed

51 Bibeault, D.B., “Corporate turnaround: how managers turn losers into winners”, New York, Mc Graw-Hill, 1982.

ambiguità. Ed in effetti non mancano, pur essendo alquanto sporadici, casi in cui è il management esistente a condurre il turnaround (quando, s’intende, il trigger event sia esterno o comunque non ascrivibile alla sua responsabilità).

Particolarmente delicata è la fase delle valutazione delle azioni che è più opportuno compiere per ricondurre l’azienda a performance positive. La prima, fondamentale scelta è quella “di campo”: occorre decidere se continuare a presidiare tutti i mercati serviti primi del turnaround, se soltanto alcuni di essi, se, infine, nessuno. Esclusi i casi in cui l’opzione prescelta sia quella di abbandono e liquidazione totale dell’attivo52, in molti casi, come osserva Slatter53, i turnaround poi rivelatisi di

successo sono passati attraverso una soluzione, per così dire, intermedia, ossia attraverso la riduzione delle attività e dei costi (il cosiddetto retrenchment, che comporta la ridefinizione – ed il rimpicciolimento – del perimetro di attività dell’azienda): le aziende in situazioni critiche frequentemente alienano (o concedono in affitto, generalmente in vista di una successiva cessione) rami d’azienda o interi business54, e conseguono per questa via più risultati:

- un’immediata iniezione di cassa che contribuisce a ridurre lo stato di tensione finanziaria; - la possibilità di arrestare le perdite eventualmente connesse ad attività poco o per nulla

redditizie;

- la possibilità di concentrare energie e risorse in un agone più ristretto e dunque più agevolmente gestibile.

Tuttavia, anche questo genere di scelte non è esente da possibili insidie. L’azienda rischia, privilegiando un’ottica di breve periodo, di sacrificare aree di attività che, opportunamente rigenerate, potrebbero validamente contribuire al suo rilancio, e talvolta anche generare importanti sinergie con le rimanenti attività.

52 La valutazione dell’opzione di abbandono è oggetto di un apposito paragrafo, all’interno del presente capitolo.

53

Slatter S., “Corporate recovery, a guide to turnaround management”, Penguin Books, Londra (1984) 54 Un esempio di questa fattispecie è la cessione del ramo d’azienda e del brand Invicta da parte di Diadora- Invicta S.p.A., perfezionatasi nel 2006, nel corso del processo di turnaround dell’azienda.

Nella fase della valutazione delle azioni da intraprendere, il nuovo management, parallelamente alla identificazione delle cause che hanno generato la necessità o l’opportunità di un turnaround, redige una “Situazione patrimoniale di partenza” 55, la quale non serve tanto a chiudere un ciclo di risultati

negativi misurandone le conseguenze, quanto ad aprire il nuovo ciclo. Quasi sempre saranno necessari dei write-off, per poter segnare il punto di partenza della nuova gestione tenendo conto dei risultati ritardati delle gestioni precedenti, onde poter poi eseguire una corretta valutazione della performance ascrivibile alle azioni di turnaround. Per evitare di effettuare nuovi write-off in un momento successivo, che avrebbero riverberi negativi sull’immagine del turnaround, il management incaricato del turnaround risulta spesso anche troppo zelante nell’abbattere i valori dell’attivo e rilevare l’esistenza di passività potenziali. La Situazione patrimoniale di partenza rappresenta un importante punto di riferimento iniziale del turnaorund, soprattutto per le aziende non quotate, per le quali manca la valutazione attribuita dal mercato al capitale dell’azienda, che per le altre è espressa dal pricing dei titoli azionari che lo rappresentano.

In letteratura, vengono considerati determinanti, per il buon esito del turnaoround, e soprattutto per la gestione della fase di emergenza, gli aspetti intangibili o “invisibili”, per citare Sicca ed Izzo, del medesimo, che comprendono:

- la gestione degli stakeholders; - la leadership;

- il cambiamento culturale.

Intraprendere un percorso di turnaround coinvolge inevitabilmente gli interessi di una molteplicità di soggetti, le cui sorti sono variamente collegate a quella dell’azienda. La teoria degli stakeholders presenta infatti l’azienda come il risultato della convergenza di interessi corporativi e competitivi. La definizione di un percorso di turnaround richiede sempre uno sforzo di composizione, anche

negoziale, degli interessi e delle attese in gioco, in modo che la costellazione degli stakeholders rimanga compatta e non corra il rischio di disgregarsi. Nel nuovo equilibrio definito dal cambiamento, i sacrifici dovranno essere distribuiti in modo equilibrato, per essere tollerati dalle diverse classi di soggetti. È a cagione di questo che il piano di turnaround è sempre oggetto di negoziazione tra quelle che sono le tre principali categorie di stakeholders e cioè:

- la proprietà e gli amministratori da essa espressi, che tenderanno a preservare le proprie posizioni, evitando di sacrificarle all’ingresso di nuovi azionisti56 che dovessero farsi strada

nella compagine societaria (anche col ruolo di “cavalieri bianchi”) e/o managers;

- i creditori, ed in modo particolare le banche, il cui potere nei confronti dell’azienda è massimo nella fase della crisi e del suo superamento, tanto che “l’appoggio dei creditori al management è indispensabile in quasi tutti i casi”57. Per ottenerlo, arginando in questo

modo pressioni tendenti alla restituzione immediata dei prestiti, è importante avviare un dialogo il più possibile trasparente e ed orientato alla collaborazione, tenendo ben presenti le motivazioni dei banchieri, i quali talvolta hanno il potere di intervenire anche direttamente nella gestione per effetto delle garanzie di cui sono muniti. I creditori vanno tenuti costantemente aggiornati sugli obiettivi del turnaoround, sui percorsi definiti in vista del loro raggiungimento, sui risultati già ottenuti e quelli ai quali ancora occorre lavorare. - il personale, risorsa sempre critica, e soggetta a pesanti contraccolpi, in termini di

motivazione, nei momenti di cambiamento e di incertezza sul futuro e dunque anche nelle situazioni di turnaround, specie quando esso è originato da una situazione di crisi che renda necessaria o opportuna la contrazione dell’organico. In quest’ultimo caso (peraltro assai frequente), si diffonde in azienda un clima di timore ed ansia, e tali tensioni coinvolgono non solo le persone che saranno effettivamente interessate dai “tagli” ma, frequentemente, l’intera organizzazione. La produttività e, soprattutto, la creatività e la

56 Sul piano empirico si osserva che all’ingresso di un “cavaliere bianco”, o anche la conversione di crediti in capitale da parte delle banche e/o latri creditori, consegue molto spesso un avvicendamento nella proprietà, anche perché al capitale economico di aziende dissestate (e quasi sempre pesantemente indebitate) viene generalmente attribuito un valore dell’equity contenuto.

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proattività del personale ne risentono fortemente, con la conseguenza di innescare processi di esodo che interessano soprattutto le risorse high skilled, col rischio di privare l’azienda proprio di quei talenti indispensabili al suo rilancio58. In queste circostanze, diventa decisiva

la capacità del management di coinvolgere il personale nelle strategie di cambiamento, attraverso una comunicazione adeguata che presenti il programma del turnaround e rassicuri – per quanto possibile – il personale ed il sindacato.

Altro aspetto determinante per il successo del turnaround è la gestione della leadership, la quale in una prima fase deve essere protesa a “scongelare” i comportamenti ed i valori tradizionali, ed in un secondo momento deve far subentrare ai vecchio valori la visione del cambiamento e della rinnovata mission aziendale, ed in una terza fase deve consolidare i nuovi modelli di comportamento organizzativo.

Promuovere il cambiamento attraverso la leadership è più difficile quando il turnaround non è originato da crisi, perché, laddove crisi non c’è “developing a change vision, and motivating people is difficult; it is not easy to change something is apparently still working” 59.

Nei momenti di crisi, il ruolo del leader è determinante. Frequentemente, nell’esperienza, si osserva l’accentramento del potere in un’unica figura carismatica di riferimento, dotata di credibilità e di riconosciuta esperienza nella gestione di situazioni critiche, che assurge al simbolo del new deal aziendale: è quanto è accaduto, ad esempio nel più importante turnaround italiano degli ultimi anni, quello della Parmalat.

Altro aspetto estremamente delicato nella gestione di un processo di turnaround è quello culturale. La cultura, in quanto trama impalpabile (“cultural web”) che pervade l’azienda, può rappresentare tanto un ostacolo, una resistenza al cambiamento, quanto una leva per la sua promozione e diffusione. Il turnaround può infatti rappresentare una causa di disgregazione del tessuto organizzativo, rendendo precarie relazioni e valori consolidati dall’esperienza. Le risorse umane

58 Breiter, ibidem

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possono reagire con un irrigidimento ostile che può certamente ostacolare l’avanzare del “nuovo”. Tuttavia, attraverso un uso oculato delle leve della comunicazione e del marketing interno, la cultura può diventare un elemento aggregante dell’azienda e contribuire a creare un rinnovato senso di comunità, orientando e motivando la compagine organizzativa verso la rinnovata mission. La cultura rappresenta comunque un elemento da manipolare con attenzione nel turnaround, poiché “if major changes are to be effected, then cultures must be changed”60, e la frizione tra

esperienza e cambiamento può rallentare, fino, in casi estremi, a paralizzarlo, l’avanzare del “nuovo”.

60 Hendry, J, Hope, V., “Cultural change and competitive performance”, European Management Journal, 12, 4 December 1994

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