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L’analisi della sostenibilità industriale e finanziaria del turnaround

Nel documento Banche, crisi aziendale e turnaround (pagine 96-111)

L A VALUTAZIONE DELLA SOSTENIBILITÀ DEL TURNAORUND

III.2 L’analisi della sostenibilità industriale e finanziaria del turnaround

Se generalmente, in una condizione declinante che non sconfina della crisi, un rilancio dell’azienda è sempre auspicabile (a meno che il mercato di riferimento non lasci presagire scarse o nulle prospettive di ritorno alla redditività), quando un’azienda è in una acclarata situazione di crisi la decisione sul percorso da intraprendere prevede sempre che, in via preliminare, le possibili alternative vengano esaminate onde verificare se, alla luce di una analisi di scenario, sussista l’opportunità economica di intraprendere un percorso di rilancio certamente lungo ed oneroso, a fronte dell’opzione di uscire definitivamente dal mercato (cosiddetta opzione di abbandono), o a fronte dell’opzione intermedia di dimettere o cedere alcune ASA, focalizzando energie e competenze sulle ASA giudicate più promettenti. Accanto a queste opzioni, rimane quella di alienare la proprietà dell’intera azienda, permettendone così la continuazione da parte di un soggetto che ha maggiori possibilità di successo, vuoi per superiori competenze, vuoi per più larghe disponibilità finanziarie.

Questo tipo di valutazione dipende anche dall’analisi del contesto, ed in particolare dalle caratteristiche del sistema-Paese cui l’azienda appartiene, dagli “appigli” che esso offre all’azienda in situazioni critiche, e dal sostegno più o meno grande che lo Stato è disposto ad offrire all’impresa la cui sopravvivenza è a rischio, in vista della conservazione del valore sociale della stessa. E, su questo piano, possono osservarsi situazioni assai variegate.

Negli Stati Uniti, i casi di crisi si sono moltiplicati a partire dalle prime, aggressive operazioni di leveraged buy-out, che, modificando profondamente la struttura finanziaria delle aziende innalzandone il grado di indebitamento, ne hanno accresciuto la rischiosità. A

questo fenomeno si è sommata una caratteristica strutturale del capitalismo statunitense, fondato sul modello della Public Company, che prevede, come noto, azionariato diffuso con connessa ampia delega al management. La nota, diffusa tendenza dei managers a perseguire obiettivi immediati più che risultati di ampio respiro (all’origine della teoria dei costi di agenzia), determina frequentemente situazioni di miopia gestionale che possono degenerare, nel medio-lungo periodo e spesso in modo inatteso, nella inadeguatezza strategica dell’azienda61.

Il progressivo diffondersi dei fenomeni di crisi ha innescato, negli U.S.A., energici meccanismi di reazione, sia operativi che culturali, secondo la consueta capacità reattiva del Paese. Ed infatti è proprio negli Stati Uniti che il turnaround trova le sue origini, anche terminologiche. Si delineano e si consolidano tecniche manageriali di gestione delle crisi, basate sull’esperienza, si formano figure professionali (managers e consulenti) specializzate e forme di intervento specifiche da parte delle istituzioni finanziarie (ad esempio con la formazione di mercati specificamente dedicati ai crediti pre-deducibili originati dalle procedure giudiziarie, o di fondi di investimento specializzati in aziende in situazioni critiche). Sul piano giuridico, da un lato mentre si perfezionano i meccanismi delle vie privatistiche di risoluzione delle crisi, e dall’altro si lavora alla introduzione di una innovativa procedura esplicitamente destinata alla conservazione dell’impresa anche dopo il dissesto: la ben nota Corporate Reorganization, contenuta nel Chapter 11 del Bankruptcy Reform Act del 1978. Di seguito sintetizziamo i principali aspetti della procedura contenuta nel Chapter 11, cui negli USA si è fatto e si fa ampio ricorso:

61 Come opportunamente osserva il Guatri, in un’ottica di lungo periodo i risultati positivi (in termini di efficienza, posizione competitiva, redditività, capacità di generare flussi di cassa), anche quando appaiono saldamente raggiunti, vanno sempre controllati e confermati. È inoltre necessario che il management crei le condizioni affinché essi possano ripetersi nel futuro, tenendo conto del modificarsi di eventi e di circostanze sia interni che esterni. Gli equilibri, anche quelli che appaiono solidi, sono da considerarsi comunque precari, e l’azienda deve costantemente misurarsi con l’esigenza di adattarsi al mutare dell’ambiente esterno e dell’ambiente competitivo in particolare, e verificare costantemente l’assenza di situazioni interne di deterioramento che possono innescare percorsi declinanti, fino alla crisi. Guatri L., “Turnaround – Declino, crisi e ritorno al valore”, Egea 1995.

- la società in Chapter 11 giova della sospensione delle azioni legali intentate dai creditori;

- il management ha il diritto esclusivo di proporre un piano di ristrutturazione entro 120 giorni, cui eventualmente possono aggiungersi proroghe;

- il piano deve essere accettato entro 180 giorni, decorsi i quali ciascun creditore può presentare un proprio piano di ristrutturazione;

- i crediti vengono suddivisi in classi di privilegio;

- vige la regola della “absolute priority” (priorità assoluta): i crediti superiori di grado devono essere completamente rimborsati prima che possa procedersi a rimborsare un credito di classe inferiore (nella pratica questa regola risulta essere però frequentemente disattesa);

- per essere accettato il piano di ristrutturazione deve essere accettato da almeno la metà dei creditori che rappresentino almeno i 2/3 dei diritti vantati dalla propria classe;

- i creditori sono incentivati ad accettare il piano onde ridurre tempi e costi della crisi. Meno favorevole alla sopravvivenza dell’impresa in dissesto è l’ordinamento della Gran Bretagna, molto più orientato a difendere le ragioni dei creditori che a salvaguardare il valore sociale dell’impresa. Le procedure concorsuali inglesi, inoltre, affondano le loro radici in una tradizione secolare alquanto conservatrice e “reazionaria”, e non certo propensa a “spianare la strada” all’imprenditore insolvente.

Germania e Giappone presentano alcuni punti in comune al riguardo. In entrambi i Paesi, a giocare un ruolo determinante quando l’azienda attraversa una situazione di crisi è la Banca principale (la cosiddetta Haus Bank tedesca), la banca di riferimento dell’azienda, che ne segue le sorti, e, nel caso di una crisi, supporta finanziariamente l’azienda e si attiva nella

ricerca della soluzione migliore per il salvataggio, anche coinvolgendo altre società e/o sollecitando l’intervento pubblico. In questi due sistemi, la banca supporta l’azienda fino al punto di condividerne le sorti, nell’ottica di favorirne la conservazione (ed anche di trarre beneficio da essa), avendo cura di salvaguardare quanto c’è di valido nell’azienda e di evitare che altri subiscano nocumento. Importante viene considerata la salvaguardia dell’immagine e della credibilità, sia dell’azienda e di chi vi opera che della banca che la supporta.

Nei Paesi latini le situazioni sono variegate. La Francia, sul piano dell’intervento pubblico, si caratterizza per aver introdotto, nel 1985 una procedura innovativa per l’epoca, il Redressement judiciaire. La normativa relativa a questo istituto giuridico è stata peraltro modificata ed integrata, prima nel 1994 e poi in tempi assai recenti (nel 2005), alla luce dei risultati - poco incoraggianti – precedentemente ottenuti. Il Redressement judiciaire si caratterizza per la previsione di un “periodo di osservazione” (dedicato all’esame della possibilità di risanamento ed alla conseguente eventuale formazione di un Piano), propedeutico alla scelta tra continuazione dell’attività e abbandono/liquidazione. Questa procedura prevede l’intervento di esperti in crisi d’azienda (experts en diagnostic d’enterprise), con la possibilità anche immediata di location-gérance. Al termine del periodo di osservazione, che si svolge sotto l’egida del tribunale e dura da un minimo di 4 ad un massimo di 18 mesi, la procedura può concludersi con:

- il rilancio in situazione di continuità dell’assetto proprietario; - il rilancio attraverso la cessione;

- la liquidazione giudiziaria, con la vendita dell’attivo ed il rimborso dei creditori secondo l’ordine previsto dalla legge.

In Italia prevale largamente l’intervento privatistico (soprattutto a partire dagli anni ’90), secondo modalità che vedono quasi sempre le banche creditrici svolgere un ruolo di primo piano (sia con coinvolgimento diretto che nella ricerca di eventuali nuovi partners), come avremo modo di osservare nello svolgimento del presente lavoro. Ciò in quanto la disciplina dell’intervento pubblico nella risoluzione delle crisi è tradizionalmente stata molto farraginosa, essendo rimasta per molti decenni ferma a quanto contenuto nel Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267. Solo in tempi recentissimi la normativa delle procedure concorsuali è stata riformata, attraverso il Decreto Legislativo 14 marzo 2005, n. 35 (convertito nella Legge 14 maggio 2005, n. 80), ed il Decreto Legislativo 9 gennaio 2006, n. 5.

Nel riformare la Legge Fallimentare, il Legislatore italiano ha perseguito tre finalità di fondo:

- facilitare l’accesso alle procedure concorsuali e renderle più celeri;

- incoraggiare soluzioni concordate per il superamento delle situazioni di crisi, assicurando la protezione delle stesse dalla revocatoria;

- favorire, per quanto possibile, la continuazione dell’attività.

La normativa si basa sulla distinzione tra lo “stato di crisi”, caratterizzato da una temporanea difficoltà ad adempiere, e l’insolvenza, definita come incapacità di adempiere regolarmente agli impegni assunti, che comporti una situazione perdurante nel tempo. Le soluzioni previste dalla nuova disciplina sono raggruppabili in due categorie:

- stragiudiziali (accordo di ristrutturazione e piano di risanamento);

- giudiziali (procedure concorsuali, tra le quali il nuovo concordato preventivo).

La principale novità introdotta riguardo alle soluzioni stragiudiziali è la espressa esenzione dalla revocatoria fallimentare per gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in

esecuzione degli Accordi di ristrutturazione del debito e del Piano di risanamento in conformità alle disposizioni della Legge Fallimentare.

L’Accordo di ristrutturazione dei Debiti, ex art. 182 bis Legge Fallimentare è un “Accordo plurilaterale con comunione di scopo”, stipulato tra il debitore (l’azienda in crisi o insolvente) e suoi creditori, in numero tale da rappresentare almeno il 60% del totale dei crediti (sia chirografari che privilegiati), che sia stato omologato dal Tribunale. In dottrina vi sono tesi contrastanti in merito alla possibilità di accesso a tali accordi da parte del piccolo imprenditore. Non sono prescritti, per l’accesso all’Accordo, requisiti di meritevolezza (ad esempio: tenuta di regolare contabilità, inesistenza di condanna per alcune tipologie di reati). L’Accordo di ristrutturazione deve essere depositato presso il Tribunale e pubblicato nel Registro delle Imprese, in modo da dare allo stesso pubblicità e consentire non solo ai creditori ma a chiunque ne abbia interesse di proporre opposizione, entro 30 giorni dalla pubblicazione. Spetterà poi al Tribunale, tenuto conto delle eventuali opposizioni, procedere all’omologazione con decreto motivato. Contro tale decreto, è ancora possibile proporre appello, entro 15 giorni dalla pubblicazione nel Registro delle Imprese. L’Accordo di ristrutturazione depositato deve essere corredato da una relazione redatta da un esperto sulla attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità da assicurare il pagamento dei creditori estranei. Deve inoltre essere presentata la seguente documentazione:

- una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;

- uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;

- l’indicazione del valore dei beni ed i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili.

L’omologazione, cui consegue l’esenzione dalla revocatoria con effetto retroattivo fino al momento della pubblicazione dell’Accordo sul Registro delle Imprese, serve ad attestare l’avvenuta prestazione del consenso da parte dei creditori aderenti, l’effettivo raggiungimento della percentuale minima di crediti e l’idoneità dell’accordo ad assicurare il pagamento dei creditori estranei.

L’Accordo viene generalmente inteso come finalizzato alla prosecuzione dell’attività dell’impresa ma, in assenza di una precisazione normativa, una parte della dottrina sostiene che esso possa anche essere orientato alla liquidazione del patrimonio aziendale.

Diverso discorso vale per il Piano di Risanamento, il quale è esplicitamente teso a risanare l’impresa, ossia riportarla all’equilibrio finanziario attraverso la riduzione dell’esposizione debitoria. Il Piano di risanamento deve essere corredato dalla relazione di un esperto indipendente, prescinde da un accordo con i creditori e può essere anche predisposto unilateralmente dall’imprenditore. Esso non va omologato e non è soggetto alla pubblicazione nel Registro delle Imprese, ma tuttavia gode del beneficio della esenzione da revocatoria. Una importante funzione di “garanzia” viene svolta dalla relazione dell’esperto (revisore contabile o società di revisione iscritta nell’apposito Registro del Ministero della Giustizia), la quale deve attestare la ragionevolezza della previsione delle risorse finanziarie destinate al soddisfacimento delle obbligazioni e la capacità dell’azienda di generare risorse in misura adeguata all’entità dei debiti ed alle loro scadenze. Alla normativa del Piano di ristrutturazione viene contestata, nella dottrina giuridica, l’eccessiva vaghezza del criterio di idoneità e la mancanza di una procedura omologatoria capace di conferire adeguata pubblicità al piano.

La principale innovazione introdotta dalla riforma consiste nella nuova disciplina del Concordato Preventivo, secondo la quale il debitore che versi in uno “stato di crisi” può proporre ai suoi creditori un concordato preventivo basato su un “piano di ristrutturazione”. È ammessa la suddivisione dei creditori in classi, secondo la posizione giuridica ed interessi economici omogenei, ed è consentito un trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse. Non è più richiesta la “meritevolezza” dell’imprenditore, ed il presupposto è che egli versi in uno “stato di crisi”; resta fermo l’obbligo di soddisfare integralmente i creditori privilegiati, mentre è soppressa la previsione di una percentuale minima di soddisfazione dei creditori chirografari. Il piano deve contenere l’indicazione delle modalità di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei creditori, e soprattutto l’attribuzione dell’attività dell’impresa ad un soggetto “assuntore” (eventualmente costituito dai creditori o da società le cui azioni sono destinate ad essere attribuite ai creditori). La domanda di ammissione al Concordato Preventivo deve contenere la medesima documentazione sopra indicata per l’accordo di Ristrutturazione, cui deve aggiungersi dalla relazione di un professionista avente i requisiti previsti per la nomina a curatore (cfr. art. 28 l. fall.), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo. Il professionista deve essere “indipendente”, ossia non deve avere già esercitato la propria attività professionale nei confronti dell’imprenditore o comunque non aver avuto ingerenza nella gestione dell’impresa nei due anni anteriori all’apertura della procedura.

Il Tribunale, verificata la completezza e la regolarità della documentazione, dichiara aperta la procedura, limitandosi ad un mero controllo formale, salvo il caso della previsione di diverse classi di creditori. In quest’ultimo caso, il tribunale dovrà valutare la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi adottati dal debitore.

Nel contesto di una procedura largamente ispirata all’accordo negoziato tra debitore e creditori, il controllo dell’autorità giudiziaria è notevolmente ridotto e relegato a profili di mera legittimità. Al di fuori della delibazione sui criteri di formazione delle classi, tale controllo non investe il merito della proposta di concordato.

In altri termini, lo scopo del Legislatore sembra essere quello di ridurre l’intervento del giudice, nell’ottica di uno schema negoziale di risoluzione della situazione di crisi che necessita dell’intervento di un organo imparziale e super partes, le cui funzioni sono limitate al minimo per rendere la procedura massimamente flessibile e rapida.

Viene paventato, tuttavia, il rischio che l’unica garanzia della serietà della proposta sia fornita dalla relazione del professionista, che deve attestare la fattibilità del piano e la veridicità dei dati aziendali (e che non è oggetto di controllo da parte del giudice in sede di

ammissione alla procedura). Anche escludendo l’ipotesi di eventuali collusioni tra l’imprenditore ed il professionista (il

quale potrebbe essere indotto a fornire una rappresentazione non fedele e veritiera della situazione economico-patrimoniale e finanziaria della società), vanno sottolineati i possibili effetti deleteri derivanti dal ritardo nella dichiarazione di fallimento nei casi in cui la proposta di concordato dovesse rivelarsi palesemente infondata.

Tale circostanza appare ancor più grave se si considera, da un lato, che il debitore non è più tenuto, come in passato, alla indicazione delle cause dell’insolvenza e dei motivi posti a fondamento della domanda di concordato e, dall’altro, che ai creditori non sono più garantiti minimi legali di soddisfazione (previsti, in passato, nel 40% del valore dei crediti). Una diffusa critica alla nuova Legge Fallimentare rileva come le nuove previsioni siano state inserite nel tessuto della vecchia legge fallimentare, con conseguenti notevoli problemi interpretativi e di coordinamento.

Nel complesso, tuttavia, dalla recente disciplina legislativa sembra emergere una maggiore facilità di accesso alla procedura ed una complessiva accelerazione della stessa, in linea con l’intento di adeguare un impianto normativo ormai palesemente obsoleto alla rapidità dei ritmi dell’economia contemporanea62.

Al di là degli aspetti giuridici, connessi al supporto che lo Stato, sotto diverse forme, offre all’azienda in crisi, la decisione se proseguire l’attività o, al contrario, smembrare il patrimonio aziendale, richiede, specie per le aziende più piccole (per le quali l’impatto sociale della chiusura è limitato), una serie di valutazioni di opportunità e convenienza di natura squisitamente economica.

In generale, la prima delle valutazioni che vengono compiute in quest’ottica discende direttamente dall’analisi delle cause della crisi.

Quando, come frequentemente accade, la crisi sia stata scatenata da una forte contrazione del giro d’affari, occorre valutare l’andamento complessivo del mercato e le performance dei competitors considerati eccellenti e/o assunti come benchmark, onde comprendere cosa si sta verificando nel contesto di riferimento.

Se i benchmark conservano performance positive o comunque nettamente superiori a quelle dell’azienda, ed il mercato nel suo complesso è in una situazione di stabilità o addirittura di crescita, allora è evidente che la crisi deriva dalla inadeguatezza competitiva dell’azienda, vuoi per il prezzo, vuoi per la qualità intrinseca dei prodotti i servizi, vuoi perché i concorrenti sono riusciti ad alterare, a loro vantaggio, le regole consolidate del confronto competitivo spingendo sull’acceleratore dell’innovazione. Ciascuna delle

62 Gismondi R., “La nuova disciplina del concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Dircom.it, n.4 2005; Pau, F. “Concordato fallimentare, chiarimenti sulla ristrutturazione dei debiti”, ItaliaOggi, 29 maggio 2006; atti del convegno dello studio Camozzi & Bonissoni dal titolo “Gli strumenti per la composizione negoziale delle imprese in crisi” svoltosi a Milano il 20 ottobre 2006.

possibili cause di una situazione di declino dell’azienda nell’agone di riferimento richiede specifici interventi risolutivi. L’esigenza di migliorare la qualità o di innovare può trovare soluzione nell’ingresso di nuove risorse umane adeguate ai nuovi obiettivi, ovvero in investimenti in beni materiali (impianti più performanti, ad esempio) o immateriali (comunicazione, R&D etc.). Ciascuna di queste soluzioni richiede naturalmente che venga sostenuto il relativo onere, il che l’azienda può non essere in grado di fare, specie in una situazione di tensione finanziaria e di scarsità di risorse. Se il mercato ha complessivamente prospettive interessanti e l’azienda non è così dissestata da presentare un valore economico del capitale negativo anche nella prospettiva del turnaorund, essa potrebbe comunque trovare con relativa facilità i mezzi di cui abbisogna per il proprio rilancio, anche se questo, come già abbiamo accennato, potrebbe comportare un avvicendamento nella proprietà. Di altro ordine sono le riflessioni da farsi qualora l’intero comparto di appartenenza dell’azienda sia interessato da una situazione di perdurante declino, o addirittura sia minacciato di “estinzione”; in questo caso è più probabile che la scelta economicamente migliore consista nell’abbandonare il mercato e liquidare l’attivo. Ciò a meno che l’azienda non abbia – o sia in grado di reperire – risorse tali da riconvertirsi senza eccessive frizioni, ovvero da rilanciare il proprio mercato attraverso l’innovazione, o ancora di ritagliarsi una nicchia di mercato profittevole pur nel quadro di un contesto declinante.

In altri casi, le crisi sono determinate da situazioni di inefficienza produttiva le quali, pur in presenza di un valido posizionamento di mercato, precludono all’azienda la possibilità di generare valore in misura da ripagare adeguatamente tutti i fattori impiegati nell’attività. Questo tipo di crisi, se il mercato è comunque stabile e promettente per il futuro, sono generalmente tra quelle di più agevole soluzione, poiché rimangono confinate nell’ambito di quei fattori “interni” che sono più agevolmente controllabili dal management rispetto alle

variabili esterne che sono spesso fuori del raggio d’azione della direzione aziendale. Ciò sempreché la concorrenza non abbia raggiunto livelli di efficienza difficili da emulare, o uguagliabili in presenza di investimenti non giustificabili alla luce delle prospettive di rendimento.

In alcuni casi, come – recentemente – nel mercato bancario, l’azienda può sperimentare un problema di “inefficienza relativa”, ovvero di inefficienza rispetto ai concorrenti o alla maggior parte di essi in presenza di una situazione di concentrazione del mercato (attraverso aggregazioni) dalla quale essa rimanga anche temporaneamente esclusa. Ciò in quanto attraverso le aggregazioni i competitors riescono a raggiungere delle soglie critiche di operatività che sono precluse all’azienda stand alone, con la possibilità di sfruttare

Nel documento Banche, crisi aziendale e turnaround (pagine 96-111)