• Non ci sono risultati.

taglio degli investimenti, con la evidente motivazione di evitare di assoggettare l’azienda ad ulteriori pressioni; molto spesso allentare le politiche di investimento

Nel documento Banche, crisi aziendale e turnaround (pagine 32-39)

Grafico 1: MATRICE DEL LIVELLO DI GRAVITÀ DELLO STATO DI CRIS

I.4 La prevenzione e la diagnosi della cris

11. taglio degli investimenti, con la evidente motivazione di evitare di assoggettare l’azienda ad ulteriori pressioni; molto spesso allentare le politiche di investimento

riflette anche il sentimento di sfiducia che si diffonde facilmente nell’azienda declinante.

Questi sintomi di squilibrio di carattere quantitativo, ossia misurabile, sono talvolta riscontrabili “ad occhio nudo” nella lettura dei bilanci ovvero dei dati della contabilità interna (“gestionale”). Tuttavia essi assumono un significato più evidente ed immediato quando vengono elaborati e sintetizzati nell’analisi per indici e per flussi, della quale si parlerà più diffusamente nel capitolo II, al quale si rimanda. Attraverso il calcolo di ratios e flussi, diventano immediatamente visibili informazioni critiche sulla performance economico-finanziaria dell’azienda (a titolo esemplificativo: redditività del capitale investito, del capitale netto, delle vendite, livello di equilibrio della struttura patrimoniale e finanziaria, capacità di generazione di cash flow eccetera). Queste informazioni, valutate sia in senso assoluto che in chiave tendenziale (attraverso un confronto intertemporale tra gli stessi indicatori in tempi diversi) ed in chiave

comparativa (rispetto ad indicatori analoghi calcolati per aziende concorrenti) forniscono un primo importante “quadro clinico” dello stato complessivo di salute dell’azienda.

Va osservato come gli squilibri quantitativi rappresentano l’effetto finale di quegli squilibri che abbiamo qualificato come qualitativi, che si manifestano per primi, configurandosi come le cause di un decadimento che attiene all’economia stessa dell’impresa e che solo in un momento successivo i “numeri” riescono a “catturare” e quindi misurare.

Più proficuo che correggere le situazioni di crisi è, naturalmente, prevenirle, evitando che l’azienda imbocchi percorsi declinanti, ovvero che situazioni di incoerenza si cronicizzino, minando lo stato di salute complessivo dell’azienda. Con l’aumento della instabilità ambientale, dei livelli di complessità delle imprese conseguenti alle tendenze alla globalizzazione, della velocità dell’economia (con il conseguente abbreviarsi dei cicli) è aumentato il rischio che le aziende corrono di restare travolte da processi degenerativi non corretti sul nascere o comunque tempestivamente.

È in quest’ottica che un approccio basato su analisi ed interventi “ex-post” si rivela insufficiente, mentre si palesa l’opportunità di un approccio più ampio, all’interno del quale trovino un adeguato spazio anche analisi ed interventi “ex-ante”, tali da prevenire l’insorgenza della crisi, allontanando o riducendo il rischio che la crisi stessa si manifesti.

Gli strumenti di prevenzione delle crisi aziendali sono legati, innanzitutto, all’esistenza di un valido sistema di controllo di gestione, che permetta:

a) in fase programmatica di analizzare l’ambiente e il settore al fine di definire obiettivi e strategie coerenti e compatibili con i dati previsionali sugli andamenti delle variabili interne ed esterne;

b) in fase di implementazione, di verificare progressivamente se i risultati conseguiti sono in linea con i piani e di controllare se le variabili esterne poste a base della pianificazione si stanno evolvendo secondo quanto previsto o in modo difforme.

Il sistema di controllo di gestione deve essere congegnato in modo da avere un grado di dettaglio sufficiente a rintracciare non solo le disfunzioni (differenze negative tra risultati ed obiettivi) ma anche le cause che tali disfunzioni hanno originato, nonché le aree funzionali in cui esse si sono prodotte. Va da sé che un sistema di controllo di gestione che possa considerarsi adeguato debba presentare un grado di complessità che è funzione diretta della complessità dell’azienda e dei suoi processi.

È sempre necessaria una struttura tecnico-contabile non limitata ai tradizionali strumenti della contabilità generale ma impostata su un sistema di contabilità analitica di costo ( e ricavo), che permetta di evidenziare attribuzioni di spesa pervenendo a rilevare risultati riferibili a famiglie di prodotti, a centri di responsabilità, aree strategiche d’affari, funzioni etc., in stretta connessione con la configurazione organizzativa di cui l’azienda si è dotata. Al sistema di controllo di gestione è, nei casi più evoluti, un Crisis Management Plan (CMP), di ideazione anglo-sassone. Un Crisis Management Plan è uno strumento sistematico di prevenzione delle crisi e di gestione delle prime manifestazioni di un fenomeno di declino. Esso può essere più o meno dettagliato: può arrivare a stabilire cosa debba fare la singola persona di fronte a ciascuna circostanza critica, ovvero <<stabilire le principali aree di responsabilità e quali cambiamenti nelle strutture e nelle procedure

debbano aver luogo in presenza di situazioni di crisi21>>. Generalmente il CMP viene

adottato soltanto da imprese di dimensioni grandi o medio-grandi, e quasi sempre esso si riferisce a criticità di natura interna, essendo più difficilmente applicabile alle anomalie di natura esterna, per loro natura più variegate e difficilmente “catalogabili” a priori. Il CMP ha trovato ampia diffusione negli USA e in Gran Bretagna, in misura minore esso è stato adottato nell’Europa continentale. Questo a causa di fattori di natura eminentemente culturale.

Vale la pena, in questa sede, di citare un modello sintetico per la valutazione dello stato di salute di un’azienda, lo “Zeta – Score” di E.I. Altman, risalente al 1968, e che può considerarsi il capostipite dei modelli per la previsione dell’insolvenza22. Il modello si fonda

su una funzione di cinque variabili, ciascuna misurata con un opportuno peso. La funzione è la seguente:

Z=1,2X1+1,4X2+3,3X3+0,6X4+0,99X5

Dove:

Z = indice generale dello stato di salute dell’azienda; X1 = capitale circolante diviso per il totale delle attività

X2 = utile non distribuito diviso per il totale delle attività

X3 = utile prima degli oneri finanziari e delle imposte diviso per il totale delle attività

X4 = valore di mercato del capitale diviso per il valore totale delle passività

X5 = vendite divise per il totale delle attività.

La prima applicazione del modello da parte di Altman, riferita a 33 aziende sane e a 33 aziende in difficoltà, dimostrò che tutte le aziende con un punteggio inferiore a 1,8 erano da considerare ad alto rischio di insolenza (ed in effetti si dimostrarono poi in gran parte

21 S.A. Booth, “Crisis Management Strategy”, Routledge, Londra e New York, 1993.

22 E.I. Altman, “I modelli di previsione delle insolvenze: loro applicazioni alla gestione d’impresa”, in “Finanza, Marketing e Produzione” n. 4, 1985.

insolventi); quelle con un punteggio superiore a 3 erano in perfetta salute, e quelle con un punteggio compreso nel range 1,8-3 erano in una situazione ambigua, dagli sviluppi incerti. In generale, nel modello descritto, ad un più alto punteggio corrisponde un migliore stato di salute dell’azienda.

I moderni studi di management accounting individuano sofisticate metodologie di analisi quantitativa aziendale a supporto dei processi gestionali, stante l’insufficienza degli strumenti tradizionali, che sono prevalentemente orientati al passato e non permeabili ai segnali di variabilità ambientale (activity based costing, benchmarking etc.).

Le informazioni fornite dal sistema devono essere non solo attendibili e sufficientemente articolate, ma anche, come detto, sufficientemente tempestive da permettere di organizzare ed eseguire interventi correttivi prima che la situazione aziendale degeneri.

Al di là degli strumenti quantitativi di monitoraggio dell’andamento aziendale, occorre che l’azienda stessa, nella sua struttura e nella sua operatività, presenti alcune caratteristiche che possano arginare i rischi di incorrere in situazioni critiche, ovvero agevolarne una rapida soluzione. In quest’ottica, sarebbe auspicabile che, pur nel limiti consentito dalla rigidità insita nella struttura stessa dell’impresa, l’azienda presentasse la capacità di reagire rapidamente al cambiamento innescato da mutamenti (sfavorevoli) nelle condizioni ambientali e di mercato23, essendo dotata di un buon grado di flessibilità.

Numerosi possono essere i fattori di rigidità all’interno dell’impresa; tra i più comuni l’elevato grado di indebitamento (che rende difficile sollecitare il sistema creditizio a finanziare interventi correttivi imprevisti), una struttura dei costi caratterizzata dalla prevalenza delle componenti fisse su quelle variabili, una struttura organizzativa pesante,

contratti di fornitura rigidi ed impegnativi per lunghi periodi e via di seguito. Tali fattori frequentemente limitano la capacità dell’azienda di opporsi ai processi degenerativi. In pratica, la crisi si produce come risultato della frizione tra l’eterno dinamismo delle variabili esterne e la prevalente tendenza alla rigidità del sistema aziendale.

L’esempio più frequente di tale fattispecie si rinviene nelle situazioni in cui, di fronte ad una contrazione della domanda, l’azienda non è in grado di adeguare tempestivamente la propria struttura produttiva e di costo, rimanendo intrappolata in una condizione di sovracapità che, nel lungo andare, ne contrae la redditività fino al punto da generare perdite.

I fattori di rigidità più tipici sono:

a) la proprietà degli immobili e degli impianti, in luogo della loro acquisizione con contatti di locazione (anche finanziaria);

b) le scelte di internalizzazione di fasi del processo produttivo in luogo dell’outsourcing;

c) l’assunzione di personale a tempo indeterminato in luogo del ricorso a contratti temporanei;

d) il ricorso a contratti di fornitura di lunga durata in luogo di soluzioni a carattere “occasionale” o comunque di durata limitata.

Va detto che le soluzioni di tipo “rigido”, le prime delle dicotomie enunciate, sono caratterizzate da costi più contenuti delle seconde, per cui esiste un trade-off tra economicità “immediata” e flessibilità, che è importante gestire con attenzione. In altri termini, la flessibilità è un’arma competitiva che ha certamente la sua onerosità, che in genere non ha molta ragione di essere sostenuta quando l’azienda abbia uno “zoccolo duro” di operatività non ciclica, ed almeno con riferimento ad essa.

Sul piano finanziario, le considerazioni sulla flessibilità sono piuttosto immediate, poiché l’azienda è tanto più flessibile quanto meno è dipendente finanziariamente da terzi, ovvero quanto più è patrimonialmente solida: questa condizione le permette, infatti, la massima autonomia decisionale possibile, oltre a consentire un agevole ricorso al credito ove le necessità lo suggerissero.

Nel documento Banche, crisi aziendale e turnaround (pagine 32-39)