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LA CONDIVISIONE COME NUOVA FORMA DELL’ABITARE LE RESIDENZE PER STUDENTI UNIVERSITAR

Adolfo F. L. Baratta

Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Architettura

Fabrizio Finucci

Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Architettura

Luca Montuori

Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Architettura

Parole chiave

Condivisione, Forme dell’abitare, Servizi di supporto, Spazi di socializzazione, Residenze per studenti universitari

Abstract

Admitting the scenario is strongly heterogeneous, sometimes even inconsistent, the argument of sharing is undoubtedly one of the most exciting and current topic of research and planning, especially when interpreted in relation to those transformations that have been induced on the ways of living the urban space by the new life conditions.

The evolution of meaning which some of the classic dialectical pairs, such as transitory-permanence and public-private have gone through represents the basis of a conceptual reflection on the horizon of the field of study that deals with the ways of residing.

No longer an emergency response, but a statement of a transition phase (even economic) that requires a transformation of the paradigms, on which large part of the modern theories is based.

This is what emerges from the Department of Architecture of the University of Roma Tre’s ongoing research, conducted with a multidisciplinary approach and with the involvement of different disciplines’ scholars: the research moves forward theoretical and practical considerations that focus on the collective way of residing, paying particular attention to the issue of sharing through enhanced translation of the concept.

In this sense, the residence of academic students, even for the exact needs of the users and for its specific social character, represents one of the most suitable types to the experimentation design. A scholar’s residential function, in fact, tends to express itself through a lifestyle that requires the coexistence of private and shared spaces too, according to a program based on “collective spheres of carrying out common socializing activities in which different levels of appropriation and use of space may be present, both by small and larger groups”(Annex A to Ministerial Decree 27/2011, paragraph 6.3). University residences built in recent years, particularly the most virtuous ones, show that the quality of the student’s life depends mainly on the type and nature of the shared places or the complementary activities and support services, not only within the residential structure but also in relationship with the city.

The paper, after providing an update of the ongoing research, analyses case studies in which the theme of sharing is, as well as qualifying for the students, a significant element of the project.

Premessa

Secondo la definizione comune, condividere vuol dire “dividere, spartire con altri” [Treccani 2016]: si riferisce quindi all’uso congiunto o alternato di un bene o di un servizio. Il termine condividere, in inglese share, viene oggi utilizzato indifferentemente in molti settori diversi.

Anche se lo scenario è fortemente eterogeneo, a tratti persino incoerente, il tema della condivisione rappresenta certamente uno dei più stimolanti e attuali ambiti di investigazione e progettazione, in particolare se interpretato in relazione alle trasformazioni che le nuove forme di vita hanno indotto sui modi di abitare lo spazio delle città. L’evoluzione di significato che hanno subito alcune delle coppie dialettiche classiche, quali transitorietà-permanenza e pubblico-privato, rappresenta la base di una riflessione sull’orizzonte concettuale del campo di studio sulle forme dell’abitare. Non più una risposta a un’emergenza ma la constatazione di una fase di transizione, anche economica, che necessita una trasformazione dei paradigmi su cui si è basata gran parte delle teorie del moderno.

È quanto emerge dalla ricerca in corso nel Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre condotta con un approccio multidisciplinare e con il coinvolgimento di studiosi afferenti a diversi settori disciplinari: l’attività di ricerca avanza delle riflessioni teoriche e progettuali che concentrano l’attenzione sul senso collettivo dell’abitare, con particolare riferimento al tema della condivisione attraverso una traduzione più ampia del termine [Baratta et al. 2014].

La condivisione

È un dato noto da oltre 15 anni che accesso, uso e condivisione sarebbero divenute ordinarie modalità di godimento di beni e servizi, in rivalità con il concetto di proprietà; molte delle nostre azioni quotidiane sono proprie dell’“era dell’accesso” [Rifkin 2000] sia nelle forme meno visibili, come i software di cui acquisiamo solo le licenze d’uso, sia in quelle più consapevoli, come il piacere di un disco o di un film di cui godiamo senza acquistarne una copia ma accedendo alle risorse disponibili in rete. Tali modalità di consumo hanno facilmente oltrepassato il confine dell’immateriale per interferire concretamente con la pratica quotidiana grazie all’offerta di diverse tipologie di azioni: attraversare le città con biciclette o auto condivise, dividere le spese necessarie a trasferirsi da una città all’altra con mezzi privati, cedere per una notte il proprio divano ad un ospite straniero (couchsurfing), trasformare per una sera la propria casa in un ristorante oppure utilizzare il viaggio di un camion altrui che mette a disposizione dello spazio altrimenti inutilizzato per il trasporto dei nostri oggetti.

Queste sono solo alcune delle recenti innovazioni introdotte dalla cosiddetta Sharing Economy e che riguardano un numero crescente di aspetti della nostra vita. Come per la maggior parte dei fenomeni contemporanei, vi è una difficoltà nel tracciare una definizione univoca, in particolar modo, perché il fenomeno si declina in diverse forme e con precise esplicitazioni [Botsman and Rogers 2010].

Nello specifico: per Sharing Economy si definisce generalmente un sistema economico basato sulla condivisione di beni sottoutilizzati gestito direttamente dagli individui; per Collaborative Economy si intende un sistema economico basato su mercati decentrati che favorisce l’uso di beni sottoutilizzati, connettendo il soggetto che ne ha bisogno con chi lo possiede, evitando ogni intermediario di mercato; il Collaborative Consumption è un tradizionale comportamento di mercato (prestito, affitto, gestione, vendita, scambio, etc.) potenziato grazie all’impiego delle nuove tecnologie dell’informazione; infine, per On Demand Services si intendono le piattaforme digitali che connettono gli utenti per lo scambio immediato di beni e servizi.

Tutto il settore dell’economia della condivisione è in progressiva crescita: negli Stati Uniti è stato coinvolto almeno una volta il 52% della popolazione mentre, in Inghilterra la cifra sale al 64%. In Italia il settore è ancora contratto: fino a qualche anno fa aveva coinvolto il 13% delle persone, un ulteriore 10% si dichiara interessato ma solo il 59% conosceva il fenomeno.

L’incremento delle pratiche di condivisione è reso possibile dall’implementazione della rete ma l’aumento del numero di persone che vi ricorrono può essere considerato, oltre ad un fenomeno culturale, un effetto collaterale all’attuale periodo economico. Le crisi, infatti, sembrano favorire il passaggio della condivisione dalla ristretta comunità già filosoficamente orientata ad essa, verso il resto del mondo. Anche la diffusione del co-housing, avvenuta inizialmente nei Paesi del nord Europa negli anni Settanta dello scorso secolo, era una risposta a diversi fattori di crisi sociale quali la precarietà del lavoro e i cambiamenti delle strutture familiari [Lietaert 2007]; in quel caso, il concetto di condivisione ripartiva dalla comunità esistente e dal suo rafforzamento ottenuto tramite la prossimità fisica di persone, spazi e luoghi di socialità.

La rete ha esteso le dimensioni della condivisione, ampliato lo spettro di beni e servizi a cui è possibile accedere in forme condivise, migliorato la capacità logistica di ottimizzazione di tempi e spazi della condivisione, e reso alcuni servizi indipendenti dalla prossimità fisica.

Ma tutto ciò a cui accediamo può essere realmente considerato economia della condivisione?

Pensiamo al servizio urbano che oggi possiamo condividere più facilmente, ovvero il trasporto privato. È innegabile che sistemi di condivisione dell’automobile siano da favorire, con un processo di ottimizzazione della mobilità privata dagli indiscutibili vantaggi ambientali, a cui possiamo partecipare in diversi modi. Ad esempio, uno di questi modi prevede una piattaforma che ci connette ad un utente privato intento a svolgere il nostro stesso percorso con cui condividere le spese di viaggio (car pooling). Oppure, in alternativa, possiamo accedere alle auto rese disponibili da una azienda cui pagheremo il corrispettivo dell’uso dell’auto per il tempo di utilizzo (car sharing). In questo secondo caso, mancano i presupposti per poter ricondurre l’esperienza nel filone della condivisione; infatti, seppure assistito da una tecnologia che rende l’esperienza più accessibile e utilizzabile in tempi più brevi, la dinamica del secondo servizio è quella tipica di un noleggio di auto.

Al netto delle tecnologie, queste modalità di condivisione non differiscono dalla locatio conductio del Diritto Romano, istituto diffuso in ogni contesto economico. Questo ragionamento vale per moltissime attività che oggi vengono classificate come attività da Sharing Economy ma che, in realtà, non sono altro che tipiche economie di mercato, più specificatamente sono mercati delle locazioni di auto, stanze, servizi o posti letto.

Alla base della condivisione c’è il presupposto che lo scambio avvenga nell’ambito di un mercato in cui prevalgano i bisogni degli individui; un mercato che riesca a porsi in modalità parallele o, meglio

ancora, integrate rispetto ai mercati tradizionali dove lo scambio è regolamentato da profitti ed utilità. I due mercati non possono essere confusi o accomunati con disinvoltura come avviene in alcune linee guida disponibili per l’implementazione di shareable cities.

Nei confronti di tali questioni, sinteticamente esposte, la produzione edilizia e il suo riflesso nell’urbano mostrano una propria tipica lentezza e, in certi casi, una vera controtendenza. Mentre le tecnologie ampliano le possibilità di apertura della condivisione, negli Stati Uniti i “quartieri privati” (frequentemente pensati come Gated Community) sono passati da circa 10.000 negli anni Settanta ad oltre 333.000 nel 2014 [CAI 2014]: sono zone in cui spazi e servizi pubblici vengono gestiti ed erogati privatamente, ad accesso controllato, in cui la qualità è direttamente proporzionale ai livelli di reddito. La condivisione, stabilita a priori attraverso accordi di vicinato è, in molti casi, subordinata all’appartenenza etnica o culturale, allo stile di vita, alla fascia di reddito o, in alcuni casi, anche all’età (come nelle Retirement Community). Per paradosso alcune visioni del co-housing potrebbero agevolare tale deriva. Di certo i quartieri privati sono esperienze di condivisione di spazi e servizi che pongono non pochi problemi in termini di governo del territorio, di politiche urbane, di frammentazione della città e, non ultimo, nei confronti del tema del “diritto alla città” [Lefevre 1968].

I modelli di condivisione

Non sembrano esserci modelli unici e automaticamente esportabili per l’implementazione di progetti di abitazione basati sulla condivisione di spazi, beni e servizi, in grado di fronteggiare la complessità degli attuali cambiamenti sociali. Certo è che il processo di costruzione delle comunità dovrebbe basarsi su una condivisione rivolta ai bisogni delle fasce di popolazione svantaggiata con nuove, reali e chiare forme di welfare da ricavare dall’inclusione, dalla condivisione, dallo scambio fra disponibilità e bisogni, dall’apporto delle tecnologie della comunicazione, dal mercato e dal settore pubblico, in un coacervo di risorse condivise, efficacemente gestite e ottimizzate.

Per rispondere alle difficoltà di accesso del mercato locativo è imperante la ricerca di nuovi sistemi residenziali in grado di soddisfare un quadro di esigenze che le tradizionali forme dell’abitare non sempre sono in grado di legittimare consapevolmente.

In questo senso, lo studio delle esperienze più recenti evidenzia come l’analisi di forme dell’abitare condiviso possano contribuire a formulare nuovi assiomi attraverso modelli di mutuo soccorso, processi di coesione sociale, strumenti di tutela dell’ambiente e sostenibilità economica. L’identità dell’abitare contemporaneo, con una molteplicità e un dinamismo che comunque ammettono e preservano l’indipendenza di ogni singolo individuo o nucleo, appare infatti sempre più caratterizzata da un modello articolato sulla condivisione di interessi, spazi e servizi. Oggi si abita più “fuori” dal domestico che “dentro” ciò che identifichiamo come intimo e riservato, pertanto, la ridefinizione dei due termini e delle loro relazioni deve essere indagata individuando nuovi confini del problema. Tra i diversi modelli e le numerose pratiche, il co-housing, ad esempio, certamente una risorsa di cui sperimentare innovative applicazioni, è inteso come “una particolare forma di vicinato, in cui alloggi privati e servizi in comune vengono combinati in modo da salvaguardare la privacy di ognuno e allo stesso tempo il bisogno di socialità, offrendo una risposta efficiente ad alcune questioni pratiche del vivere in città” [Lietaert 2007].

La compresenza di funzioni residenziali e servizi collettivi, generalmente gestiti direttamente dai residenti ma non sempre rivolti a essi in via esclusiva, è il naturale adeguamento alla quasi totale scomparsa dalla produzione fisica dalla città, che cede il passo alla gestione di servizi immateriali, quali ambiente, qualità della vita, cultura, partecipazione e cittadinanza, dimenticando però che a definire la qualità di un quartiere è non solo la densità abitativa ma anche la “densità d’usi” e, soprattutto, la “densità d’incontri” [Surkin 2003]. Inoltre, sebbene i vantaggi inerenti la riduzione dei costi [Chiodelli 2009] e il risparmio energetico [Brown 2004] in un intervento di co-housing siano ampiamente esplorati, tale approccio può essere fortemente integrato con la dimensione ambientale se coniugato con il riuso del patrimonio edilizio esistente.

La condivisione per la rigenerazione dell’esistente

La residenza valica la dimensione domestica e diventa urbana (co-neighborhood), con un complesso di relazioni che stimola la creazione di un sistema di condivisioni generatore di trasformazioni.

Metamorfosi che non possono che interessare l’esistente, con l’obiettivo di rigenerare i centri storici. È infatti assodato che lo sviluppo della città contemporanea non può più avvenire attraverso politiche d’espansione ma, piuttosto, attraverso strategie di rigenerazione delle parti consolidate: la cultura architettonica che precedentemente era protesa verso la costruzione di nuove parti di città si deve orientare verso la riorganizzazione dell’esistente e la valorizzazione della stratificazione.

Per questo motivo è importante concentrarsi sulla costruzione nel già costruito, sulla riqualificazione del patrimonio edilizio sottoutilizzato o dismesso. Per fare ciò è necessario che gli organi di governo locale comprendano le potenzialità dell’azione riqualificante dei centri urbani che determinano gli interventi di co-housing che possono rappresentare rispetto alla città il “germe della propria rigenerazione” [Jacobs 1961]. Da quanto scritto emerge che, a partire dal dato storico che vede il co-

housing come forma dell’abitare nata per rispondere ad alcune specifiche esigenze del vivere comune,

il modello di co-housing evolve facendo assomigliare le forme contrattuali delle comunità a forme di “enclaves private a carattere residenziale” o addirittura a “gated communities” [Chiodelli 2010]. Pertanto, se si vuole immaginare una evoluzione di tale modello verso forme di creazione di comunità urbane, verso forme di coabitazione che tengano conto delle nuove esigenze degli abitanti della città, è necessario rivedere l’equilibrio tra iniziativa privata e interesse pubblico, soprattutto nei casi in cui si vogliano affrontare problematiche di rigenerazione urbana. Una trasformazione della tradizionale forma di co-housing verso nuove forme “contrattuali” sembra necessaria se si vuole pensare a una politica anche pubblica di recupero non solo di singoli edifici quanto, più in generale, di rivitalizzazione di intere zone degradate.

La condivisione di spazi e servizi nelle residenze universitarie

La residenza per studenti universitari costituisce, anche per le precise esigenze degli utenti e per il suo specifico carattere sociale, una delle tipologie più idonee per la rigenerazione dei contesti urbani esistenti e maggiormente predisposta alla condivisione di spazi e servizi.

Figura 3. Con la residenza universitaria dei Crociferi a Venezia non solo è stato recuperato e valorizzato un importante complesso monastico ma è stato rigenerato un quartiere che risultava fortemente degradato.

La funzione abitativa di uno studente tende infatti a esprimersi attraverso uno stile di vita che richiede la compresenza di spazi privati e spazi comuni, secondo un programma che preveda “ambiti collettivi di svolgimento delle attività comuni di tipo socializzante in cui siano presenti i diversi livelli di appropriazione e fruizione dello spazio sia da parte del piccolo gruppo sia del gruppo di maggiori dimensioni” [Allegato A del D.M. 27/2011, punto 6.3].

Citando Piraino e Rizzitelli [2013], i servizi offerti nelle residenze universitarie, intesi come disponibilità di spazi dedicati a specifiche attività e come servizi rivolti agli utenti, possono essere classificati in:

- servizi di tipo funzionale: un posto pulito e confortevole dove dormire, lavarsi, mangiare, etc.; - servizi per una migliore qualità dello studio: sale lettura, biblioteca, postazioni internet, wi-fi, etc.; - servizi per una migliore qualità della vita: spazi per lo svago e lo sport all’aperto e al coperto. Lo stesso Allegato A del D.M. 27/2011, al fine di garantire la compresenza delle funzioni residenziali e dei servizi correlati in modo tale che siano ottemperate entrambe le esigenze di individualità e di socialità, invita alla realizzazione di studentati con aree funzionali destinate ad attività:

- culturali, che comprendono sale studio, sale riunione, biblioteche, sale conferenze e auditorium; - ricreative, che accolgono sale video, sale musica, sale giochi e palestre;

- gestionali e amministrative, che includono uffici, mense, caffetterie, minimarket, lavanderie/ stirerie, depositi, magazzini e guardaroba.

In funzione delle esigenze e priorità definite da differenti programmi d’intervento, alcune residenze offrono anche molto altro. Nei quindici anni di applicazione della Legge 338/2000 sono state realizzate residenze con grandi biblioteche, centri fitness con campi e piscine, sale di registrazione, cinema, ristoranti su terrazze panoramiche, centri commerciali: tutti servizi che ampliano l’offerta per gli studenti (residenti e non) e che contribuiscono a integrare lo studentato nella città.

È infatti dimostrato che le ultime residenze universitarie realizzate in Italia, in particolare quelle più virtuose, dimostrano come la qualità della vita dello studente dipenda soprattutto dal tipo e dalla natura dei luoghi condivisi ovvero dalle attività complementari e dai servizi di supporto che si considerano non solo all’interno della struttura residenziale ma anche dal rapporto con la città. In effetti esiste una storica ed ampia letteratura che sottolinea i vantaggi derivanti dalla presenza di spazi dedicati alla condivisione e alla vita collettiva nelle residenze universitarie.

La facilità di sviluppo di relazioni interculturali (in particolar modo di natura interraziale) è nota sin dagli anni ’70, ma ulteriori benefici e vantaggi sono stati riscontrati nel corso di varie ricerche. Ad esempio, è noto che gli studenti che vivono nelle residenze universitarie sono spesso individui che sviluppano una maggiore predisposizione alle diversità [Pike 2000] ed è negli spazi condivisi che ha luogo quell’interazione sociale determinante di numerosi effetti come la creazione del senso di comunità e di appartenenza. Tali sensi permettono di ridurre considerevolmente l’abbandono degli studi [Berger 1997], oltre che migliorare le prestazioni didattiche degli studenti [Wisely 2000]; ciò avviene anche grazie all’estensione del clima d’aula negli ambienti comuni che permette che le attività sociali si pongano in continuità con le attività di apprendimento (Palmer 2008). Infine, il clima favorevole instaurato dalla condivisione e dalle interazioni permette di promuovere e valorizzare il capitale sociale degli studenti [Pretty & Ward 2001]. La stessa disposizione degli spazi condivisi ha un notevole impatto sulle modalità d’uso degli stessi; spazi centrali, facilmente accessibili e dislocati su zone di passaggio favoriscono l’istaurarsi di attività comuni, in particolar modo, se si pongono come filtro fra zone private e pubbliche [Fromm 1991]. Con il termine natural movement, teso ad indicare la relazione fra le percorrenze fisiche negli spazi distributivi e le attività sociali che vi si instaurano, si sottolinea che ambienti come corridoi o androni hanno una notevole capacità di interferire con le possibilità di relazione fra gli individui [Hillier et al. 1973]. Nel giudizio qualitativo degli utenti nei confronti degli ambienti comuni, il sovraffollamento degli spazi distributivi ha un ruolo percettivo

molto meno negativo rispetto al sovraffollamento di quelli comuni o privati [Hill et al. 1999]. Fra gli indicatori del livello di privacy ha un peso importante la rumorosità proveniente degli spazi comuni, specialmente quando questi sono in stretta connessione con quelli privati; frammentare gli spazi condivisi dividendoli in modo che vi insista un numero ridotto di stanze private, può essere una soluzione tipologica che semplifica la creazione di ambienti più adeguati a mantenere livelli di rumore