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Condizioni di detenzione nelle carceri tra diritto europeo e diritto interno

Volgendo lo sguardo alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si osserva come essa non contenga alcun riferimento specifico alla condizione dei soggetti privati della libertà; a differenza di altri documenti internazionali, quali il Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni

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Unite del 1966 o la Convenzione Americana sui diritti Umani del 1969, l’art. 3 Cedu della

Convenzione, nel sancire che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti», non positivizza alcun principio di tutela in proposito. La norma è molto sintetica, quasi a voler indicare un principio generale che poi verrà concretizzato nelle varie declinazioni da normative nazionali o sovranazionali e dagli organi giurisdizionali del Consiglio d’Europa.

La lacuna della Convenzione, tuttavia, è stata colmata dall’attività giurisprudenziale della Corte Edu e della Commissione Europea, le quali hanno operato fin dalla metà degli anni Sessanta per riempire questo vuoto normativo.

La Commissione, nel 1968, ha gettato le prime basi per un’estensione della portata dell’art. 3 Cedu: nel parere sul caso Ilse Koch contro Austria435, ha stabilito che la detenzione non priva il detenuto della garanzia dei diritti e delle libertà protetti dalla Convenzione, principio in seguito richiamato anche dalla Corte Edu nel caso Campbell e Fell contro Regno Unito436.

La Commissione però non si è limitata a una mera affermazione di principio: estendendo la portata dell’art. 3 Cedu ha enunciato la cosiddetta “teoria delle libertà implicite”, in ragione della quale è possibile passare al vaglio della Convenzione anche materie non direttamente ricomprese in essa, qualora uno Stato eserciti un potere di per sé lecito che però nelle sue ripercussioni lede uno dei diritti tutelati.

La “teoria delle libertà implicite” è stata applicata al caso Kotalla contro Paesi Bassi437 per

poter ricomprendere nell’ambito della protezione della Convenzione anche la materia della tutela dei soggetti privati della libertà. Essa afferma infatti che «una pena regolarmente inflitta, può sollevare un problema rispetto all’art. 3 per il modo in cui è realizzata», di tal ché si è venuto a formare un sostrato giurisprudenziale da cui la Corte ha potuto trarre le basi per affermare la portata del diritto fin qui analizzato.

Le condizioni di detenzione dei prigionieri o delle persone sottoposte a custodia da parte della polizia sono rimesse alla tutela dello Stato, il quale è obbligato a garantire uno standard minimo delle condizioni delle carceri, in virtù dell’art. 3 della Convenzione438. Questo livello minimo di protezione deve tener conto del rispetto della dignità dell’uomo e in particolare dei detenuti, i quali versano in una condizione particolarmente delicata e vulnerabile439.

435 Commissione Europea, rapporto Ilse Koch contro Austria, 8 marzo 1962, p. 127.

436 Corte Edu, sentenza Campbell e Fell contro Regno Unito, 28 giugno 1984, rif. nn. 7819/77 - 7878/77. 437 Commissione Europea, parere sul caso Kotalla contro Paesi Bassi, 6 maggio 1978, p. 243.

438 Corte Edu, sentenza Poltoratskiy contro Ucraina, 29 marzo 2003, rif. n. 308812/97, p. 132. 439 C. GRABENWARTER, European Convention on Human Rights, Commentary, cit., p. 42.

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Un recente orientamento giurisprudenziale ha individuato una violazione dell’art. 3 Cedu in riferimento alle condizioni di detenzione anche rispetto all’uso delle manette durante la permanenza nel penitenziario440. L’uso di manette o di altri strumenti di contenzione normalmente non dà luogo a una questione ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, invece, quando la misura è stata irrogata regolarmente e non comporta l’uso della forza441. Questo orientamento è stato confermato anche

nella sentenza Kaverzin contro Ukraina442.

6.1. L’assistenza medica necessaria

Oltre a non prevedere nessuna norma puntuale sulla protezione dei soggetti in vinculis, nessuna disposizione della Convenzione tutela espressamente il diritto alla salute: solo l’attività giurisprudenziale della Corte Edu ha permesso di ricondurlo nell’alveo dei diritti garantiti.

Nelle sentenze, il diritto alla salute è configurato come corollario del diritto alla vita, della tutela della dignità umana, del diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio; la tutela che è stata accordata è indiretta in quanto la lesione al diritto alla salute rileva solo quando viene leso o messo in pericolo uno dei diritti tutelati dalla Convenzione443.

In tema di cure mediche in carcere, con la sentenza Mouisel contro Francia444, il giudice di Strasburgo si è pronunciato su un caso in cui era messa in dubbio la compatibilità della detenzione con il grave stato di salute del ricorrente, il quale aveva quattro arti inutilizzabili. La Corte Edu nella propria decisione ha osservato che le condizioni del ricorrente erano peggiorate con il perdurare dello stato di reclusione; inoltre i giudici hanno riscontrato un’inerzia dell’amministrazione penitenziaria a trovare una soluzione adeguata per ovviare alle problematiche del detenuto. La Corte ha anche ribadito il diritto di tutti i detenuti a godere di condizioni di detenzione compatibili con la dignità umana, così da garantire che il modo e il metodo di esecuzione delle misure imposte non li sottopongano a disagio o difficoltà di un’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione445. Per questi motivi i Giudici di

Strasburgo hanno dichiarato che la detenzione in simili condizioni di salute è tale da integrare una lesione della dignità del ricorrente, tanto da qualificarsi come trattamento disumano ai sensi dell’art. 3 della Convenzione.

440 Corte Edu, sentenza Kashavelov contro Russia, 20 gennaio 2011, rif. n. 891/05, pp. 38-40. 441 C. GRABENWARTER, European Convention on Human Rights, Commentary, cit., p. 42.

442 Corte Edu, sentenza Kaverzin contro Ukraina, 15 maggio 2012, rif. n. 23893/03, pp. 161-163. Un ulteriore profilo trattato dalla Corte Edu riguarda le condizioni dei detenuti durante le traduzioni, da e per il tribunale; sul punto si veda Corte Edu, sentenza Idalov contro Russia, 22 maggio 2012, rif. n. 5826/03, pp. 58-61 e 103 e ss.

443 D. RANALLI, Nuovi interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di trattamento carcerario, in Rassegna penitenziaria e criminologica, vol. II, 2013, pp. 157 e ss.

444 Corte Edu, sentenza Mouisel contro Francia, 14 novembre 2002, rif. n. 67263/01, pp. 37 e ss. 445 Ibidem, p. 40.

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La Corte ha meglio specificato il contenuto di quest’obbligo nella sentenza Xiros contro

Grecia446 in cui, richiamando i propri precedenti, ha evidenziato tre distinte obbligazioni per gli Stati membri: verificare che lo stato di salute del detenuto sia compatibile con la detenzione447; provvedere a somministrare le cure mediche necessarie448; adattare, in caso di bisogno, le condizioni di detenzione alle esigenze specifiche legate allo stato di salute dell’interessato449.

Un ulteriore profilo su cui la Corte si è soffermata è stato quello dell’isolamento; questo istituto, in linea di principio, non è incompatibile con la previsione di cui all’art. 3 della Convenzione, anche se la Commissione in numerose decisioni o pareri lo ha definito come uno strumento capace, potenzialmente, di distruggere la personalità del detenuto e pertanto costituisce una pena disumana che non trova giustificazione nelle esigenze di sicurezza450.

6.2. La giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte Edu sul regime particolare dell’art. 41 bis

Altra tematica di interesse riguarda l’applicazione di regimi detentivi speciali e maggiormente incisivi sulla libertà personale.

A fronte di un quadro costituzionale da cui emerge con chiarezza l’esigenza di porre al centro dell’esecuzione penale la dignità dell’individuo e il principio di umanizzazione della pena, si pone il problema del regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. penit. che, potendo comportare una notevole compressione dei diritti dei detenuti, sembra porsi in netto contrasto con l’ideale rieducativo e con la valorizzazione della persona umana.

La Corte Costituzionale è stata più volte chiamata a sindacare sulla legittimità di tale disposizione, fornendo preziosi chiarimenti sulla natura del regime speciale e cercando, di volta in volta, una lettura costituzionalmente orientata. La Consulta ha compiuto una serie di interventi correttivi restringendo la portata interpretativa della norma, ridisegnandone le modalità applicative per adeguare la disposizione in oggetto ai principi costituzionali451.

In particolare, nella sentenza n. 351 del 1996 il Giudice delle leggi h a individuato nell’art. 14 quater, comma 4, ord. penit.452 quel nucleo incomprimibile di diritti minimi che

446 Corte Edu, sentenza Xiros contro Grecia, 9 settembre 2010, rif. n. 1033/07, pp.73 e ss. 447 Corte Edu, sentenza Mouisel contro Francia, cit.

448 Corte Edu, sentenza Paladi contro Moldavia, 10 marzo 2009, rif. n. 39806/05, p. 72; Corte Edu, sentenza Oshurko contro Ucraina, 8 settembre 2011, rif. n. 33108/05, p. 82.

449 Corte Edu, sentenza Vladimir Vasilyev contro Russia, 10 gennaio 2012, rif. n. 28370/05, p. 58.

450 Commissione Europea, rapporto Kröcher e Müller contro Svizzera, 16 dicembre 1982, pp. 87 e 116; Commissione Europea, rapporto Dhoest contro Belgio, 14 maggio 1987, pp. 6 e 42, p. 116.

451 Si tratta delle sentenze costituzionali n. 349 del 1993; n. 410 del 1993; n. 351 del 1996; n. 376 del 1997. 452 Il comma 4 dell’art. 14 quater ord. penit. recita: «In ogni caso le restrizioni non possono riguardare: l’igiene e le esigenze della salute; il vitto; il vestiario ed il corredo; il possesso, l’acquisto e la ricezione di generi ed oggetti

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devono, in ogni caso, essere garantiti affinché la pena non possa considerarsi contraria al senso di umanità e, come tale, illegittima453.

Ulteriori considerazioni sono contenute nella successiva sentenza n. 376 del 1997, in cui risulta evidente come il regime differenziato di cui all’art. 41 bis, comma 2, «non comporta e non può comportare la soppressione o la sospensione delle attività di osservazione e di trattamento individualizzato previste dall’art. 13 dell’ordinamento penitenziario, né la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della personalità, previste dall’art. 27 dello stesso ordinamento (…)». Da ciò discende che per i giudici costituzionali «l’applicazione dell’art. 41 bis non può equivalere, (…), a riconoscere una categoria di detenuti che sfuggono, di fatto, a qualunque tentativo di risocializzazione».

È evidente come tali pronunce siano imprescindibili per una lettura dell’istituto in chiave costituzionale; tuttavia, in ordine alla forte compressione dei diritti dei soggetti sottoposti a tale regime, c’è ancora da chiedersi, se l’attuale quadro normativo sia conforme ai principi di umanizzazione e finalità rieducativa.

Invero, anche dopo le sentenze della Corte costituzionale, parte della dottrina ha continuato a sostenere che «residua ancora nel mutato quadro complessivo qualche perplessità circa la conformità della disposizione al principio di umanità del trattamento inerente alla pena che implica (e presuppone) pur sempre l’esclusione dalla pena di ogni e qualsivoglia carattere affittivo che non sia inscindibilmente connesso alla restrizione della libertà personale»454. Ed ancora che «il carcere duro si caratterizza per un livello di afflittività tale da porre quantomeno indubbio il rispetto della dignità della persona e, in generale, dei diritti inviolabili del cittadino tutelati dalla Costituzione nonché delle norme internazionali poste a tutela della popolazione detenuta»455.

In via generale, le doglianze mosse da alcuni detenuti sottoposti al regime speciale descritto all’art. 41 bis, ord. penit., si sono incentrate essenzialmente su tre diversi addebiti: il

permessi dal regolamento interno, nei limiti in cui ciò non comporta pericolo per la sicurezza; la lettura di libri e periodici; le pratiche di culto; l’uso di apparecchi radio del tipo consentito; la permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno salvo quanto disposto dall’articolo 10; i colloqui con i difensori, nonché quelli con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli».

453 Secondo la Corte costituzionale, con sentenza n. 351 del 1996, in Giur. Cost., 1996, p. 3054, «deve rilevarsi che non può mancare la indicazione di parametri normativi per la concretizzazione del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, e che da questo punto di vista le indicazioni fornite dal legislatore con il comma 4 dell’art. 14 quater appaiono particolarmente pregnanti».

454 R. D’AMICO, Nota in calce alla sentenza costituzionale n. 376 del 1997, in Giur. Cost., 1997, p. 3637; A. MARTINI, Commento al d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (antimafia), Sub art. 19, in Leg. Pen., 1993, p. 213.

455 A. MORRONE, Il penitenziario di massima sicurezza nella lotta alla criminalità organizzata, in Dir. Pen.

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trattamento imposto configurava trattamento inumano o degradante e, come tale, si poneva in contrasto con l’art. 3 Cedu; la lesione della libertà di comunicazione e del rispetto della vita privata e familiare, tutelati dall’art. 8 Cedu; la mancanza di un ricorso effettivo avverso il decreto applicativo (o di proroga) che dispone il “ carcere duro”, in violazione degli artt. 6 e 13 Cedu456.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con le pronunce Labita e Natoli contro

Italia457, ha ritenuto che il regime carcerario di rigore applicato nel caso di specie non raggiungesse quel minimo di gravità necessario affinché si potesse configurare un trattamento inumano o degradante e che le restrizioni cui era stato sottoposto il ricorrente e r ano «misure severe ma proporzionate alla gravità dei reati commessi»458.

Secondo i Giudici di Strasburgo, le deroghe all’ordinario regime detentivo che prevedono, tra l’altro, il divieto di contatti con altre persone per ragioni di sicurezza, disciplina o protezione, non costituirebbe in sé un trattamento inumano o degradante, stante anche la sussistenza dei legami del detenuto con la criminalità organizzata e le ripetute condanne subite. D’altra parte, la Corte Edu ricorda come il regime di massima sicurezza sia risultato attenuato da una pronuncia della Corte costituzionale (la n. 376 del 1 997, sopra richiamata), mentre il Governo italiano avrebbe fatto grossi sforzi (tesi a rendere la pena più umana e ad ammorbidire il “ carcere duro”) per cercare di bilanciare il rispetto dei diritti dei detenuti sottoposti a un regime differenziato con le difficoltà incontrate dalle autorità carcerarie per affrontare i cambiamenti di tale regime459.

6.2.1. Art. 41 bis e diritto alla salute

Sebbene dalle indicate pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte Costituzionale sembra arrivare, in via generale, l’avallo della compatibilità del “ carcere duro”, rispettivamente, con l’art. 3 Cedu e l’art. 27, comma 3, Cost., problemi di compatibilità

456 Corte Edu, sentenza Messana contro Italia, 16 novembre 2017, rif. 30801/06 e Corte Edu, sentenza Ganci

contro Italia, 30 ottobre 2003, rif. 41576/98.

457 Corte Edu, sentenza Labita contro Italia, cit. e Corte Edu, sentenza Natoli contro Italia, 9 gennaio 2001. 458 Corte Edu, sentenza Moni contro Italia, 8 giugno 1999, in Leg. Pen., 200, p. 159.

459 I grossi sforzi del Governo italiano ai quali allude la Corte Edu sono quelli indicati nella circolare del DAP n. 5391381-1 del 7 febbraio 1997, con cui sono state impartite disposizioni per l’organizzazione delle sezioni dove sono ristretti detenuti sottoposti al carcere duro. In particolare, si disciplinano espressamente le modalità di svolgimento delle attività sportive e della fruizione della biblioteca dei detenuti in regime di 41 bis, comma 2, ord. penit. Si dà incarico alle direzioni dei singoli istituti di reperire «appositi locali che dovranno essere dotati di attrezzi ginnici e di altri attrezzi per lo svago ritenuti compatibili con le esigenze di sicurezza» e di approntare una piccola biblioteca di sezione. Si veda G. LA GRECA, L’applicazione dell’art. 41 bis sotto costante verifica, in Dir. Pen. proc., 1997, p. 754. Inoltre, nella circolare viene specificato il complesso delle attività trattamentali necessarie per consentire l’offerta di strumenti risocializzanti, per consentire anche ai sottoposti al trattamento di rigore di accedere ai benefici penitenziari, adempiendo così alle indicazioni contenute nella sentenza costituzionale n. 376 del 1997.

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potrebbero sorgere, invece, tutte le volte in cui il detenuto sottoposto al regime previsto all’art. 41 bis ord. penit. versi in gravi condizioni di salute460.

Invero, da un lato, la Corte Edu, in alcune decisioni461, ha sostenuto che l’applicazione del predetto rigido regime a detenuti affetti da gravi patologie integrasse violazione dell’art. 3 della Convenzione; dall’altro lato, la giurisprudenza interna ha tentato di giungere a un delicato equilibrio tra interessi contrapposti, finendo per ritenere prevalente il principio di umanizzazione della pena a fronte di uno specifico quadro clinico del detenuto sottoposto al 41 bis, ord. penit.

Pesanti rilievi alla disciplina de qua sono stati inoltre sollevati dal Comitato per la

prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)462. Nella seconda visita periodica effettuata nel 1995 in Italia, il CPT ha preso atto che i detenuti sottoposti al 41 bis sono assoggettati per lunghi periodi a un regime assimilabile all’isolamento463 e «senza dubbio il sistema è tale da provocare effetti dannosi concretatisi in

alterazione delle facoltà sociali e mentali spesso irreversibili»464.

6.2.1.1. Il “caso Riina”

La problematica del “carcere duro” – specialmente quando il detenuto è un esponente di spicco della criminalità organizzata – rileva quindi anche sotto il profilo del bilanciamento tra la tutela della dignità del carcerato e della sua salute, da una parte, e della salvaguardia della collettività, dall’altra.

Ad esempio, nella vicenda che ha interessato Salvatore Riina, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27766 del 22 marzo 2017 ha annullato con rinvio l’ordinanza n. 299 emessa dal Tribunale di sorveglianza di Bologna il 20 maggio 2016, con cui venivano rigettate le richieste di

460 Ad esempio, a causa dello stato di salute e delle patologie di cui soffriva il capo-mafia Salvatore Riina, la difesa aveva chiesto la revoca del trattamento di rigore (41 bis, ord. penit.) in quanto incompatibile con lo status

detentionis, potendo configurare la permanenza nell’istituto penitenziario un trattamento inumano o degradante.

461 Corte Edu, sentenza Scoppola contro Italia, 17 settembre 2009, rif. n. 10249/03; Corte Edu, sentenza

Contrada contro Italia, 11 febbraio 2014, rif. n. 66655/13; Corte Edu, sentenza Provenzano contro Italia, 25 ottobre

2018, rif. n. 55080/13.

462 Nel rapporto esplicativo della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene e dei

trattamenti inumani o degradanti si è affermato che l’intento dei redattori era quello di completare il sistema di

protezione stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo con la previsione di un «meccanismo non giudiziario a carattere preventivo con il compito di esaminare il trattamento delle persone private della libertà in vista di rafforzare la loro protezione contro la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti».

463 Sul punto, si deve dare atto che la Corte di Cassazione ha considerato radicalmente differenti l’istituto dell’isolamento diurno ex art. 72 c.p. (cui ha riconosciuto il carattere di vera e propria azione penale) e quello della sospensione delle ordinarie regole di trattamento ex art. 41 bis ord. penit. (che incide soltanto sulle modalità di attuazione del regime di detenzione); Cass., Sez. I, 28 gennaio 2000, n. 613, in Cass. pen., 2001, p.197.

464 Rapporto al Governo italiano relativo alla visita effettuata dal Comitato europeo per la prevenzione della

tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti in Italia, dal 22 ottobre al 6 novembre 1995, pubblicato il 4

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differimento dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147 c.p.465 e, in subordine, di esecuzione

della pena nelle forme della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1 ter, delle legge 26 luglio 1975, n. 354.

Per concedere il differimento della pena, nel caso in esame, l’autorità giudiziaria deve verificare, da un lato, lo stato di grave infermità fisica del detenuto e, dall’altro, la sua pericolosità sociale.

Innanzi tutto, come ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 115 del 1979466, la condizione di grave infermità fisica pretesa dalla norma (art. 147 c.p.), e idonea a determinare l’eventuale rinvio dell’esecuzione della pena, dovrà necessariamente essere valutata dal giudice di merito, di volta in volta, tenendo conto dei seguenti parametri: le condizioni di salute del condannato che, per dar luogo al rinvio dell’esecuzione della pena, dovranno essere oggettivamente gravi, così da determinare un trattamento contrario al senso di umanità467; le condizioni

dell’ambiente carcerario in cui il condannato si trova, e, segnatamente, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà di fare ricorso, all’interno delle strutture dell’amministrazione penitenziaria, ai trattamenti sanitari necessari per fronteggiare adeguatamente i danni o i pericoli che la malattia stessa produce468.

465 L’art. 147 c.p. “Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena” dispone che: «l’esecuzione di una pena può essere differita: 1. se è presentata domanda di grazia e l’esecuzione della pena non deve esser differita a norma dell’articolo precedente; 2. se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica; 3. se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni. Nel caso indicato nel n. 1, l’esecuzione della pena non può essere differita per un periodo superiore complessivamente a sei mesi, a decorrere dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, anche se la domanda di grazia è successivamente rinnovata. Nel caso indicato nel numero 3) del primo comma il provvedimento è revocato, qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio ai sensi dell’articolo 330 del codice civile, il figlio muoia, venga abbandonato ovvero affidato ad altri che alla madre. Il provvedimento di cui al primo comma non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di