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Altro tema su cui si sono concentrati gli sforzi da parte della giurisprudenza è quello relativo all’estradizione, e in particolare al divieto di estradare un soggetto quando questo potrebbe nel Paese richiedente subire una violazione di un diritto protetto dalla Convenzione Edu.

La nostra Costituzione prevede espressamente in ben due disposizioni (artt. 10, comma 4586 e 26, comma 2587) il divieto di estradare lo straniero per reati politici. In tema di estradizione per l’estero costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale la nozione di reato politico a fini estradizionali trova fondamento non nell’art. 8 c.p., nel quale il reato politico è definito in funzione repressiva, bensì nelle norme costituzionali, che lo assumono in una più ampia funzione di garanzia della persona umana, finalizzata a limitare il diritto punitivo dello Stato straniero588.

La lettera c) dell’art. 705, comma 2, c.p.p. nega l’estradizione riproducendo la “clausola di non discriminazione”589 prevista in varie convenzioni internazionali, come ad esempio nell’art. 3,

comma 2, della Convenzione europea sull’estradizione590. A fronte della lettera della legge citata, la Suprema Corte nel 2014 ha stabilito che è legittimo non consentire l’estradizione ritenendo sussistente il pericolo che la persona estradanda, ove sia consegnata allo Stato richiedente, sarà

585 Ibidem, p. 25.

586 L’art. 10, comma 4, recita: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici».

587 L’art. 26 afferma: «L’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali. Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici».

588 Così, ex multis, Cass. pen. Sez. 6, n. 31123 del 19/06/2003, Baazaoui, Rv. 226520. L’art. 8, comma 3, c.p. definisce delitto politico quello che «offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici».

589 L’art. 705, comma 2, c.p.p. recita: «La corte di appello pronuncia comunque sentenza contraria all’estradizione: a) se, per il reato per il quale l’estradizione è stata domandata, la persona è stata o sarà sottoposta a un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali; b) se la sentenza per la cui esecuzione è stata domandata l’estradizione contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato; c) se vi è motivo di ritenere che la persona verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero alla pena di morte o a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona; c-bis) se ragioni di salute o di età comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».

590 L’art. 3, comma 2, della Convenzione europea sull’estradizione afferma: «1. L’estradizione non sarà concessa, se il reato, per il quale essa è domandata, è considerato dalla Parte richiesta come un reato politico o come un fatto connesso a un siffatto reato. 2. La stessa regola sarà applicata se la Parte richiesta ha motivi seri per credere che la domanda d’estradizione motivata con un reato di diritto comune è stata presentata con lo scopo di perseguire o di punire un individuo per considerazioni di razza, di religione, di nazionalità o di opinioni politiche o che la condizione di questo individuo arrischi di essere aggravata per l’uno o l’altro di questi motivi».

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sottoposta per motivi di opinioni politiche ad atti persecutori ovvero a trattamenti disumani o degradanti, e ciò anche desumendolo dallo status di rifugiato politico591.

Infine, occorre ricordare che, secondo la costante giurisprudenza della Corte Suprema, la disposizione dell’art. 698, comma 1, c.p.p., che prevede, quale causa ostativa all’estradizione, la fondata ragione di ritenere che l’imputato o il condannato verranno sottoposti ad atti persecutori o discriminatori per motivi, fra gli altri, di razza o di religione costituisce applicazione del più generale principio di salvaguardia del diritto fondamentale dell’individuo alla libertà e alla sicurezza contro qualsiasi forma di discriminazione che potrebbe essere attuata con lo strumento della domanda di estradizione da parte dello Stato estero. L’atto persecutorio e discriminatorio è pertanto, quello che, in quanto mascherato sotto forma di domanda di estradizione per perseguire un determinato reato, costituisce lo scopo dissimulato che lo stesso Stato richiedente mira a realizzare per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali, laddove dallo status del soggetto connesso ad una o più delle suddette posizioni dipendano nell’ordinamento interno del suddetto Stato richiedente situazioni di oggettivo pregiudizio reale o potenziale592.

Il divieto di tortura o di trattamenti inumani o degradanti costituisce a ben vedere il nucleo essenziale di ogni diritto fondamentale. La violazione del divieto di refoulement verso Stati in cui il rimpatriato correrebbe il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti, costituirebbe essa stessa

591 Nel caso esaminato si trattava della Turchia, Corte di Cassazione, Sez. VI, sent. 28-01-2014, ud. 18/12/2013, n. 3746. «L’art. 704 c.p.p. , comma 2, disponendo che la corte d’appello decide sull’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione “dopo avere assunto le informazioni e disposto gli accertamenti ritenuti necessari”, affida alla valutazione discrezionale del giudice il compito di stabilire se e quali accertamenti siano necessari ai fini della decisione. Nel caso concreto, la Corte territoriale ha recepito il risultato degli accertamenti effettuati dalla Commissione preposta al riconoscimento della protezione internazionale e ha altresì ritenuto di condividerne la valutazione conclusiva e tale decisione non merita censura. Occorre infatti considerare che il provvedimento che accorda allo straniero la protezione internazionale nelle forme del riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria viene emesso all’esito di un’istruttoria specificamente regolamentata, che accerta sulla base di criteri di valutazione prestabiliti l’effettiva esistenza dei presupposti di fatto tipizzati dalla legge, compendiati nelle due distinte categorie degli “atti di persecuzione” e del “danno grave”, che giustifichino il fondato timore, rispettivamente, di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità od opinione politica oppure di subire un grave danno alla vita o alla persona. L’accertamento, condotto dall’autorità amministrativa istituzionalmente chiamata a verificare la sussistenza dei presupposti di fatto legittimanti il riconoscimento della protezione internazionale, pur non essendo vincolante per la giurisdizione a causa del principio della separazione dei poteri dello Stato, può essere però assunto dal giudice come utile elemento di valutazione da porre a fondamento della propria decisione, ove ritenuto completo, certo e affidabile. A tal fine assume particolare rilievo la motivazione del provvedimento amministrativo, nella parte in cui illustra i fatti addotti e le prove esibite dal richiedente la protezione, gli accertamenti compiuti d’ufficio e il relativo risultato probatorio, sul quale si innesterà l’autonoma - anche se generalmente coincidente - previsione circa il pericolo che quella persona, se ritornasse nel Paese di origine, potrebbe subire atti persecutori o trattamenti disumani o degradanti».

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una violazione dello Stato richiesto all’art. 3 Cedu593; si noti peraltro che con la “lisbonizzazione”594

della Carta dei diritti fondamentali vengono in rilievo anche gli articoli 4 e 19 Carta medesima595. Si registra però un contrasto giurisprudenziale da parte della Suprema Corte sul fatto se il giudice italiano possa fondare il proprio giudizio anche sulla base di documenti e di rapporti elaborati da organizzazioni non governative, la cui affidabilità sia generalmente riconosciuta sul piano internazionale596.

Spesso, però, la sola esistenza di dichiarazioni e l’accettazione di trattati internazionali che garantiscono, in via di principio, il rispetto dei diritti fondamentali sono riconosciute dalla giurisprudenza italiana come sufficienti, da sole, ad assicurare una protezione adeguata contro il rischio di maltrattamenti, nonostante fonti affidabili riportano pratiche delle autorità – o da esse tollerate – manifestamente contrarie ai principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali597; del resto, la Suprema Corte in tema di estradizione

è arrivata ad affermare che «il giudizio sull’eventuale sussistenza di una estradizione cosiddetta mascherata o di altra situazione idonea ad incidere negativamente sui diritti fondamentali dell’estradando deve peraltro basarsi su elementi idonei a far ritenere fondato il pericolo in questione e detti elementi debbono potersi ricavare dagli atti ovvero debbono essere prospettati dall’interessato secondo un preciso onere di allegazione: l’esercizio, in via esclusiva, di un potere di iniziativa officioso del giudice, in assenza di concreti ed apprezzabili sospetti, costituirebbe fatto

593 Come si approfondirà meglio di seguito, la Corte Edu ha costantemente ribadito che l’espulsione verso un Paese in cui il soggetto può essere esposto al rischio di tortura o trattamenti inumani e degradanti fa sorgere una responsabilità dello Stato espellente.

594 L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha riformato definitivamente il sistema comunitario e dell’Unione europea, segnando l’avvio di una nuova fase del rapporto tra quest’ultima e gli ordinamenti nazionali. Il settore della cooperazione giudiziaria penale, disciplinato al capitolo IV del titolo V dedicato all’area di libertà, sicurezza e giustizia (artt. 82-86) è quello che presenta i tratti di maggiore innovazione, risultando definitivamente superato il metodo da III pilastro, cioè della cooperazione intergovernativa; la cooperazione giudiziaria, inoltre, diventa solo una delle componenti, sia la più significativa, per la creazione di uno spazio comune di sicurezza, giustizia e di libertà. Il testo del nuovo Trattato, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, è stato pubblicato in GUCE,17-12-2007, n. 306. La sua versione consolidata è stata pubblicata in GUCE,9-5-2008, n. C-115.

595 Scrive la CGUE, Grande Sezione, con sentenza 6 settembre 2016, C-182/15: «La decisione di uno Stato membro di estradare un cittadino dell’Unione, (..) rientra nell’ambito di applicazione degli articoli 18 e 21 TFUE e quindi del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta (v. in tal senso, per analogia, CGE, sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punti da 25 a 27). Ne consegue che le disposizioni della Carta e in particolare del suo articolo 19 sono idonee a essere applicate a tale decisione. Ai sensi dell’articolo 19, nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. A tale proposito occorre fare riferimento all’articolo 4 della Carta che proibisce le pene o i trattamenti inumani o degradanti e rammentare che tale proibizione ha carattere assoluto in quanto è strettamente connessa al rispetto della dignità umana, di cui all’articolo 1 della Carta (v. sentenza del 5 aprile 2016, Aranyosi e Calderaru, C-404/15 e C-659/15 PPU, EU:C:2016:198, cit., punto 85) (par. 52 ss.).

596 A favore, Cassazione penale, Sez. VI, 8.7.2010, P.G. e altri, in Mass. Uff., n. 248002, e Cass. pen. VI. 29.4.2014, n. 25267. Contra, Cass. pen., VI, 11.7.2014, n. 30864; VI, 20.12.2013, n. 2657; VI, 6.12.2013, n. 49881; VI, 5.2.2008, n. 15626.

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non amichevole e non corretto nei confronti dello Stato richiedente, il quale, con l’accettazione di clausole comuni europee, consente, peraltro, il controllo dell’osservanza dei diritti riconosciuti nella fondamentale Carta europea»598.

Anche a livello sovranazionale, in alcuni casi, i documenti redatti dalle organizzazioni non governative sono stati ritenuti utilizzabili sia dalla Corte di Giustizia599 e della Corte europea dei

diritti dell’uomo per affermare che l’espulsione verso un Paese dove si pratica la tortura integra una

violazione dell’art. 3 della Cedu600.

In tale contesto, è da rilevare come debba essere sufficiente non la certezza, ma anche solo un pericolo concreto di realizzazione di tortura o trattamenti inumani o degradanti601.

I diritti dei detenuti, specialmente quelli attinenti i casi di espulsione ed estradizione, sono spesso trattati marginalmente o addirittura assenti nei testi convenzionali. La stessa Convenzione

Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’uomo non contempla espressamente alcuna tutela sul

punto. Per ovviare a tale lacuna, la Commissione, nel rapporto X contro RFA602, ha affermato che

«se la materia dell’estradizione, dell’espulsione e del diritto di asilo non rientrano tra quelle espressamente previste dalla Convenzione, gli Stati contraenti hanno non di meno accettato di restringere i poteri loro conferiti dal diritto internazionale generale ivi compreso quello di controllare l’ingresso e l’uscita degli stranieri, nella misura e nel limite degli obblighi che essi hanno assunto in virtù della Convenzione. Allora l’espulsione o l’estradizione di un individuo può, in alcuni casi eccezionali, essere contraria alla Convenzione e in particolare all’articolo 3, quando ci sono serie ragioni di credere che quello sarà sottoposto nello Stato di destinazione a trattamenti proibiti da questo articolo».

Sulla base delle dichiarazioni della Commissione, la Corte ha costruito una serie di tutele prima inesistenti. Ad esempio, nel caso Soering contro Regno Unito603, in materia di diritti dei detenuti, essa ha dichiarato che gli Stati possono essere giudicati anche in ambiti non direttamente rientranti nella Convenzione, qualora vi sia stata in tali settori una violazione dei diritti

598 Cass. pen. Sez. VI, 27-09-1995, n. 3281 (rv. 203308), Celik.

599 CGUE, Grande Sezione, sentenza 6 settembre 2016, C-182/15: «l’autorità competente dello Stato membro richiesto deve fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati. Tali elementi possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte Edu, da decisioni giudiziarie dello Stato terzo richiedente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite» (par. 59).

600 Corte Edu, sentenza Saadi contro Italia, cit.

601 Cass., Sez. VI, 12.7.2004, Sumanschi, in Mass. Uff., n. 229964, in riferimento alla condizioni di salute. Il principio è stato di recente ribadito dalla Suprema Corte, richiamando gli standard internazionali fissati dalla Corte

Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Torreggiani e altri contro Italia, cit. che ha chiarito che «osta ad una

pronuncia favorevole all’estradizione non solo la certezza ma anche il pericolo concreto che l’estradando venga sottoposto ad un trattamento avente un oggettivo carattere inumano o degradante, nell’ottica delineata dalla Cedu».

602 Commissione Europea, rapporto X contro RFA, 30 settembre 1974, rif. n. 6315/73. 603 Corte Edu, sentenza Soering contro Regno Unito, cit.

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convenzionali, nel caso di specie, dell’art. 3 Cedu. Nello specifico, la Corte ha statuito che, in materie poco disciplinate come estradizione o espulsione e diritti dei detenuti, ci può essere una violazione dei diritti convenzionali anche nel caso in cui le condizioni di detenzione o la decisione di espulsione non siano direttamente lesivi di un diritto tutelato dalla Convenzione.

A partire dalla sentenza Soering contro Regno Unito, la Corte ha fornito un’interpretazione estensiva dell’art. 3 della Convenzione, in base alla quale nessuno può essere espulso se, nel Paese d’arrivo, vi è il rischio di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti. Lo Stato che intende estradare un proprio detenuto dovrà sincerarsi che costui non rischi di subire un trattamento contrario all’art. 3 Cedu. Tuttavia, il pericolo deve essere concreto e attuale; una mera possibilità, non comprovata nella sostanza, non esporrà il Paese membro a violazione della Convenzione qualora disponga l’estradizione verso uno Stato terzo.

La Corte si è trovata sempre più spesso a dover trovare un equilibrio tra il principio della sentenza Soering contro Regno Unito e la realtà delle condizioni di reclusione dei detenuti nei Paesi

extra europei.

Le conclusioni alle quali i Giudici di Strasburgo pervengono sembrano diversificarsi a seconda che la Corte Edu debba decidere sulla violazione della Convenzione in ambito europeo o debba esprimersi sui rischi di subire trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu al di fuori dei confini di competenza della Convenzione.

Nel primo caso i Giudici di Strasburgo hanno fatto applicazione del criterio di valutazione risultante dalla giurisprudenza consolidata negli anni, ovverosia costituiscono violazione dell’art. 3 Cedu: detenzione in condizioni igieniche insufficienti, scarsa possibilità di uscire dalla cella o di fare attività fisica, mancanza di luce naturale o impianto di ventilazione e riscaldamento, mancanza di una rete fognaria, spazio della cella pro capite inferiore a 3 m² e così discorrendo.

Nel secondo caso questi criteri non vengono presi in considerazione e se l’assenza di una rete idrica e fognaria in un centro di detenzione è sufficiente a integrare violazione in un Paese europeo, non lo è se ad essere valutato è un carcere extraeuropeo in un caso di estradizione.

Appare evidente l’applicazione di una deroga all’art. 3 della Convenzione in caso di estradizione di un detenuto in un Paese terzo, forse anche in virtù della considerazione secondo cui, la richiesta degli stessi standard dentro e fuori l’Europa impedirebbe di fatto l’estradizione, se non in pochi casi rispetto a quelli presentati. Un’autorevole dottrina si attesta sulle medesime conclusioni, affermando esistente una deroga all’art. 3 della Convenzione604. La tutela invocata ai

sensi della norma in analisi da parte di una persona colpita da un provvedimento di espulsione non è

604 J.F. FLAUSS, Actualité de la Convention européenne des droits de l'homme (février-août 2005), in AJDA, 10 ottobre 2005.

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dunque la stessa, a seconda del paese di destinazione, se europeo o extraeuropeo; infatti la soglia minima di gravità sarà valutata nel primo caso, in modo più restrittivo, e nel secondo, ammettendo una deroga al principio di cui all’art. 3 della Convenzione.

Con la sentenza sentenza Chahal contro Regno Unito605, i giudici hanno poi parificato all’estradizione della persona l’ipotesi di espulsione, estendendo le stesse argomentazioni utilizzate per la prima.

Dalla giurisprudenza sul divieto di eccezioni all’art. 3, deriva una responsabilità per lo Stato nel caso applichi un decreto di espulsione della persona, se nel Paese di arrivo vi siano forti possibilità che questa subisca maltrattamenti contrari al dispositivo dell’art. 3 Cedu606.

Un ulteriore profilo di sviluppo operato dai Giudici di Strasburgo in riferimento al tema in analisi riguarda l’estensione della copertura di garanzia offerta dall’art. 3 Cedu nell’ipotesi in cui l’estradizione o l’espulsione di un detenuto comporti un rischio per la sua salute. Per la Corte Edu, anche l’impossibilità di ricevere cure adeguate può integrare un serio rischio, tale per cui l’allontanamento del ricorrente comporterebbe una violazione ai sensi dell’art. 3 Cedu.

Più recentemente, il tema del divieto di espulsione o estradizione quando nel Paese di destinazione vi sia il rischio per l’individuo di patire torture o trattamenti disumani o degradanti è stato affrontato anche nel nostro Paese. Emblematica è la sentenza Saadi contro Italia607, la quale giunge in un momento in cui il rinvio in Paesi noti per la pratica di tortura e maltrattamenti avviene con una frequenza preoccupante in nome della “guerra al terrorismo”. La Corte Edu ha riaffermato la regola espressa in primis nel caso Soering contro Regno Unito secondo cui nessuna circostanza, comprese la minaccia di terrorismo o le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, può giustificare l’esposizione di un individuo al rischio concreto di seri abusi di diritti umani608.

I Giudici di Strasburgo hanno rilevato anzitutto che gli Stati sono chiamati ad affrontare serie difficoltà nei tempi moderni. Nel proteggere le loro comunità dalla violenza terrorista, però, lo Stato non deve mai mettere in discussione la natura assoluta dell’art. 3 Cedu.

La sentenza ha anche affrontato il problema delle “assicurazioni diplomatiche” e, in particolare, di come deve comportarsi uno Stato qualora vi sia il rischio di tortura o maltrattamento, ma il Paese dove l’individuo verrà deportato assicura che il detenuto sarà destinatario di un

605 Corte Edu, sentenza Chahal contro Regno Unito, cit.

606 Corte Edu, sentenza Hamed contro Austria, 17 dicembre 1996, rif. n. 25964/94, pp. 39-41.

607 Corte Edu, sentenza Saadi contro Italia, cit. Il caso di specie riguarda la decisione delle autorità italiane di estradare in Tunisia Nassim Saadi, un cittadino tunisino legalmente residente in Italia. Il ricorrente è stato processato in contumacia in Tunisia per reati di stampo terroristico e condannato a venti anni di carcere. Di fronte alla Corte Europea, Saadi ha dichiarato che sarebbe andato incontro al rischio di tortura e maltrattamenti in Tunisia, un Paese in cui gli abusi sui presunti terroristi sono una pratica abituale e documentata.

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trattamento umano e non degradante. La Corte Edu ha ritenuto che tali assicurazioni non bilancino automaticamente un rischio reale, sottolineando «che l’esistenza di leggi nazionali e l’adesione a trattati non sono sufficienti ad assicurare protezione adeguata contro il rischio di