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Connesso con il tema delle tutele degli individui privati della libertà è l’obbligo di utilizzare la forza da parte della polizia in modo proporzionato alle esigenze del caso specifico.

L’art. 3 Cedu non proibisce l’uso della forza durante le operazioni di polizia, quando si rende necessario. Il principio è riscontrabile in molte sentenze della Corte di Strasburgo525.

La giurisprudenza della Corte Edu ha però evidenziato che il ricorso alla forza fisica, quando non è strettamente necessaria, lede la dignità umana ed è, in linea di principio, una violazione del diritto di cui all’art. 3 della Convenzione526. Dunque, per determinare se le condotte delle forze di

polizia sono state tali da violare il minimo di gravità previsto dalla norma in analisi, e dunque attestarsi tra i comportamenti vietati, la Corte Edu ha fatto ricorso al principio di proporzionalità.

Per ciò che concerne l’ambito dell’uso della forza da parte delle forze dell’ordine, si deve dare atto che, anche in Italia, si sono registrati episodi di maltrattamenti nei confronti di coloro che si trovavano in condizioni di detenzione o comunque sotto l’autorità delle forze di polizia e che la Corte Edu ha qualificato come fatti integranti tortura.

524 P. GRASSO, commento sul Il secolo XIX dell’8 ottobre 2019.

525 Si veda ad esempio: Corte Edu, sentenza Ivan Vasilev contro Bulgaria, 12 aprile 2007, rif. n. 48130/99, p. 63; Corte Edu, sentenza Kurnaz e a. contro Turchia, 24 luglio 2007, rif. n. 36672/97, pp. 53-55; Corte Edu, sentenza Staszewska contro Polonia, 3 novembre 2009, rif. n. 100049/04, p. 53; Corte Edu, sentenza Muradova contro

Azerbaijan, 2 aprile 2009, rif. n. 22684/05, p. 109.

526 Così, ad esempio, Corte Edu, sentenza Rachwalski e Ferenc contro Polonia, 28 luglio 2009, rif. n. 47709/99, p. 59; Corte Edu, sentenza Kop contro Turchia, 20 ottobre 2009, rif. n. 12728/05, p. 27.

154 7.1. I fatti di Genova

Più precisamente, già con la sentenza 7 aprile 2015, Cestaro contro Italia527 – che trae origine dal ricorso presentato da un cittadino italiano, sessantaduenne all’epoca dei fatti oggetto di doglianza, gravemente ferito dalle forze di polizia a seguito dell’irruzione compiuta dalle stesse all’interno dei plessi scolastici “Diaz-Pertini” e “Diaz-Pascoli” di Genova – ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 Cedu.

A giudizio della Corte Edu, la polizia italiana, attraverso l’adozione di modalità operative non conformi all’ineludibile necessità di rispettare i valori protetti dall’art. 3 Cedu528, ha

contravvenuto all’obbligo negativo, discendente dalla medesima previsione convenzionale, di evitare condotte lesive del diritto all’integrità personale. I Giudici hanno qualificato i maltrattamenti subiti dal ricorrente come contrari al senso di umanità e, in specie, come tortura529.

Il ricorrente lamentava, inoltre, la violazione del divieto di tortura ex art. 3 Cedu sul versante processuale. Infatti, il combinato disposto degli artt. 3 e 1 Cedu esige che, quando la polizia o altre autorità pubbliche sono accusate di avere posto in essere un trattamento contrario all’art. 3 Cedu, lo Stato ha il dovere di compiere un’indagine ufficiale ed effettiva530. L’indagine – da svolgere

celermente531 – deve condurre all’identificazione e alla punizione dei responsabili: è certo che forme di «quasi-impunità» sono incompatibili, in concreto, con l’«interdizione formale» delle pratiche di tortura532. Le pene e le sanzioni disciplinari, così come il sistema giudiziario, debbono, poi, possedere un «effetto dissuasivo», strumentale alla prevenzione di condotte rilevanti ai sensi dell’art. 3 Cedu533. Dal canto loro, le autorità giudiziarie procedenti, e segnatamente gli organi investiti del giudizio, «non devono in alcun modo mostrare di lasciare impunite» tali condotte534. Conseguentemente, posto che il sistema convenzionale mira alla protezione di diritti «non teorici ed illusori, ma concreti ed effettivi»535, le sanzioni penali per tali fatti devono essere coerenti con gli scopi di prevenzione: spetta alla Corte effettuare un controllo nel caso in cui le pene irrogate siano non proporzionate alla gravità dei fatti. Ancora, in tema di divieto di trattamenti contrari all’art. 3 Cedu inflitti da funzionari pubblici, l’azione penale non può subire gli effetti della prescrizione.

527 Corte Edu, sentenza Cestaro contro Italia, cit. 528 Ibidem, p. 189. 529 Ibidem, p. 190. 530 Ibidem, p. 204. 531 Ibidem, p. 205. 532 Ibidem, p. 204. 533 Ibidem, p. 205. 534 Ibidem, p. 206. 535 Ibidem, p. 207.

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La Corte Edu ha così valutato la legge italiana in vigore al tempo in cui sono occorsi i fatti di Genova inadeguata a tutelare i diritti fondamentali sanciti dall’art. 3 Cedu536. Per tale motivo essa

aveva auspicato che l’ordinamento giuridico italiano si dotasse di strumenti idonei a punire in maniera adeguata i responsabili di atti di tortura e di altri trattamenti inumani ai sensi dell’art. 3 Cedu, nonché idonei «a evitare che costoro possano beneficiare di norme in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo»537.

Successivamente, il 26 ottobre 2017, la prima sezione della Corte europea dei diritti

dell’uomo ha pronunciato tre sentenze con le quali ha condannato nuovamente l’Italia per la

violazione del divieto di tortura di cui all’art. 3 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale sia procedurale. Con i casi Azzolina ed altri contro Italia538 e Blair e altri contro Italia539 sono stati portati a conoscenza della Corte Edu ulteriori abusi avvenuti nella caserma di Bolzaneto a margine del G8 di Genova nel 2001; mentre con il caso Cirino e Renne contro Italia540 i Giudici di Strasburgo sono

stati chiamati vagliare alcuni episodi di maltrattamenti subiti da due detenuti nel carcere di Asti nel 2004.

In tutte le sentenze, dal punto di vista sostanziale, è stato accertato che gli atti di tortura sono stati perpetrati dalle forze dell’ordine in modo sistematico e organizzato nei confronti di soggetti privati della libertà personale. Sotto il profilo procedurale, i giudici hanno invece riscontrato che, nonostante lo sforzo compiuto dalle autorità giurisdizionali italiane per accertare i fatti e individuare i responsabili, da un lato la risposta dell’ordinamento penale è stata inadeguata in ragione dell’assenza, all’epoca dei fatti, del reato di tortura; dall’altro lato anche i giudizi disciplinari a carico dei responsabili non sono stati efficaci, o perché non sono state proprio adottate misure disciplinari o perché i procedimenti sono stati privi di effetto sospensivo.

7.2. La morte di Aldrovandi

Non solo la giurisprudenza sovranazionale, ma anche quella italiana ha apertamente qualificato alcuni episodi come tortura.

536 Ibidem, p. 225. La Corte Edu ha, inoltre, rammentato come, quando esigenze di ordine pubblico e di sicurezza richiedano che gli agenti di polizia siano mascherati e protetti da caschi, sia necessario dotarli di un numero d’identificazione, utile per mantenerne l’anonimato nel caso in cui fosse necessario raccogliere da loro informazioni nel corso di un’indagine.

537 Ibidem, p. 246.

538 Corte Edu, sentenza Azzolina ed altri contro Italia, 26 ottobre 2017, rif. n. 28923/09 e n. 67599/10. 539 Corte Edu, sentenza Blair e altri contro Italia, 26 ottobre 2017, rif. nn. 1442/14, 21319/14 e 21911/14. 540 Corte Edu, sentenza Cirino e Renne contro Italia, 26 ottobre 2017, rif. nn. 2539/13 e 4705/13. Nella vicenda in esame, le condotte vessatorie e reiterate nel tempo consistevano principalmente in violenze fisiche perpetrate a danno di detenuti che erano soggetti a continui pestaggi ad opera delle guardie carcerarie. A tali atti di violenza si aggiungevano le privazioni: del sonno, del cibo, dell’acqua – ber bere e per lavarsi –, dei vestiti e della compagnia di altre persone. Si veda J. M. RAMPONE, Commento alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - Cirino e

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Ad esempio, il 25 settembre 2005, l’Italia è stata scossa dalla notizia della morte di Federico Aldrovandi, un ragazzo di 18 anni541.

Il giovane era uscito con gli amici e aveva assunto una piccola quantità di stupefacenti. All’alba, mentre si avviava da solo a piedi verso casa, è stato fermato da quattro agenti di polizia ed è, in seguito, deceduto.

I poliziotti hanno sostenuto che al loro arrivo il giovane stava dando in escandescenze e sbatteva la testa contro i pali della luce, urlando frasi sconnesse. Sempre secondo loro, Federico Aldrovandi era salito sul cofano della volante e, nel tentativo di colpire con un calcio un agente, era caduto, procurandosi ulteriori lesioni. Per immobilizzare il giovane, poi, gli sono state applicate le manette e, durante la colluttazione, gli agenti hanno dovuto usare gli sfollagente, sia per parare i calci che il giovane continuava a tirare, sia per sbilanciarlo. Due sfollagente si sono rotti in corrispondenza dell’impugnatura.

I quattro agenti, la cui ricostruzione dell’accaduto è risultata inverosimile, sono stati condannati a tre anni e sei mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo, in primo grado il 6 luglio 2009 e in appello il 10 giugno 2011. La sentenza è poi stata confermata dalla Corte di Cassazione.

È stato accertato che la morte del giovane ragazzo non era dovuta, secondo l’autopsia, a overdose, come sostenuto dalla difesa, bensì ad ipofissia-asfissia posturale; sul corpo del ragazzo erano presenti cinquantaquattro lesioni, minuziosamente descritte dai medici, il cui insieme appariva indiscutibilmente indicativo di uno scontro violento, prolungato, doloroso, di una serie continua di contatti violenti, effetto delle colluttazioni in cui Aldrovandi fu coinvolto542.

7.3. La morte di Cucchi

Anche la morte di Stefano Cucchi è un caso di cronaca giudiziaria che, sebbene non ancora conclusosi, richiama alla mente gravi atti perpetrati dalle forze dell’ordine, verosimilmente classificabili in termini di tortura543.

La vicenda giudiziaria si è articolata tra episodi di omertà e ricerca della giustizia e la strada per comprendere la verità – quanto meno quella processuale – è ancora lunga. Basti pensare che i

541 La vicenda è stata ricostruita in L. MANCONI V. CALDERONE, Quando hanno aperto la cella. Stefano

Cucchi e gli altri, Il Saggiatore, Milano, 2011, pp. 71 ss.

542 A conferma di questa ricostruzione, si veda Corte di Cassazione n. 36280/2012, con cui si è definitivamente conclusa la vicenda processuale.

543 «Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni»: così il Procuratore Eugenio Rubolino nella sua requisitoria al processo d’appello bis sulla morte del geometra romano.

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fatti in oggetto risalgono al mese di ottobre del 2009 e, ancora oggi, non si è addivenuti a un accertamento dei colpevoli della morte del geometra romano.

Tutto è iniziato nella tarda serata del 15 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi è stato arrestato perché possedeva venti grammi di hashish e alcune pastiglie (credute ecstasy, poi rivelatisi farmaci).

Di notte, dopo l’arresto, Cucchi – che presentava due ematomi intorno agli occhi – si è sentito male, ma ha rifiutato l’assistenza medica.

Il giorno dopo, l’uomo è stato portato in tribunale; il giudice ha deciso per la custodia cautelare in carcere (forse anche perché il verbale d’arresto indicava erroneamente che l’uomo non aveva fissa dimora) e Cucchi è stato accompagnato nel penitenziario romano di Regina Coeli.

Qui il dolore di Cucchi si è aggravato; il ragazzo è stato trasportato all’ospedale

Fatebenefratelli, in cui sono state diagnosticate due fratture vertebrali. Nonostante le insistenze dei

medici, Cucchi ha rifiutato il ricovero ed è stato quindi trasportato nel settore detentivo dell’ospedale Pertini, anziché in un reparto attrezzato più idoneamente.

Nel frattempo, il paziente in ospedale era visibilmente dimagrito. Il diario clinico testimonia che, fin dal suo ingresso in ospedale, «il paziente rifiuta[va] di alimentarsi ed idratarsi finché non avrà modo di parlare con il proprio avvocato o con un operatore della comunità terapeutica Ceis». Dunque, l’uomo stava attuando uno sciopero della fame al fine di veder riconosciuto il proprio diritto alla difesa, che gli era stato illegalmente negato fin dal primo momento dell’arresto544.

Plausibilmente, l’astensione dal cibo e dall’acqua per diversi giorni, nelle condizioni in cui il detenuto si trovava dopo aver subito violenze fisiche, lo hanno portato alla morte.

Il 5 giugno 2013 la III Corte d’Assise di Roma ha condannato in primo grado quattro medici dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma a 1 anno e 4 mesi e il primario a 2 anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico, mentre ha assolto sei tra infermieri e guardie penitenziarie.

Il 31 ottobre 2014, in appello, sono stati assolti tutti gli imputati, fra cui i medici.

La Corte di Cassazione nell’udienza pubblica del 15 dicembre 2015 ha disposto il parziale annullamento della sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per cinque dei sei medici dell’ospedale Pertini, precedentemente assolti. Secondo la sentenza, gli stati patologici di Cucchi, preesistenti e concomitanti con il politraumatismo per il quale fu ricoverato, avrebbero dovuto imporre maggiore attenzione e approfondimento da parte dei sanitari.

544 Il verbale d’arresto riporta il rifiuto di Cucchi di nominare un avvocato di fiducia, ma, in almeno due occasioni, il ragazzo ha manifestamente richiesto che venisse chiamato l’avvocato di famiglia: subito dopo l’arresto, quando è stato condotto a casa dei genitori per la perquisizione, e il giorno successivo all’arresto, quando – al giudizio per direttissima – ha visto arrivare l’avvocato d’ufficio.

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Il 18 luglio 2016 i cinque medici accusati di omicidio colposo sono stati nuovamente assolti perché “il fatto non sussiste”.

La I Sezione Penale della Cassazione, nell’udienza pubblica del 19 aprile 2017, ha disposto l’annullamento dell’ulteriore sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per i cinque medici dell’ospedale Pertini. Secondo la Corte di legittimità, i sanitari avevano dimostrato gravi negligenze per ritardi sia nella diagnosi, sia nelle cure, e per tale motivo la sentenza di assoluzione era contraddittoria ed illogica.

Nel settembre 2015 la Procura della Repubblica di Roma ha riaperto le indagini sul caso, questa volta a carico dei carabinieri presenti nelle due caserme dov’era avvenuta dapprima l’identificazione, quindi la custodia in camera di sicurezza di Stefano Cucchi, tra la sera del 15 e la mattina del 16 ottobre 2009, data dell’udienza del processo per direttissima.

Alla conclusione delle indagini preliminari, è stato chiesto il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti dei militari dell’Arma dei Carabinieri, accusati di aver colpito Cucchi con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni divenute mortali per una successiva condotta omissiva da parte dei medici curanti, e per averlo comunque sottoposto a misure restrittive non consentite dalla legge545.

Uno dei militari rinviati a giudizio ha successivamente presentato una denuncia contro ignoti, nella quale ha lamentato la scomparsa di un’annotazione di servizio da lui redatta il 22 ottobre 2009 e indirizzata ai suoi superiori nella quale esponeva i fatti accaduti nella notte fra il 15 e il 16 ottobre precedente. In particolare, egli descriveva di avere assistito al pestaggio del geometra romano presso la caserma dei carabinieri di “Roma Casilina” da parte dei suoi colleghi, violenza a cui inutilmente aveva cercato di porre fine.

A seguito di tale denuncia, il Pubblico Ministero ha iscritto nel registro degli indagati ulteriori militari dell’Arma, accusati di falso, di aver sviato i processi verso persone che non avevano alcuna responsabilità e di omicidio preterintenzionale.

Il “Processo-bis” contro i militari è tutt’ora in atto. La Corte d’Assise di appello di Roma ha condanno, il 14 novembre 2019, a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale due dei carabinieri imputati; la seconda Corte d’Assise di appello di Roma ha deciso quattro prescrizioni e un’assoluzione nei confronti dei cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini, in cui Cucchi morì il 22 ottobre 2009, sette giorni dopo il suo arresto. Un altro processo legato al caso Cucchi – in

545 Il carabiniere Francesco Tedesco, insieme con il collega Vincenzo Nicolardi e il maresciallo Roberto Mandolini, deve altresì rispondere dell’accusa di falso e calunnia, per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, e per l’accusa di aver testimoniato il falso al processo di primo grado, avendo fatto dichiarazioni che portarono all’accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità nei confronti di Cucchi.

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particolare alle accuse di depistaggio nei confronti di otto carabinieri – è di recente stato rinviato per l’astensione del giudice incaricato.

7.4. Prime contestazioni del reato di tortura

Dopo l’entrata in vigore del reato di tortura, iniziano ad esservi le prime applicazioni della fattispecie, sia nei confronti di pubblici ufficiali sia di privati.

La Procura di Siena ha infatti contestato a quindici indagati, tutti agenti penitenziari, una serie di reati tra cui quello di tortura. Gli atti di violenza sarebbero stati perpetrati nei confronti di un detenuto, picchiato con pugni e calci in un corridoio e poi lasciato svenuto in una cella. L’organo inquirente sospetta non si tratti però di un caso isolato. Nel carcere di San Gimignano sarebbero infatti avvenute anche altre violenze, almeno secondo la denuncia presentata da altri detenuti di quello stesso carcere.

Il nuovo reato di tortura viene contestato altresì dalla Procura di Milano non nelle dinamiche patologiche all’interno di carceri, uffici di forze di polizia o centri di detenzione di migranti, ma nell’ambito domestico di violenze in famiglia: a un padre accusato di aver torturato (maltrattato e ucciso) il figlio di due anni.

Mehmed fu trovato morto in casa a Milano il 22 maggio scorso, e subito era emerso un contesto di violenze paterne. Ma adesso, nell’avviso di conclusione delle indagini, al padre Aljica Hrustic il pubblico miniestero imputa non soltanto l’omicidio volontario e i costanti maltrattamenti nei mesi precedenti, ma appunto anche la «tortura» nell’ultima notte: la configurabilità del reato, secondo la linea sviluppata dall’accusa, viene individuata in alcuni gesti di violenza che, nel contesto delle condotte di maltrattamenti, sarebbero stati connotati da gratuita crudeltà provocando acute sofferenze fisiche al bimbo sottoposto alla sua custodia, potestà e cura: pugni e calci in testa, la lacerazione del labbro superiore, morsi sulle braccia e sulla schiena, e ustioni con fiamma viva sotto le piante dei piedi.

Le prime contestazioni del reato di tortura nei confronti di soggetti, siano essi pubblici ufficiali o “semplici” privati, per fatti connotati di un’inaudita crudeltà e gravità lasciano riflettere su quando l’introduzione della fattispecie fosse necessaria per attuare una “vera” giustizia penale e fornire il nostro sistema di strumenti idonei a sanzionare in maniera proporzionata crimini efferati.