• Non ci sono risultati.

L’inadeguatezza delle disposizioni incriminatrici pre-esistenti al delitto di tortura

Di fronte a una condotta che potrebbe essere descritta come tortura, prima dell’entrata in vigore della legge 110/2017, le autorità giudiziarie italiane sono intervenute con gli strumenti esistenti nel codice penale e nel codice penale militare di guerra.

Le incriminazioni esistenti, però, si sono dimostrate pienamente inadeguate a svolgere il compito che viene loro affidato dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali di cui l’Italia è parte.

2.1. Il codice penale militare di guerra

In occasione della partecipazione di un contingente italiano all’operazione multinazionale in Afghanistan denominata Enduring Freedom, il legislatore ha introdotto con la legge 31 gennaio 2002, n. 6, di conversione del decreto legge 1 dicembre 2001, n. 421, alcune modificazioni al codice penale militare di guerra.

Ciò che qui interessa381 è l’introduzione, ad opera dell’art. 2 della l. 6 del 2002, dell’art. 185

bis c.p.mil.guerra, rubricato Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali,

che così recita: «salvo che il fatto costituisca più grave reato, il militare che, per cause non estranee alla guerra, compie atti di tortura o altri trattamenti inumani, trasferimenti illegali, ovvero altre condotte vietategli dalle convenzioni internazionali, inclusi gli esperimenti biologici o i trattamenti medici non giustificati dallo stato di salute, in danno di prigionieri di guerra o di civili o di altre persone protette dalle convenzioni internazionali medesime, è punito con la reclusione militare da uno a cinque anni».

La legge 27 febbraio 2002 ha successivamente aumentato il minimo edittale a due anni di reclusione militare, lasciando invariato il tetto massimo di pena.

La norma, però, non è esente da critiche.

380 A. PUGIOTTO, Repressione penale, cit., p. 133.

381 La legge ha modificato anche altri interessanti profili, relativi fra l’altro alle condizioni di procedibilità per i reati contro le leggi e gli usi di guerra, alla giurisdizione dei fatti commessi all’estero e all’applicabilità del codice penale militare di guerra nelle operazioni di pace. Per approfondire questi aspetti, si veda R. RIVELLO, Gli episodi di

111

Innanzitutto, la disposizione in esame raggruppa una serie di condotte tra loro eterogenee, che sarebbe stato forse opportuno differenziare382.

In secondo luogo, la norma non è adeguatamente coordinata né con la sezione in cui è inserita, né con l’articolo subito precedente383.

In terzo luogo, la fattispecie non è compiutamente determinata, come richiederebbe il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Infatti, è assente una descrizione del fatto tipico: i semplici riferimenti ai termini «tortura» e «trattamenti inumani» si prestano facilmente a molteplici interpretazioni.

In quarto luogo, la sanzione non risulta affatto adeguata al disvalore delle condotte vietate. Addirittura, c’è la concreta possibilità che la pena detentiva effettivamente inflitta non sia superiore a due anni, rendendo così applicabile al torturatore il beneficio della sospensione condizionale ex art. 163 c.p.384 I comportamenti di cui si tratta sono necessariamente dolosi e implicano particolare

crudeltà ed efferatezza: la previsione di «pene miti nei confronti dei militari italiani che si rendano responsabili di crimini di guerra così gravi costituisce, oltre che una violazione di trattati di cui l’Italia è parte, anche un’offesa alla dignità dello Stato»385.

Inoltre, considerato che pene così lievi potrebbero essere sintomo di una non effettiva intenzione dello Stato di esercitare la sua giurisdizione, l’art. 185 bis potrebbe comportare la sottoposizione degli individui già giudicati dalle autorità italiane a un nuovo giudizio di fronte alla Corte penale internazionale, che ha competenza complementare, inter alia, quando «il procedimento è o è stato condotto, ovvero la decisione dello Stato è stata adottata, nell’intento di proteggere la persona interessata dalla responsabilità penale per i crimini di competenza della Corte»386.

Ad evidenziare l’inadeguatezza del quadro sanzionatorio interviene anche l’estrema importanza pratica della clausola di riserva contenuta in apertura della disposizione: «salvo che il fatto costituisca più grave reato». La clausola mira a evitare che, alla luce del principio di specialità, venga applicato solo l’art. 185 bis c.p.mil.guerra anche quando le condotte realizzate integrano reati

382 P. P. RIVELLO, Le ‘risposte’ nazionali ai crimini di guerra: analisi di una serie di incertezze e lacune, in La

Comunità internazionale, 2003, p. 65; R. RIVELLO, Gli episodi di tortura, cit., p. 25.

383 L’art. 185, che dovrebbe sanzionare condotte più gravi, comprende tra i possibili soggetti lesi solo i “privati nemici” e non tutte le “persone protette dalle convenzioni internazionali”, con la conseguenza paradossale che, nei confronti di molti soggetti, avranno sanzione adeguata solo le violenze più lievi (R. RIVELLO, Gli episodi di tortura, cit., pp. 25-26). Anche l’intitolazione della sezione II, capo III, titolo IV del libro III c.p.mil.guerra, richiederebbe una modifica, considerato che si riferisce solo a offese “contro le persone private nemiche o a danno di beni nemici” (Ibidem, p. 26 e P. P. RIVELLO, Le “risposte” nazionali ai crimini di guerra, cit., pp. 65-66)».

384 Si veda A. LANZI- T. SCOVAZZI, Una dubbia repressione della tortura e di altri gravi crimini diguerra, in

Rivista di diritto internazionale, 2004, p. 690.

385 Ibidem, p. 692.

112

più severamente puniti, come, ad esempio, i delitti di lesione personale e lesione personale aggravata (artt. 582 e 583 c.p.) o di maltrattamenti verso infermi, feriti o naufraghi (art. 192, comma 2, c.p.mil.guerra)387. Di conseguenza, proprio gli illeciti più gravi, che meriterebbero la qualificazione di vera e propria tortura, ricadranno nella previsione di fattispecie penali comuni, perché per queste sono previste pene più gravi388.

Questo risultato pratico porta a pensare che il legislatore non abbia inteso seriamente punire il reato di tortura: se così fosse stato, avrebbe previsto per il delitto una cornice edittale consona al suo disvalore e tale da renderlo applicabile alle condotte caratterizzate da maggiore efferatezza.

2.2. Le incriminazioni esistenti nel codice penale prima dell’introduzione di un reato ad hoc Anche nel codice penale, nella versione precedente all’introduzione di un reato ad hoc, la ricerca di norme applicabili a un caso di tortura mostrava un quadro normativo del tutto insoddisfacente.

In passato si riteneva che l’obbligo espresso di incriminazione formulato dall’art. 13, comma 4, Cost. fosse attuato per mezzo dell’art. 608 c.p. ai sensi del quale «1. Il pubblico ufficiale, che sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente, è punito con la reclusione fino a trenta mesi. 2. La stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro pubblico ufficiale rivestito, per ragione del suo ufficio, di una qualsiasi autorità sulla persona custodita».

Tuttavia, la norma non è volta a tutelare l’integrità psicofisica del detenuto, ma solo la sua libertà personale389: le misure di rigore non consentite dalla legge sono «tutte quelle modificazioni in senso peggiorativo del trattamento che si risolvano in una limitazione della libertà personale ulteriore rispetto a quella cui il soggetto passivo è legittimamente sottoposto»390. L’art. 608 c.p. vieta dunque una particolare figura di sequestro di persona, integrato dall’atteggiamento di un pubblico ufficiale che imponga al soggetto in vinculis limitazioni ulteriori (o applicate con modalità diverse) rispetto a quelle che sono legalmente prescritte. «Non rientrano, invece, nella condotta descritta dall’art. 608 tutti quei fatti lesivi di beni giuridici diversi dalla libertà personale del soggetto passivo: non, in particolare, percosse e lesioni, né ingiurie, molestie sessuali o altri maltrattamenti»391. La disposizione è quindi completamente inadatta a punire «ogni violenza fisica

387 Ibidem, p. 690.

388 R. RIVELLO, Gli episodi di tortura, cit., p. 26.

389 A. COLELLA, C’è un giudice a Strasburgo, cit., pp. 1838-1839.

390 E. DOLCINI - G. MARINUCCI, Codice penale commentato, Vol II, 2006, art. 608, p. 4206. 391 Ibidem, p. 4206.

113

e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà», come richiede l’art. 13, comma 4, Cost.

Quanto agli obblighi di repressione penale della tortura che discendono dall’adesione dell’Italia a diversi accordi internazionali, sia il Comitato ONU per i diritti umani, sia il Comitato ONU contro la tortura, sia il Comitato europeo per la prevenzione della tortura avevano più volte espressamente chiesto al nostro Paese di creare un’apposita norma incriminatrice.

Fin dalle prime sollecitazioni in tal senso, il governo italiano si era limitato a informare le istituzioni sovrannazionali del fatto che sussistevano diversi disegni di legge i quali erano sottoposti all’esame delle Camere, che stavano «studying the implications of the procedures necessary to put

into effect»392.

Nel contempo, però, lo stesso Governo aveva continuato ad avanzare con insistenza la tesi della non necessità di una norma incriminatrice ad hoc, basandosi su due principali ragioni.

La prima argomentazione si fondava sulla conformità dell’ordinamento italiano agli obblighi di prevedere la tortura come reato, poiché tutte le condotte di cui si richiedeva l’incriminazione erano sanzionate da un complesso di figure criminose non specifiche393. In particolare, ogni

possibile forma di maltrattamento sarebbe stata “coperta” dalle norme che proibiscono le percosse (art. 581 c.p.); le lesioni (artt. 582-583 c.p.); il sequestro di persona (art. 605 c.p.); l’arresto illegale (art. 606 c.p.); l’indebita limitazione della libertà personale (art. 607); l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.); la violenza privata (art. 610 c.p.); la minaccia (art. 612); lo stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.).

Un primo profilo di criticità era individuabile nella mitezza delle pene previste dalle disposizioni citate. Le figure di delitto con le quali in Italia si reprimeva la tortura prevedevano pene detentive che vanno da un minimo di quindici giorni a un massimo (nelle forme non aggravate) di soli quattro anni (fatta eccezione solo per il sequestro di persona). Risultava evidente che simili quadri edittali non garantivano una severità repressiva adeguata alla gravità dei comportamenti che si intendevano proibire394. Inoltre, data la tendenza invalsa nella prassi di irrogare la pena in un

392 Rapporto periodico dell’Italia, (1997) CCPR/C/103/Add. 4, p. 9. Si tratta di una formula certo non molto impegnativa (A. MARCHESI, L’attuazione in Italia degli obblighi internazionali di repressione della tortura, in Rivista

di diritto internazionale, 1999, p. 464, nota 4).

393 Si veda, ad esempio, Summary Records sull’Italia, (1998) CCPR/C/SR.1679, p. 20: «no act of ill treatment

or torture could go unpunished and judjes were in a position to ensure that the penalties imposed were commensurate with the gravity of the offence» e p. 21; oppure Rapporto periodic dell’Italia, CAT/C/9/Add. 9, p. 36; Rapporto

periodico dell’Italia, (1994) CAT/C/25/Add. 4, p. 5. A. MARCHESI, L’attuazione in Italia degli obblighi internazionali, cit., pp. 464 - 465, 467; M. E.LANDRICINA, Il crimine di tortura, cit., pp. 14-15.

394 L’espressione è di M. E. LANDRICINA, Il crimine di tortura e le responsabilità internazionali dell’Italia, su

114

quantum prossimo al minimo edittale, era possibile (e facile) che venissero bagatellizzate condotte

invece meritevoli di forte repressione e stigmatizzazione395.

Il secondo profilo di criticità della tesi governativa era una conseguenza diretta del primo. La previsione di pene miti portava con sé l’applicabilità di una serie di istituti a favore del reo, evidentemente troppo indulgenti rispetto a condotte riprovevoli come quelle di tortura. La gran parte dei reati citati, infatti, ricade agevolmente nell’ambito di applicazione della sospensione condizionale della pena, dell’affidamento in prova ai servizi sociali, di eventuali provvedimenti di indulto396.

Inoltre, i termini di prescrizione che conseguono a pene tanto basse sono estremamente brevi, tanto da non permettere a un’inchiesta delicata di arrivare in tempo utile a una condanna definitiva, con la conseguenza che spesso le sanzioni non venivano neanche irrogate o eseguite397.

Dunque, le norme incriminatrici contemplate dall’ordinamento penale italiano non sono dotate di effettività e capacità dissuasiva, tali da garantire adeguatamente il fondamentale diritto all’integrità fisica398. Anzi, di fronte al quadro normativo pre-esistente, i torturatori avrebbero

potuto sentirsi liberi di agire, nella presunzione di una quasi totale impunità399.

Proseguendo con le obiezioni alla giustificazione del Governo, si può rilevare che le forme di tortura e maltrattamento solo psicologiche o morali non risultavano “coperte” da alcuna delle incriminazioni pre-esistenti400.

Quindi, anche volendo trascurare tutte le considerazioni in merito all’adeguatezza della pena e alla portata simbolica di una norma ad hoc, la tesi secondo cui tutti gli atti di tortura sarebbero comunque incriminati dalla legge italiana non sarebbe stata veritiera.

Ed ancora, una copertura frammentaria delle condotte vietate dalla Convenzione contro la

tortura del 1984 sembrerebbe soddisfare solo alcuni profili di questo accordo. È vero che l’art. 4,

comma 1, CAT stabilisce semplicemente che «qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale»401, e non richiede espressamente una specifica, autonoma incriminazione.

395 A. COLELLA, C’è un giudice a Strasburgo, cit., p. 1839. 396 Ibidem, p. 1839.

397 Ibidem, p. 15.

398 A. COLELLA, C’è un giudice a Strasburgo, cit., p. 1838. 399 M. E. LANDRICINA, Il crimine di tortura, cit., p. 17.

400 A. MARCHESI, L’attuazione in Italia degli obblighi internazionali di repressione della tortura, in Rivista di

diritto internazionale, 1999, pp. 466-468; M. E. LANDRICINA, Il crimine di tortura, cit., p. 15.

401 Tesi sostenuta da J. H. BURGERS - H. DANELIUS, The United Nations Convention against Torture. A

Handbook on the Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, cit.,

115

Tuttavia, una copertura frammentaria del reato non soddisfa gli obblighi sanciti negli artt. 4, comma 2, e 5 della CAT402.

La prima di queste disposizioni decreta che le torture dovranno essere represse con «pene adeguate che ne prendano in considerazione la gravità»: sembra difficile che tale obbligo possa essere attuato tramite l’invocazione di una serie di reati generici, che coprono disorganicamente e solo in parte la gamma degli atti di tortura.

L’art. 5, poi, sancisce il principio della giurisdizione universale in merito alle trasgressioni del divieto di tortura.

La seconda tesi che i rappresentanti dello Stato italiano adducevano a giustificazione della non introduzione del reato di tortura si fondava sulla pretesa efficacia diretta delle norme convenzionali che obbligano gli Stati in tal senso. Sarebbe stato cioè superfluo un intervento delle Camere, dal momento che le norme che proibiscono la tortura, contenute in alcuni strumenti internazionali ratificati dall’Italia, avrebbero carattere self-executing e sarebbero quindi direttamente applicabili nell’ordinamento interno403. Questa argomentazione è però esposta a critiche. Infatti, il

supposto adattamento automatico non avrebbe dotato comunque il nostro ordinamento di una cornice edittale, perché le norme internazionali non fissano standard sanzionatori (e non potrebbero farlo, considerato il principio nullum crimen, nulla poena sine lege)404.

Il compito di comminare la sanzione penale poteva essere svolto solo attraverso l’introduzione di una norma incriminatrice interna.