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Si è tentato di delineare i tratti generali dei movimenti resistenziali presi in esame per evidenziare le differenze che intercorrono tra due fenomeni nati con il medesimo scopo, ma in tempi e spazi bellici differenti.

Un’ultima notazione prima di tirar le fila della trattazione fin qui svolta: nonostante i diversi gradi di coinvolgimento di ciascuno, “au total, tous les milieux participèrent au combat, ce qui construit la résistance comme un phénomène interclassiste, échappant à tout déterminisme social”48. La guerra in patria e l’occupazione territoriale furono (e sono

47 Peli, op.cit., pag 110.

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tutt’oggi) esperienze totalizzanti per chi le vive, che sanciscono quindi la partecipazione di tutte le classi sociali, per quanto “cette participation demeura inégale”49.

In Francia si rileva in primo luogo, in proporzione al numero di abitanti, una sovra rappresentazione nell’impegno resistenziale di operai e classi medie, con un coinvolgimento tardivo del mondo contadino, chiamato in causa dopo lo Sto e a pochi mesi dall’insurrezione che accompagnò lo sbarco alleato. La presenza di operai si spiega per il fatto che essi fossero ai margini dalle politiche dell’Etat Français, che vedeva in loro le masse agitatrici che avevano decretato la vittoria del Fronte popolare, oltre al fatto che il settore industriale fu colpito in prima battuta dall’irrigidimento delle condizioni lavorative e le requisizione di manodopera tedesche. Quella operaia era inoltre la filiera di reclutamento del PCF, inizialmente provato dalla clandestinità, ma a partire dal ‘42 il partito più attivo e armato della Resistenza interna. Elementi delle classi medie inoltre, legate ai valori libertari e repubblicani, si risentirono tra i primi delle politiche tradizionaliste e reazionarie di Vichy, e fornirono spesso competenze professionali e impegno materiale per la stampa e la propaganda. In Italia il fenomeno fu altrettanto interclassista, ma interessò componenti sociali differenti. La prima considerazione che salta all’occhio sulla Resistenza italiana, talvolta chiamata vento del Nord, è appunto l’esclusione del Sud Italia da un’esperienza di tanto rilievo nella memoria nazionale successiva. Infatti, seppur non bisogna dimenticare la Resistenza attiva non armata e la sollevazione che portò alla cacciata dei tedeschi da Napoli, il Sud non conobbe episodi di Resistenza armata paragonabili a quelli che avvennero nella retrovie tedesche. Per quanto riguarda invece la zona occupata, la base per la formazione di gruppi partigiani fu quel “numero relativamente piccolo di antifascisti politicamente coscienti”50 che ebbe come bacino di reclutamento i militari sbandati dell’esercito italiano e i prigionieri di guerra alleati e jugoslavi che erano riusciti a fuggire dopo l’armistizio. Un gran numero di giovani giunse poi tra le formazioni per sottrarsi allo Sto, ma soprattutto ai bandi di reclutamenti di Graziani, che, con i suoi tentativi di costruzione di un esercito repubblicano, aumentò notevolmente il numero di aderenti ai gruppi partigiani. Occorre tuttavia notare che tali adesioni, così come per i refrattari allo Sto in Francia, non aumentarono il peso militare dei resistenti, poiché si trattava di individui desiderosi di nascondersi più che di combattere, su cui occorreva operare un lavoro di politicizzazione e addestramento militare che avrebbe richiesto tempi impensabili.

49 Ibidem.

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Riteniamo infine di dover ribadire che nell’analisi di tali fatti, l’antecedenza degli avvenimenti in Francia sia un dato di grande importanza. Travolta da una sconfitta inattesa, la patria della Republique si ritrovò in uno stato d’occupazione ratificato da un Parlamento legittimamente in carica, che per due anni conservò peraltro il controllo su una porzione di territorio. La politica reazionaria e conservatrice portata avanti dal governo Pétain era inoltre benvista dalla fetta della popolazione francese che aveva considerato il Fronte popolare un affronto a “l’ordre, la famille, la patrie”. I partiti e i sindacati in Francia erano forze politiche strutturate e proliferate in un contesto di regolarità democratica, incapaci di reagire al rivolgimento militare e politico che le disperse, rendendole inadeguate a guidare o inquadrare le azioni di resistenza sorte dalla società civile. La convergenza dei movimenti verso l’obiettivo comune, e dunque la nascita del Conseil national de la Resistance, fu perseguito su un impulso esterno che agì probabilmente più per reazione che come fattore aggregante. De Gaulle era uno sconosciuto generale dell’esercito francese quando decise che non avrebbe accettato l’armistizio, in sostanza un ribelle nei confronti del proprio governo e del proprio Stato maggiore che aveva deciso di deporre le armi. Egli inviò quindi i propri rappresentanti sul territorio metropolitano con lo scopo di trovare aderenti alla sua ribellione, per ottenere da tali aderenti i consensi interni necessari a essere accreditato presso gli Alleati quale rappresentante del popolo francese. I movimenti, e in secondo luogo i partiti, della Resistenza interna si aggregarono nel CNR, impegnandosi a inserirvi i propri uomini, per veder riconosciuto il proprio ruolo, militare e politico, in sede internazionale; ed evitare così che De Gaulle assumesse sulla propria persona, operante a chilometri da Parigi, i meriti di anni di propaganda e azioni contro i tedeschi, i cui rischi essi avevano vissuto sulla propria pelle. Si potrebbe forse dire che la Resistenza francese si unificò più per reazione alla persona di De Gaulle che per la sua azione, ma resta il fatto che sarà tale realizzata unità a darle peso contrattuale presso gli Alleati. In poche parole la Resistenza, o meglio le Resistenze francesi (quella interna e quella esterna), compirono un cammino lungo e tortuoso, in un’Europa potenzialmente nazista, per legittimarsi vicendevolmente, e dunque abbattere agli occhi degli spettatori-alleati internazionali, la legittimità parlamentare di Vichy.

La Resistenza italiana si realizzò invece in una fase della seconda guerra mondiale in cui si dava per scongiurata la minaccia di un’Europa dominata dal nazismo, con gli Alleati già sul territorio nazionale e in un paese in cui, dopo il crollo del fascismo, era discutibile la legittimità del governo. L’unica persona che avrebbe potuto incarnare un’autorità statale era il re, la cui credibilità gli occhi della popolazione fu però messa in discussione dall’incapacità

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di trattare con i nemici, e con il vecchio alleato, per tirar fuori l’Italia dalla guerra. Infatti neppure le forze armate, la cui fedeltà al re Mussolini non era stato in grado di minare, ottennero una guida dal proprio capo che, fuggendo da Roma, riportò la Città eterna, dopo secoli e secoli, nelle mani del tedesco invasor di risorgimentale memoria. Infatti, al cospetto della maggioranza della popolazione italiana estranea a posizioni ideologiche, non furono la collusione e il sostegno al fascismo a screditare il re e Badoglio, quanto l’incapacità e l’abbandono: “la possibilità e la necessità di produrre una nuova classe dirigente […] nascono da qui, dal disastro nazionale”51. E’ in questo paese di sbandati alla ricerca di una guida, di una società civile che si muove ma non si struttura in movimenti organizzati, che ritornarono i membri di partiti e sindacati da oltre un decennio illegali ed esiliati. Gruppi politici, che avevano mantenuta una pallida imitazione delle proprie strutture in clandestinità, si attivarono subito dopo il crollo del fascismo per fornire una guida, e istituzionalizzare, le energie di una società civile aspirante a farsi forza politica, con lo scopo di generare, oltre Badoglio e oltre Salò, un’autorità statale da cui la popolazione potesse sentirsi protetta.

In un’estrema sintesi semplificante, potremmo dire che in Francia un fronte interno allenato all’agone politico si alleò con un generale ribelle contro un governo legittimo che appoggiava l’occupante. In Italia invece, dei partiti risorti si allearono con un’opinione pubblica politicamente analfabeta per darsi un governo che li rappresentasse davvero contro l’occupante e al cospetto degli Alleati.

La Francia sopportò un’occupazione più lunga e dagli esiti più incerti, questo spiega la cautela con cui furono attivate azioni di resistenza. I passi e le conquiste dell’opposizione all’occupante risultano invece più incalzanti e concitate nel caso italiano, poiché i partiti antifascisti erano già stati attivati da tre anni di guerra europea, e allenati alla clandestinità da anni di persecuzioni fasciste. La Resistenza italiana beneficiò quindi della differente congiuntura bellica, che vedeva una Germania indebolita rispetto al ‘40, ma anche della propria differente condizione politica allo scoppio della guerra. L’incapacità bellica del re e dell’Italia fascista offrirono all’antifascismo clandestino una possibilità di legittimazione agli occhi della popolazione, mettendo in campo un numero ristretto di individui altamente preparati alla lotta, grazie all’esperienza nella guerra di Spagna o nella Resistenza del sud della Francia.

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Nel prossimo capitolo compiremo un excursus sullo stato dei Partiti comunisti francese e italiano negli anni ‘30, per verificare il peso tale periodo, in particolar modo la fase dei Fronti nazionali, ebbe nella preparazione e nella conduzione della guerra all’occupante.

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Capitolo secondo

“Chi è il partigiano? È un cittadino che difende con le armi alla mano la sua patria dall’invasore straniero. Ma egli non lo fa come soldato nelle file dell’esercito regolare e su un fronte, bensì lontano dal fronte, dietro di esso, nelle retrovie dell’esercito nemico invasore. Il suo campo di battaglia è perciò il più vario, il più complicato che si possa immaginare. Esso è la campagna dove un’imboscata sorprende le unità nemiche e le decima. È la strada ferrata su cui uno scoppio inatteso fa saltare il ponte o il viadotto nel momento preciso in cui passa un treno militare. È la strada del villaggio dove all’improvviso un gruppo di uomini armati appare, tempesta di granate un posto di guardia o la sede di un comando e scompare altrettanto improvvisamente. È la città dove i magazzini militari prendono fuoco, le stazioni elettriche che fanno funzionare le officine saltano, i depositi di munizioni esplodono uno dopo l’altro. Le armi del partigiano sono tutte quelle che possono servire per recare danno al nemico: dalle forbici per tagliare i fili elettrici, dal coltello che uccide in silenzio, sino alla bomba a mano e alla mitragliatrice. Il partigiano ha un obiettivo, una legge: in tutti i modi possibili recar danno al nemico, impedirgli di muoversi liberamente, rallentare e paralizzare i suoi movimenti, annientarlo.1

In uno stato occupato molti piccoli gesti, spontanei e quotidiani, possono essere catalogati quali atti di Resistenza, tuttavia la Resistenza armata, tanto in Italia quanto in Francia, fu la realizzazione delle intenzioni di gruppi ristretti, appartenenti a movimenti o legati a un’organizzazione partitica e sindacale. È errato pensare alle Resistenza europee come guerre di massa, esse furono piuttosto il frutto di un’azione organizzata, che riuscì poi in varia misura a coinvolgere la popolazione. Se la nascita delle bande sia più o meno spontanea è tema che oltrepassa la nostra trattazione, ma armarle e prepararle alla lotta contro un nemico comune fu il risultato di un lavoro politico, portato avanti, tra gli altri, dai comunisti. Nonostante tutti i resistenti operassero in nome della libertà e dell’indipendenza nazionale, i comunisti lottarono nella prospettiva di un’ulteriore funzione storica, come soldati dell’Unione Sovietica, avanguardia dei proletari di tutto il mondo. Per quanto le pubblicazioni e le testimonianze di protagonisti della guerra di liberazione si presentino spesso sotto forma di narrazioni mitiche, è necessario leggervi l’impegno e la fede che animarono la partecipazione dei comunisti alla lotta antifascista. Dunque, se è vero che “la storia senza storia delle rappresentazioni, senza la realtà del vissuto degli attori, non è più per niente storia”2, la comprensione dei fatti che tratteremo richiede la consapevolezza dell’importanza della linea di partito nell’immaginario del militante comunista. Vedremo

1

Mario Correnti, Discorsi agli italiani, pag. 123.

2 Stéphane Courtois, Denis Peschanski, Adam Rayski, “Le sang de l’étranger. Les immigrés de la M.O.I.

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come, a partire dall’offensiva di Hitler contro l’URSS, Stalin chiamò i comunisti di tutto il continente a costituire un esercito partigiano nelle retrovie nemiche; e come tale appello fu accolto e applicato nelle città italiane e francesi, nonostante i rischi e i contrasti da esso generati. Il discorso di Togliatti riportato descrive bene ciò che un partigiano, e ancor più il gappista, doveva essere nelle intenzioni del Partito: soldato di un esercito internazionale che fosse però dotato di spirito patriottico, pronto ad eseguire a sangue freddo un’operazione studiata, con la capacità di improvvisare e adattarsi alla situazione. Vedremo come la realtà fu spesso diversa, vincolata alla contingenza e all’imprevisto, fermo restando che la caratteristica centrale delle organizzazioni destinate alla guerriglia urbana fu la loro emanazione essenzialmente comunista, che richiese l’adesione ideologica che contraddistinsero i Francs-Tireurs francesi (e non) e i gappisti italiani. Le testimonianze e i documenti relativi al periodo della clandestinità sono ricchi di ricordi rielaborati e corretti, ma nel formalismo della loro stesura si percepisce come i loro redattori fossero propriamente dei dipendenti del partito. Essi volontariamente lavoravano e acquisivano esperienza e mansioni di responsabilità, traendo sostentamento per sé e per la propria famiglia dal lavoro per il partito, che si occupava anche di inviare pacchi agli internati e delle famiglie dei caduti. In quest’ottica totalizzante, la vicenda della Resistenza urbana presenta le situazioni elencate da Togliatti al massimo grado di rischio, in quanto rappresenta il più diretto tentativo di applicazione della direttiva: “in tutti i modi possibili recar danno al nemico,

impedirgli di muoversi liberamente, rallentare e paralizzare i suoi movimenti, annientarlo.”

Se infatti i partigiani in montagna ebbero una vita dura, esposti al freddo, alla fame e ai rastrellamenti, essi erano parte di un’esperienza collettiva, di condivisione di conoscenze e difficoltà. Il terrorista urbano invece, secondo le più strette regole cospirative, viveva isolato, in totale clandestinità, e intratteneva i soli rapporti necessari allo svolgimento della sua funzione, ovvero ricevere le direttive da un superiore e pianificare il colpo con al massimo tre militanti e un paio di staffette. Abitava un appartamento che era sempre pronto a lasciare nel caso non si fosse rivelato sicuro, la paga del partito e qualche tessera per il mercato nero rappresentavano la sua unica fonte di sostentamento. La pratica della clandestinità richiedeva l’abbandono di ogni impegno familiare o lavorativo, oltre al superamento di remore morali necessario a piazzare una bomba in un luogo pubblico o colpire a viso aperto un nemico. In caso d’arresto la prescrizione era resistere alle torture 24 ore, o ancor meglio 48, prima di rivelare indirizzi e luoghi d’incontro, per dare il tempo ai compagni di abbandonarli.

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Vedremo come il rispetto di tali regole fu in realtà largamente disatteso nella pratica della lotta, per inesperienza, entusiasmo o incapacità di isolarsi.

Questo scenario ci porta quindi dalle scelte internazionali agli indirizzi nazionali dei partiti comunisti, sino ai risvolti individuali, lungo la gerarchia degli apparati dipendenti dal Komintern. Per ribadire ancora una volta che, nell’ottica dei protagonisti, l’omicidio o l’attacco dinamitardo non furono mai il reale fine dell’azione terroristica, ma sempre il suo mezzo, in quanto lo scopo del terrorismo era e restava politico. Si intendeva cioè rappresentare un esempio per le masse, per “creare un’atmosfera di guerra”3 e dimostrare che la lotta all’invasore era possibile.

Il terrorismo in città durante la Resistenza fu quindi un metodo d’azione adottato dai soli partiti comunisti, realizzato da una minoranza di militanti con lo scopo politico di spingere le masse all’azione. Tale configurazione rende necessaria una panoramica sulla situazione dei Partiti comunisti francese e italiano al momento dell’ingresso in guerra e sulla loro condotta nel corso del conflitto e delle Resistenze, con particolare attenzione allo sviluppo della guerriglia in città, alla sua natura e ai suoi fini. Supera largamente l’intento di questo lavoro render conto del gran numero di uomini impiegati e di azioni realizzate. Inoltre, spinti dall’esigenza selettiva che caratterizza ogni lavoro storico, illumineremo dell’esperienza francese quanto necessario a inquadrarne l’importanza per la sopravvivenza (e lo sviluppo) dell’antifascismo italiano. Terremo quindi particolarmente in conto l’opera portata avanti dai membri del PCd’I clandestino emigrati i Francia, per rilevare il peso della loro presenza e l’importanza dell’esperienza ivi acquisita per l’avvio della Resistenza italiana.