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Gli ultimi mesi di lotta e la prospettiva insurrezionale

Mentre il Centro Estero del PCd’I approdava in Italia alla direzione di una Resistenza agli inizi, il comunismo francese era ormai alle prese con i frutti del proprio impegno militare, non ancora concluso ma certamente mutato nella forma, in accordo con l’evolversi della situazione bellica e l’adozione di strategie volte all’affermazione del proprio ruolo negli organismi rappresentativi. Il PCF era infatti dalla fine del’43 impegnato in una serie di trattative tutte politiche con i rappresentanti gollisti, per valutare la propria partecipazione al governo provvisorio rappresentato dal Comité Francais de Liberation National. La strategia adottata dai comunisti a questo punto giocava sull’esercizio di una pressione politica su De Gaulle a proposito del ruolo ministeriale da attribuire a Fernand Grenier et Francois Billoux, contraddistinta a livello propagandistico da una costante esaltazione dell’operato dei Francs- Tireurs. Sull’Humanité il sostegno ai FTP era accompagnato dalla condanna dell’attesismo e dall’affermazione che non fosse necessario attendere lo sbarco alleato per lanciare un’insurrezione di massa, come dimostrava l’esempio jugoslavo. La legittimità del governo di Algeri non fu mai direttamente messa in dubbio, la stampa comunista tendeva però a presentare quale autenticamente resistenti, espressione delle forze del popolo francese, i soli organi all’interno dei quali il PCF era riuscito a costruirsi una certa egemonia, in particolare in Conseil National de la Resistance, del quale si auspicava sin dall’estate l’apertura di Comitati dipartimentali. I Comitati dipartimentali di Liberazione dovevano infatti essere lo strumento del CNR a livello regionale, deputati ad affiancare i nuovi prefetti nella ristrutturazione amministrativa. Dovevano inoltre servire al coordinamento dei Comitati Locali, responsabili della mobilitazione, dell’inquadramento e della direzione della levée en

masse, nella quale la centralità del carattere patriottico si sposava con la sollevazione

popolare di marca comunista. Le “Direttive per la formazione delle Milizie patriottiche”, emanate dal Fronte nazionale nel giugno ’44, esortavano i francesi a non restare inattivi, a organizzarsi su base territoriale, facendo riferimento alle Force Français de l’Interieure (FFI) per armi ed indicazioni. Le FFI erano la formazione militare a comando unico nella quale dal 31 dicembre 1943 confluirono gli organismi militari dei movimenti della resistenza interna, e i rispettivi comandi nazionali, ovvero l’Armée Sécrète, l’Organisation de Renseignement et d’ Action e i FTP con Charles Tillon alla guida. In accordo con la propria matrice patriottica, le Milices servivano a invitare i francesi a formare “bloc de maisons, quartier, entreprise” per non lasciare ai soli combattenti il compito di scacciare l’invasore,

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ma difendere in prima linea “son quartier, son village ou son lieu de travail”34. La funzione di tali milizie non si limitava alla sola liberazione nazionale ma comprendeva una serie di obiettivi istituzionali e simbolici centrali per la ricostruzione postbellica:

“Preparatevi dappertutto per la leva in massa, per fare scacco a tutti i tentativi di incarcerazione da parte del nemico, per appoggiare l’azione delle formazioni militari della Resistenza, per liquidare il potere illegale del nemico, dei traditori e dei fautori del disordine hitleriano, per assicurare la salvaguardia della popolazione e dei suoi beni, per ristabilire l’ordine democratico in nome del quale i patrioti ridaranno vigore a tutte le libertà popolari e le renderanno inviolabili, sotto l’autorità del Consiglio nazionale della Resistenza e del C.F.L.N., governo provvisorio della Repubblica francese.”

Le Milizie patriottiche avevano quindi una funziona ausiliaria rispetto alle forze armate francesi e difensiva nei confronti della popolazione, esposta alle violenze dell’esercito in ritirata. Pur accettando l’egida gollista dunque, le forze della Resistenza metropolitana continuarono a ribadire che la liberazione nazionale doveva partire dall’interno, per scongiurare il pericolo che il lavoro organizzativo portato avanti per quattro anni fosse riassorbito dalla Resistenza esterna, il cui riconoscimento presso gli alleati era in gran parte dovuto alla legittimità proveniente dall’appoggio del CNR. All’interno di tale progetto insurrezionale di massa, il PCF insistette sulla centralità dell’elemento operaio, tornando ad insistere sul piano delle rivendicazioni sindacali, reale punto di contatto con la base proletaria, fortemente indebolita dalle requisizioni di manodopera e dal lavoro obbligatorio. Il piano sindacale veniva però ad assumere una nuova importanza, dovendo servire “come una prima tappa verso una forma di lotta più elevata: la lotta armata”35, la cellula di fabbrica finiva per assumere connotati militari. Così, nel promuovere la nascita delle Milizie patriottiche, sin dall’inizio del ’44 il PCF propugnò l’officina quale fulcro per il reclutamento e l’azione. Approdando ad una summa delle sue tre tendenze (patriottica, sindacale e comunista) la fabbrica veniva quindi a essere il centro attorno al quale organizzare gli operai in armi, confermando l’intento patriottico ma al tempo stesso cercando di “stabilire i futuri elementi di presa del potere”36. Tali intenti si scontrarono naturalmente con la realtà dei fatti, trovando più o meno realizzazione a seconda dei contesti locali.

34 BULLETIN D'INFORMATION DU FRONT NATIONAL DE LUTTE POUR LA LIBÉRATION ET

L'INDÉPENDANCE DE LA FRANCE, consultabile al link http://www.ffi33.org/cnr/milices/cnr4.htm

35 Courtois, op.cit., pag 424. 36 Courtois, op.cit., pag 421.

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Ad ogni modo, la loro impronta è presente nelle caratteristiche degli ultimi mesi di lotta dei FTP e nella conversione partigiana assunta dai gruppi autori nei mesi precedenti di azioni terroristiche. La riorganizzazione cui i FTP-MOI andarono incontro dopo la decapitazione dei propri vertici in novembre coincise infatti con la fine della strategia terroristica sinora attuata e il ricorso ad azioni più vicine alla guerriglia montana o campestre. Per quanto riguarda la riorganizzazione direttiva, il comando dei FTP-MOI in zona sud fu assunto dal reduce di Spagna Lyubomir Ilitch, capofila di un’evasione di gruppo dalla prigione di Castres, in cui si trovava in quanto straniero internato. A Nord invece, una serie di quadri attivi a Parigi, come Cristina Boico ed Abraham Lissner, furono mutati in provincia, mentre la direzione militare della MOI veniva assunta da Boris Holban, affiancato da Secondo, un reduce del terzo distaccamento, già membro del PCd’I. Alfredo Terragni era infatti un comunista italiano originario di Niguarda (Milano), deferito al Tribunale speciale nel ’36 ma liberato grazie alla partecipazione alla campagna d’Etiopia. Entrò dunque nel Casellario politico centrale già latitante, nel 1937, quando espatriò per partecipare alla guerra di Spagna, al rientro dalla quale fu internato al Gurs assieme a molti altri volontari delle Brigate Internazionali. Resta sconosciuta la sua attività tra il ’41, quando evase dal campo d’internamento per prendere contatti con la direzione di Marsiglia, e il febbraio ’43, quando pervenne al terzo distaccamento FTP-MOI di Parigi, del quale fu responsabile militare. Fu poi responsabile tecnico ed unico superstite del triangolo direttivo parigino composto assieme a lui da Manouchian e Davidovitch, divenendo appunto in dicembre responsabile politico della MOI in zona nord, mentre il ruolo di commissario tecnico era stato abolito. Nei primi mesi del ’44 quel che restava dei gruppi urbani, come si è visto duramente compromessi dalle repressioni poliziesche, fu affiancato dal contributo dei non permanenti, ovvero cittadini che prendevano parte a sabotaggi ed azioni violente senza entrare in clandestinità, continuando dunque a recarsi regolarmente sul proprio posto di lavoro. Mancavano tuttavia le armi necessarie ad equipaggiare questi nuovi effettivi, che in gran parte dei casi non erano comunque in grado di usarle. Ad ogni modo, a pochi mesi dalla liberazione il terrorismo urbano aveva da tempo esaudito la propria funzione di detonatore della guerra patriottica. Dopo quattro anni di occupazione, con le relative requisizioni, lo STO e la deportazione degli ebrei, la guerra era entrata nel quotidiano della popolazione; intanto, Vichy aveva perso ogni parvenza di legittimità istituzionale, soprattutto dopo l’invasione della zona sud, e la formazione del CFLN aveva offerto ai francesi un nuovo organo di rappresentanza. Nella prospettiva della sollevazione di massa che doveva

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accompagnare lo sbarco delle truppe di De Gaulle e degli Alleati, le bombe nei cafè o gli attentati contro i soldati tedeschi apparivano atti isolati, non più funzionali alle necessità di un’azione popolare organica. Per queste ragioni, ma anche per la difficoltà di agire nella capitale blindata con uomini poco preparati, anche i gruppi del PCF o della MOI furono impiegati in azioni di disturbo o sabotaggio di stabilimenti industriali o arterie di comunicazione. Così, le misure di sicurezza e la caccia ai resistenti “ci obbligano a portare i nostri colpi in banlieue o in provincia, dove le misure di sicurezza sono meno rigide”37. Se però i sabotaggi della cosiddetta équipe dei deragliatori avevano come obiettivo appunto vagoni e binari ferroviari, il lavoro di intralcio all’attività degli occupanti si spostò in questi mesi lungo le vie di comunicazione stradali, percorse dai convogli militari impegnati nella preparazione della tenuta del fronte a nord, la cui apertura appariva ormai imminente da molti mesi. Le azioni si svolgevano sotto forma di vere e proprie imboscate, dispiegate nel punto reputato più adatto a bloccare i camion tramite lo spargimento di chiodi, sparare e ripiegare lungo la via della ritirata. Stessa modalità e stesso modus operandi, ma scopo differente avevano invece gli attacchi destinati ad auto militari isolate, ottima occasione per requisire armi ed esplosivi necessari ad armare i maquis e le Milizie patriottiche in occasione dell’insurrezione. Ad un posto di blocco con relativo controllo dei documenti, al posto dei quali i clandestini erano invece costretti ad estrarre la pistola, cadde Alfredo Terragni nell’aprile ’44 di ritorno da un’azione alla periferia della capitale. Secondo la testimonianza di Holban:

“Il se déplaçait en vélo sur la ceinture parisienne avec une équipe de combattants pour accomplir une mission. Interpellés par une patrouille allemande qui leur demandait leurs papiers, ils sortirent leurs revolvers et immobilisèrent la patrouille. Terrible hasard : une voiture allemande passait au même moment. Une fusillade s’engagea. Malgré des pertes infligées aux Allemands, Secondo et tous ses camarades succombèrent sous le nombre. Ils furent abattus jusqu’au dernier” 38.

Anche i tralicci e i piloni dell’elettricità o del telefono diventarono obiettivi da manomettere o far esplodere tramite il posizionamento di cariche di dinamite collegate a un meccanismo per lo scoppio ritardato. Un azione di questo tipo fu attuata a carico delle linee ad alta tensione a sud di Parigi in occasione del primo maggio 1944. Il sabotaggio delle centraline

37 B. Holban, op.cit., pag. 214.

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elettriche avveniva invece tagliando la corrente e disperdendo l’olio che permetteva il funzionamento del trasformatore.

Quando lo sbarco delle truppe alleate si realizzò, il 4 giugno 1944, i maquis scesero dalle montagne e uscirono dai boschi per raggiungere le periferie dei centri urbani ed attuare i piani stilati dal comando delle FFI. Il CFLN aveva infatti dotato le FFI di uno Stato maggiore, affidato al generale Koening, per la realizzazione dei piani insurrezionali. L’attuazione del piano vert consisteva nell’interruzione delle comunicazioni ferroviarie principali, il violet comportava la manomissione di telefoni e telegrafi, mentre il piano

torture prevedeva sabotaggi stradali volti a rallentare gli spostamenti dei mezzi corazzati.

Nei primi mesi del ’44 erano intanto aumentati i lanci di armi ed addestratori da parte del BCRA, i gollisti e gli alleati miravano però all’aiuto delle sole forze armate interne e scoraggiavano un’insurrezione di massa, temendo che si risolvesse in senso comunista. Dopo lo sbarco, l’Armée secrète dispiegò le proprie forze e i Comitati di liberazione dipartimentale gestirono la transizione istituzionale e l’insediamento dei prefetti nominati dal CFLN. Hitler ordinò il ripiegamento il 16 agosto, nei giorni successivi la popolazione di Parigi insorse, le Milizie patriottiche attuarono i propri compiti di controllo delle entrate e delle ambasciate e scacciarono i comandi tedeschi prima dell’arrivo degli alleati, permettendo a De Gaulle di entrare il 25 agosto in una capitale già liberata. Nelle settimane successive il governo provvisorio si insediò, fu avviata l’epurazione dei collaborazionisti e si procedette all’istaurazione della Repubblica, alla cui testa si schierarono gli uomini della Resistenza e del PCF, accantonando nel discorso patriottico gli stranieri della MOI, riscoperti nei decenni successivi in sede storiografica.

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Capitolo quarto

1. Le premesse della lotta

I fuoriusciti rientrati costituirono la prima componente per la strutturazione della Resistenza italiana, nell’estate’ 43 in attesa di ricongiungersi con la seconda, gli esponenti del PCI incarcerati o confinati in Italia. La terza componente furono invece le giovani generazioni che entrarono nel partito negli ultimi anni del fascismo o nelle prime fasi della Resistenza1. I giovani avvicinatisi alle idee o ai gruppi comunisti che andavano creandosi in Italia già prima della caduta del fascismo provenivano da classi sociali differenti, ma avevano spesso alle spalle un clima antifascista. In particolare a Torino e Milano le fabbriche e i quartieri operai costituirono un fertile retroterra per la nuova generazione antifascista, dalla quale sarebbero emersi anche i principali gappisti. Non mancarono però fra i neocomunisti, e tra i terroristi urbani, giovani intellettuali o studenti. Ne sono un esempio il gruppo romano, in cui spiccano i nomi di Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Mario Licata e Pietro Ingrao, e i giovani antifascisti della Normale di Pisa, come Alessandro Natta e Mario Spinella; ma anche, Giovanni Giolitti, Matteo Sandretti, Ennio Carando e Ludovico Geymonat, che gravitavano a Torino attorno alla casa editrice Einaudi. Gli ultimi due insegnavano inoltre nello stesso liceo di Cesare Pavese, che conosceva Luigi Capriolo, membro del PCI, cui presentò il giovanissimo ufficiale Giaime Pintor. Alcuni di loro furono confinati negli ultimi anni trenta o all’inizio della guerra, e ricevettero a Ventotene l’educazione comunista. Le carceri e il confino furono infatti per i comunisti luoghi di studio e dibattito interno, in cui i nuovi antifascisti della fine degli anni ’30 vennero a contatto con i vecchi, personalità del calibro di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Gerolamo Li Causi.

A livello internazionale, la metà del ’43 fu la fase che decretò il trionfo dell’unità e dei fronti nazionali. A Casablanca Churchill, Roosevelt e Stalin avevano stabilito l’obiettivo della resa incondizionata per i nemici sconfitti e avevano concordato per giugno lo sbarco in Sicilia. Stalin teneva inoltre all’apertura del fronte decisivo in Francia e, a differenza degli altri due, era disposto a riconoscere il CFLN di De Gaulle e Giraud. In questo clima di grande alleanza, si colloca lo scioglimento del Komintern, deciso dal presidium il 15 maggio e reso pubblico il 22. La mossa serviva a ottenere la fiducia degli anglo-americani ma anche a garantire l’autonomia dei partiti comunisti nella conduzione delle guerre di liberazione nazionale in

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corso. Resta invariato anche con lo scioglimento dell’Internazionale comunista il fatto che “l’egemonia dell’Urss sul movimento comunista internazionale […] è indiscussa”; “la convinzione che Stalin resti il capo dei lavoratori, il capo del comunismo internazionale, si esprime in tutti i modi e i dirigenti dei massimi partiti comunisti […] sono quadri formatisi sotto la sua direzione e influenza diretta”2. Il PCI si apprestava dunque ad avviare la guerra partigiana sulle basi unitarie già accettate a Tolosa nel ’41, e ribadite nel marzo ‘43 a Lione da Saragat, Lussu, Dozza e Amendola, poco prima del rientro di quest’ultimo in Italia. La necessità di ribadire l’unità era data non solo dall’avvicinarsi della guerra in Italia, ma anche dal bisogno di rinsaldare tale intento, messo in dubbio dal ritorno di Emilio Lussu. Egli era appena rientrato dagli Stati Uniti, dove gravitava attorno alla Mazzini Society, animata da fuoriusciti antifascisti, che attribuivano un ruolo preponderante agli anglo-americani nel rovesciamento del fascismo e non vedevano di buon occhio l’alleanza coi comunisti. Rientrato in Francia, aderì però alla linea di Tolosa secondo cui la liberazione nazionale sarebbe dovuta partire dall’interno, grazie alla collaborazione con socialisti e comunisti, di cui Trentin fu il più strenuo sostenitore tra le file di GL. Il 3 marzo 1943 a Lione nacque dunque lo schieramento che avrebbe costituito la sinistra della Resistenza italiana e che si sarebbe congiunto con la destra nel corso dei 45 giorni. Il verbale ufficiale della riunione infatti, dopo aver ribadito gli obiettivi di Tolosa, rivolgeva a tutti gli italiani, “anche se non condividono integralmente il loro programma di ricostruzione del paese, un appello all’unione e all’azione per la pace, l’indipendenza e la libertà, e dichiara[va] che il presente accordo è aperto a tutti i partiti e movimenti che ne accettano lo spirito”3.

La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti, soprattutto per la prudenza di Massola, ansioso di salvaguardare la cautela con cui aveva portato avanti il lavoro dal ’41. Nel settembre ’42 egli aveva ricevuto da Clocchiatti, appena rientrato, la prima lettera dal Centro Estero e si erano verificati dei contrasti a causa di iniziative propagandistiche di quest’ultimo, come il lancio di volantini, che Massola reputava premature. Ad ogni modo, nel giugno ’43 egli inviò un telegramma a Togliatti, tramite la Francia, aggiornandolo sui progressi degli ultimi mesi. Comunicava il proprio approdo in Italia nell’agosto ’41, l’arresto di Rigoletto Martini in Jugoslavia, la condanna a 24 anni di reclusione da parte del Tribunale Speciale e la sua successiva morte nel carcere di Civitavecchia nel giugno del ’42. Informava poi dell’avvio del lavoro di propaganda tramite

2 P. Spriano, “La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”, op.cit., pag. 206

3 Fondazione Gramsci, APC, marzo 1943, “Unità d’azione per la pace e la libertà”, dichiarazione congiunta

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la stampa clandestina, in particolare della comparsa dell’Unità, un numero al mese da giugno a novembre ’42 e due numeri al mese a partire dal dicembre ’42. L’approdo in Italia di Primo e Secondo, che dovrebbero essere Roasio e Novella, aveva inoltre permesso nel maggio la costituzione del Centro Interno, alla cui direzione partecipavano, oltre allo scrivente e ai due compagni citati, Roveda, Negarville, Amendola e Rina Piccolato4. Nonostante per la formazione dei GAP bisogni ancora attendere l’autunno ’43, già nel maggio venne fatta consegnare ai dirigenti provinciali una circolare segretissima (da distruggere dopo la lettura), firmata dalla segreteria del PCI, che prescriveva:

“I patrioti italiani hanno il dovere di organizzarsi e rispondere. In questa lotta tutti i mezzi sono buoni, compresa la lotta armata. Alla violenza bisogna opporre la violenza, alle bande amate fasciste bisogna opporre i Gruppi d’azione dei patrioti, capaci di stroncare la violenza fascista colla lotta armata. […] L’esperienza internazionale della lotta armata contro l’oppressore tedesco e i traditori del proprio paese (la lotta dei patrioti jugoslavi, greci, francesi ecc) dimostra che la formazione e l’armamento di questi Gruppi di patrioti non può avvenire in modo spontaneo. Questa esperienza dimostra pure che la forza organizzatrice e dirigenti dei gruppi armati di patrioti, in tutti i paesi, è il Partito comunista.”5

Roasio, autore per conto del partito, nella circolare spiega che doveva trattarsi di costituire “piccoli gruppi (GAP) nei primi tempi composti di soli compagni e portarli alla lotta armata, e poi, poco a poco, nella lotta allargare la loro cerchia, il loro numero, attirare i migliori e più combattivi elementi del popolo e riuscire così a organizzare un potente movimento armato di patrioti.”6. Si prescriveva dunque ai dirigenti locali di incaricare un compagno di fiducia della formazione di questi gruppi di tre uomini, i cui membri dovevano essere scelti non “per spirito di disciplina, ma per la loro spontanea volontà” e dovevano interrompere qualsiasi legame o partecipazione alle attività di partito. Non è scritto nel documento, ma intuibile ed ammesso esplicitamente da Roasio, che la struttura dei Gap “rifletteva grossomodo quella dei FTP, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni”7. Nelle stesse settimane infatti quadri e militanti di base venivano richiamati dalla Francia e rientravano in Italia attraverso le Alpi o con documenti falsi; coloro che scelsero questa via avevano dunque conservato una polarità italiana, a maggior ragione coloro che avevano