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"Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza

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Academic year: 2021

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Dipartimento di civiltà e forme del sapere

Corso di Laurea in Storia e civiltà

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

“Oggi in Francia, domani in Italia! Il terrorismo urbano e il PCd’I

dall’esilio alla Resistenza”

RELATORE

Luca Baldissara

CORRELATORE CANDIDATA

Gianluca Fulvetti Elisa Pareo

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INDICE

Introduzione

…..……….……….…..1

Capitolo primo

1. Considerazioni preliminari………...6

2. L’étrange défaite, Vichy, la France libre e la Resistenza……...10

3. Italia, un paese diviso e un governo compromesso………...21

4. Considerazioni conclusive………...30

Capitolo secondo

………...35

1.

I partiti comunisti tra gli anni ’30 e la Resistenza……….37

Capitolo terzo

1. La lotta armata nelle città francesi, 1941- 1943….………...60

2. L’intreccio PCd’I-MOI nel Sud della Francia ……….74

3. Gli ultimi mesi di lotta e la prospettiva insurrezionale………..…...83

Capitolo quarto

1. Le premesse della lotta ………88

2. Nascita e sviluppo dei Gap………..……….93

3. La fase centrale e la prospettiva insurrezionale………...112

4. Gli ultimi mesi e la prospettiva insurrezionale………126

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Introduzione

Nel corso della seconda guerra mondiale tutti i paesi occupati dalle armate tedesche misero in atto un movimento di resistenza all’occupante, le cui forze politiche e sociali furono la base per le ristrutturazioni istituzionali postbelliche. I fenomeni resistenziali europei sono stati ampiamente trattati dalla storiografia del secondo ‘900, ma sono esperienze così ricche, così varie e così controverse da prestarsi ancora ad una trattazione che ne colga nuovi aspetti e sollevi inevitabilmente nuove questioni.

Sebbene esistano diverse forme di resistenza, questa trattazione verterà su una specifica forma di Resistenza armata: il terrorismo urbano, adottato quale modus operandi dai soli partiti comunisti, nell’ambito delle guerre partigiane per la liberazione nazionale dal nazifascismo. Nonostante la complessità nelle definizione del fenomeno, la limitazione del campo d’indagine richiede una generale definizione delle caratteristiche che qualificano un atto quale terrorista. Indicheremo quindi con il termine terrorismo un uso della violenza operato da uno o più individui che sia mosso da obiettivi politici. Walter Laquer ne individua l’origine come pratica sistematica nel pensiero antitirannico dell’800, sotto forma di assassini politici o attentati dinamitardi contro personalità o obiettivi illustri allo scopo di agitare le masse, utilizzando la propaganda dell’evento “per risvegliare la coscienza popolare”1. I fattori scatenanti sono nella maggior parte dei casi dovuti a una condizione di oppressione nazionale o disuguaglianza sociale, che spingono un ristretto numero di individui all’intervento violento contro simboli dell’oppressione o della disuguaglianza. Tuttavia, assunte queste generalizzazioni ci proponiamo di non dimenticarne la vaghezza e tener presente che “ogni situazione deve essere considerata nella sua specificità”2. Ci serviremo di tali presupposti come di concetti da applicare ad avvenimenti che restano al centro della discussione, prestandosi a riempire di contenuto elementi come il contesto d’origine e le matrici del fenomeno terrorista che determinano gli attori coinvolti, i metodi di lotta e gli obiettivi perseguiti.

Una peculiarità del caso italiano è data dal fatto che tutte le forze antifasciste della penisola giunsero all’estrema resa dei conti con il fascismo dopo anni di clandestinità ed esilio,

1 Walter Laqueur, “L’età del terrorismo. Storia del più inquietante fenomeno del mondo contemporaneo”,

Rizzoli, Milano, 1987, pag 62.

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ritrovandosi dunque a mobilitare le masse di un paese da cui erano state a lungo assenti. Questo elaborato di tesi si propone di focalizzare l’attenzione sulle vicende del Partito comunista italiano tre l’esilio francese e la Resistenza, quale unico organizzatore della lotta in città. Si cercherà dunque di delineare le strutture esistenti, l’attività politica e le vicende biografiche di alcuni comunisti italiani dimoranti in Francia nel corso degli anni ’30, con lo scopo di mettere in luce come proprio questi anni ingloriosi ed esclusi dalle trattazione storiografiche sulla resistenza furono invece di notevole importanza e diedero i propri frutti nell’autunno ’43. Gli uomini e le donne cui fu assegnato il compito di dispiegare il terrorismo nelle città italiane rispondono tutti, grossomodo, ad un profilo analogo: sopra i trent’anni, quadri di partito quasi sempre passati dalla scuola leninista di Mosca e accorsi in Spagna nelle file delle Brigate internazionali. Inoltre, alcuni di questi rivoluzionari di professione, prima di tornare in Italia, presero parte a fenomeni di terrorismo urbano nella Resistenza francese, nell’ambito dell’ampia collaborazione con il Partito comunista francese, che fu un importante appoggio per il PCd’I negli anni dell’esilio.

I protagonisti della nostra storia sono dunque a pieno di titolo dei partigiani, secondo la definizione giuridica elaborata da Karl Schmitt. Essi sono anzitutto degli irregolari, soldati senza uniforme di una guerra sommersa il cui coinvolgimento non è regolato dal diritto bellico internazionale. La Convenzione di Ginevra del 1949, pur riservandosi di riconoscere a volontari organizzati i diritti di combattenti regolari, prescrive che un esercito regolare debba avere una gerarchia, dei segni visibili di distinzione, le armi in vista e debba attenersi al rispetto dello jus belli. Se i primi due elementi, pur con molte differenze, possono essere presenti anche in gruppi di guerriglieri, gli ultimi due sono decisamente incompatibili con la clandestinità e la prassi della guerra partigiana. Il partigiano è inoltre per etimologia sostenitore di una parte, l’impegno politico è quindi la seconda delle caratteristiche che lo contraddistinguono e l’adesione ad un ideologia è spesso la più forte motivazione all’azione. Tale carattere pertiene in particolar modo i resistenti di città italiani e francesi e costituisce il fattore di discriminazione dell’irregolare partigiano dall’irregolare criminale. Il terzo tratto è la partecipazione a un tipo di lotta attiva, distinta da quella del soldato tradizionale dalla grande mobilità e agilità delle operazioni, permessa dall’ultimo aspetto, il carattere tellurico. Il partigiano è legato alla terra, conosce bene il terreno in cui opera e rischia la vita per la difesa popolazione che lo abita, che offre a sua volta il supporto indispensabile all’attività clandestina; su questo punto il terrorismo urbano offrirà lo spunto per riflessioni riguardo il consenso della popolazione cittadina ad azioni violente, che possono causare ritorsioni sui

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civili. Illustreremo questo ed altri aspetti della lotta all’occupante ricorrendo alla descrizione del caso francese, per giungere al terrorismo urbano durante la Resistenza italiana, percorrendo le vicende dei Gruppi d’Azione Patriottica, organi militari del Pci deputati al terrorismo urbano, ispirati ai Francs-Tireurs et Partisans francesi. I gappisti e i FTP di città rientrano quindi in questa lettura giuridica del partigiano, perché deviano dalla legalità del diritto bellico, nel quale la gestione statale della guerra regola la sua pratica e individua un nemico riconosciuto come legittimo. Il carattere politico diventa quindi il nocciolo della questione: da quando Lenin ha fatto del partigiano un rivoluzionario di professione, il nemico di classe è nemico assoluto e la guerra è inimicizia assoluta; in seguito Stalin ha aggiunto che il rivoluzionario/partigiano dovesse operare alle spalle del nemico, coniugando la resistenza nazionalpatriottica con la spinta a una rivoluzione mondiale. Il partigiano rinuncia quindi alla limitazione della guerra e può procedere all’individuazione e disumanizzazione del nemico, riportando il conflitto alla natura di inimicizia assoluta che lo

jus publicum europeum aveva relativizzato, attribuendo ai soli Stati il diritto di farsi la

guerra. Egli vive nella distinzione amico/nemico che è per Schmitt l’essenza del Politico, inteso quale fondamento prestatale che accompagna ogni relazione umana, e rappresenta per noi il punto in cui il cerchio si chiude, tornando a ribadire che nell’azione terroristica, di qualsiasi orientamento sia, è il fine politico a distinguere il terrorista dal criminale comune. Leggeremo il fenomeno del terrorismo urbano come una pratica attuata da un gruppo ristretto nell’ambito di una guerra partigiana per la liberazione dal nemico occupante. Faremo dunque uso del termine terrorista nell’accezione qui delineata, prescindendo dalla coloritura negativa che un giudizio morale, estraneo al lavoro storico, potrebbe recare con sé.

La scelta di uno studio di tale pratica nel contesto della seconda guerra mondiale è motivata dal desiderio di esplorare un aspetto delle resistenze europee che in Italia è divenuto solo recentemente oggetto di studio scientifico, sebbene la sua memoria fosse stata recuperata al tempo delle lotte politiche degli anni ‘60 e ’70. Renato Curcio, capo storico delle Brigate Rosse, conferma che nella scelta del nome dell’organizzazione “eravamo d’accordo che doveva collegarci alla Resistenza, alla guerra partigiana”3 e i GAP finanziati da Feltrinelli intendevano richiamare alla memoria l’esperienza dei Gruppi di Azione patriottica. Tale recupero si configurava però più come un modello di riferimento ideale per le azioni del presente che come l’avvio di uno studio sul tema. E’ indubbiamente presente una certa

3 Philip Cooke, “L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi”, Roma, Viella,

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“continuità, diciamo, morale” fra la Resistenza e la lotta armata degli anni ‘704, testimoniata da alcuni elementi, ad esempio il processo popolare ai nemici del proletariato attuato dalle BR sul modello dei processi partigiani. Molti giovani erano cresciuti ascoltando le storie e le frustrazioni di padri e zii partigiani, alcuni, come Giambattista Lazagna, arrestato per i suoi contatti con i Gap e le BR, erano stati essi stessi partigiani. Tuttavia la Resistenza, pur restando un modello forte nell’immaginario di coloro che sognavano una rivoluzione comunista, era stato un fenomeno generato da un crollo istituzionale e una situazione bellica d’occupazione, mentre un recupero della sua memoria negli anni ’70 restava uno strumento della retorica (e talvolta della pratica) politica, senza risolversi in un’indagine storiografica del fenomeno. L’interesse tardivo che l’argomento ha suscitato in Italia è dovuto, oltre che alla difficoltà nel mettere insieme le fonti, alla sua non consonanza con la vulgata

resistenziale imperante nel discorso politico sino agli anni ‘70, che dipingeva “il popolo

italiano stretto attorno ai suoi partigiani”5. Tale racconto mal collima con le vicende dei Gap, che parlano invece di una direzione elitaria, espressione di una precisa scelta politica del Partito comunista non condivisa dagli altri partiti del CLN e di una lotta portata avanti da un ristretto gruppo di persone che operavano in clandestinità, alienandosi spesso le simpatie della popolazione cittadina che non appoggiava le azioni violente.

Il lavoro tenterà pertanto di rendere conto di tre piani: il macrocontesto della seconda guerra mondiale, la posizione bellica dei vari attori e le direttive di Stalin, centrali per i resistenti di città che si riconoscevano nella fede comunista; i contesti nazionali francese e italiano, le caratteristiche della loro occupazione e gli elementi etici e materiali che entrarono in gioco nella scelta e nella pratica della militanza; e infine il piano potenzialmente più ricco e certamente più problematico per la storiografia, quello biografico, che tenteremo di illuminare seguendo le tracce di alcuni fuoriusciti comunisti, emigrati politici nelle vicina repubblica. I comunisti noti al Tribunale speciale o espatriati clandestinamente furono costantemente tenuti sott’occhio dalla Divisione polizia politica del Ministero dell’Interno, grazie al rigidissimo controllo della posta cui erano sottoposti i familiari e agli informatori sparsi in tutti i maggiori centri dell’antifascismo. La documentazione individuale così ricavata servì a istituire i fascicolo personali all’interno del Casellario Politico Centrale, la cui consultazione consente oggi di delineare le peripezie dei perseguitati politici negli anni più bui per il PCd’I.

4 Philip Cooke, op.cit., pag. 213

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Il primo capitolo descriverà i fatti bellici che motivano la presenza tedesca nei due territori, l’avvio delle Resistenze francese e italiana e i caratteri generali che esse presentano messe a confronto. Il secondo si soffermerà invece sulla condizione del PCF nella politica francese, sull’attività dei gruppi legati al PCd’I operanti in Francia e sui percorsi personali di alcuni dei militanti che avrebbe poi organizzato i GAP. Si procederà quindi con un terzo capitolo di descrizione generale del fenomeno del terrorismo urbano in Francia, tra l’autunno ‘41 e la fine del ’43, con particolare attenzione al lavoro del Pci nel sud della Francia e alle notizie di partecipazione dei suoi membri alla lotta urbana. Il quarto capitolo perverrà infine alla nascita e allo sviluppo dei Gap nell’ambito della Resistenza italiana (l’autunno ’43- inverno’45), descrivendone l’evoluzione sino all’abbandono, in favore di metodi più in linea con una prospettiva d’insurrezione popolare. Si tratterà di un terreno impervio, soprattutto per la mole di informazioni non verificabili provenienti dalla memorialistica e dalle testimonianze rilasciate dai protagonisti dopo la guerra. Faremo dunque riferimento a questo tipo di fonti con le dovute cautele, non potendovi prescindere vista la centralità dei percorsi individuali nelle vicende in oggetto e in assenza di relazioni e verbali sull’attività clandestina, soprattutto in terra straniera. Talvolta saremo obbligati ad arrestarci di fronte alla mancanza di riscontri documentari, auspicando che nuove ricerche chiariscano meglio il ruolo avuto dagli italiani del PCd’I in alcune azioni terroristiche attuate nel sud della Francia.

Si dovrà infine sempre tenere presente che i fatti presentati (anche quando messi a confronto nel tentativo di ottenere spunti per l’analisi) non sono mai semplicemente in opposizione o in accordo, ma rientrano in quella interdipendenza di cause e conseguenze che cercheremo di ricostruire e che permettono di attribuire alla guerra del ‘39-’45 la qualifica di mondiale.

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Capitolo primo

1. Considerazioni preliminari

Scrivere sulla Resistenza, tanto in Italia quanto in Francia, significa muoversi nel terreno paludoso di una narrazione portata avanti per decenni dai suoi stessi protagonisti, e spesso volta alla legittimazione delle repubbliche da essa derivate. Per almeno un ventennio infatti, “il pathos della memoria [è stato], troppo spesso consigliere, magari inconsapevole, d’una generica e agiografica mitologia”1, talvolta funzionale allo scontro politico, che ha contribuito alla costruzione del canone resistenziale2 di due popolazioni coese dietro i propri combattenti. Ne è risultata una lettura certamente avvincente e tuttavia semplicistica, che divide in buoni e cattivi e soddisfa l’amor patrio con la vittoria dei buoni. Nessuna analisi storica su un conflitto può mai accontentarsi di una lettura binaria, meno che mai una trattazione su un fenomeno il cui straordinario interesse decorre dall’assenza di un’istituzione rappresentativa univocamente accettata. Fu infatti in questa compresenza di autorità invocanti legittimità che si mossero gli italiani e i francesi dei primi anni ‘40, taluni confidando che Mussolini e Pétain avrebbero tratto dall’alleanza con Hitler il meglio per i propri paesi, talaltri affidandosi agli alleati tramite le personalità di Badoglio e De Gaulle, alcuni fiduciosi nel fatto che Stalin sarebbe arrivato a scacciare il fascismo, altri ancora rassegnandosi al corso degli eventi. Per dirla con Wievorka insomma ciascun tentativo di “historiciser la Resistance amène a encorner la legende”3, significa operare un approfondimento critico sui dati e le testimonianze a disposizione per ricostruire la contraddittorietà di quegli anni. La maggiore difficoltà è data proprio dal fatto di voler essere una ricostruzione storica intenzionata a spiegare degli eventi in cui ha grandissimo rilievo una matrice personale ed emozionale, la cui trascuratezza comporterebbe non solo un appiattimento ma anche uno snaturamento del fenomeno. La storiografia non può e non deve abdicare al senso critico che le è proprio, ma non può neppure mancare di comprendere che un freddo sguardo scientifico non coglierebbe l’essenza di eventi che hanno portato centinaia di uomini e donne ad accettare la tortura e la morte. La proposta metodologica è quindi di

1 Guido Quazza, “La Resistenza italiana. Appunti e documenti”, Giappicchelli Editore, Torino, 1966,

pag.120.

2 Santo Peli “La resistenza in Italia. Storia e critica”, Einaudi Torino, 2004, pag.203. 3 Olivier Wieviorka, “Histoire de la Resistance. 1940-1945”, Perrin, 2013, pag.16

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collocarsi “à la croisée de ces exigences contradictoires”4, ovvero di raccogliere e combinare le testimonianze di una narrazione mitizzata con il rigore della ricerca storica. Queste intenzioni, avviante tra gli anni ‘70 e ‘80 furono compiutamente realizzate a partire dagli anni ‘90, quando la fine della guerra fredda permise un’indagine propriamente storica, per quanto possibile scevra da fini politici nel presente.

Tale cambio di rotta ha come prima conquista il riconoscimento della varietà di attitudini che rientrano nel sostantivo Resistenza, l’aggettivazione del quale consente di render conto di comportamenti attivi o passivi contro il nemico occupante. Si ricordi che è Resistenza attiva non solo la Resistenza armata, ma anche la Resistenza civile o non violenta che si esprime con una molteplicità di azioni che vanno dallo sciopero alla propaganda tramite la stampa clandestina. Non vanno neppure omesse le scelte che non comportano l’impegno in prima persona, ma espongono comunque ai rischi della repressione, come può essere un rapido passaggio di informazioni o l’assistenza prestata ai perseguitati, che si tratti di soldati sbandati, ebrei o partigiani. I confini tra queste categorie resistenziali restano mobili, legati come sono ai momenti, ai rischi, alle scelte o, più semplicemente, alla solidarietà che impedisce di abbandonare altri esseri umani a un destino di tortura e deportazione. Azioni di questo tipo sono ciò che si definisce Resistenza passiva, “intesa soltanto come mare in cui possono nuotare i partigiani”5. Essa costituisce la base popolare indispensabile alla riuscita di ogni guerra sommersa, senza la quale “la Resistance istitutionelle n’aurait pu s’enraciner [et…] fonctionner comme un poisson dans l’eau”6. Nasce da motivazioni variegate, ma per i più è la stanchezza della guerra, la nostalgia dei familiari al fronte, la fame e la paura dei bombardamenti a portare a dare appoggio tanto agli indifesi quanto a coloro che combattono perché l’occupazione finisca.

La Resistenza è quindi, in Italia e in Francia, un fenomeno per lungo tempo soggetto a mistificazione, che coinvolge individui di diverso pensiero politico, secondo una varietà di scelte d’intervento, con l’obiettivo di liberare il suolo nazionale dall’invasore. Per il resto i due paesi presentano differenze storiche e culturali di un certo spessore, delle quali tenteremo di indagare le implicazioni per la pratica della guerriglia urbana.

4 O.Wieviorka, op.cit., pag.18.

5 Claudio Pavone “Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”, Bollati Boringhieri,

Torino, 1991, pag. XV.

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Innanzitutto, l’occupazione in Italia ha una durata relativamente breve rispetto a quella francese, ovvero dall’11 settembre 1943 al 25 aprile 1945, e seppure con alti e bassi un’attitudine resistenziale si manifestò su tutto l’arco dei venti mesi di occupazione. In Francia ebbe una durata complessiva di quattro anni, dal 17 giugno 1940 al 25 agosto 1944, anche se bisogna precisare che il Sud del paese passò sotto il diretto controllo tedesco solo nel novembre ‘42; la dissidenza e la stampa clandestina furono sempre presenti, ma una vera e propria resistenza armata prese avvio solo nel secondo anno di occupazione. Del resto la Francia fu occupata nel primo anno di guerra mondiale, quando le sorti del conflitto erano del tutto aperte e l’Unione sovietica era ancora legata alla Germania dal patto di non aggressione, mentre l’invasione in Italia avvenne in una fase in cui le sorti della guerra volgevano ormai a favore degli Alleati. Si riferisce a questa tempistica Claudio Pavone quando sostiene che “mentre i resistenti di altri paesi, nel momento della loro scelta iniziale, rischiarono sia sull’esito che sulla durata, i resistenti italiani rischiavano solo sulla durata”7. Oltre a ciò, il differente percorso storico dei due paesi li aveva condotti alla guerra mondiale con degli antecedenti e una posizione assai diverse. In primo luogo, quello francese era uno Stato consolidato da cinque secoli di storia, cui mancava dunque un modello di riferimento per una guerra la cui posta in gioco fosse il suolo nazionale, poteva forse esserlo la guerra dei Cent’anni, per la quale però l’uso del concetto di nazione appare anacronistico. L’Italia invece non aveva neppure un secolo di storia statale alle spalle, il Risorgimento rappresentava un’esperienza piuttosto vicina di guerra di liberazione nazionale e infatti servì come il riferimento passato da cui recuperare il repertorio retorico della guerra patriottica. Un antecedente storico invece largamente presente nella storia repubblicana d’oltralpe è dato dalle grandi rivolte insurrezionali collettive, mentre per l’Italia si trattò della prima volta nella storia unitaria in cui “gli italiani vissero in forme varie un’esperienza di disobbedienza di massa”8.

Inoltre, se è vero che alla fine degli anni’ 30 la Francia non fu estranea alle tendenze di estrema destra che prendevano piede in Europa, è anche vero che essa aveva alle spalle una tradizione repubblicana e un campo politico aperto allo scontro tra partiti, con la conseguente formazione di una coscienza politica per i più giovani. Al contrario la Resistenza nella penisola doveva “battersi con i risultati, anche sul piano culturale e antropologico, di

7 C. Pavone, op.cit., pag 40. 8 C. Pavone, op.cit., pag.26.

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vent’anni di dittatura”9, in cui un’opera di fascistizzazione della società era stata portata avanti nella scuola, sul posto di lavoro, nello sport e nel tempo libero, chiudendo lo spazio politico alla presenza di un avversario legittimo. Non bisogna dimenticare che il collasso del fascismo del 25 luglio non fu dovuto ad uno scontro di opinioni o a una sollevazione anti totalitaria, ma alla fallimentare esperienza bellica, dalla quale il regime non era stato in grado di salvaguardare la nazione. I giovani italiani che presero parte alla guerra di liberazione nazionale erano cresciuti nella scuola fascista, non avevano alcuna esperienza di una prassi politica basata sulla discussione e sul confronto parlamentare; per loro l’acquisizione della coscienza politica avvenne sul campo, tramite l’incontro/indottrinamento con la precedente generazione antifascista, rientrata dall’esilio o dal confino o riscesa nell'agone della lotta politica dopo anni di inattività.

Infine, la posizione dell’Italia come zona occupata invocante il supporto militare alleato era più sfavorevole di quella della Francia, che non solo era schierata contro l’avanzata tedesca sin dal settembre del ‘39, ma aveva anche offerto per tutta la durata della guerra le truppe della France libre sul campo alleato. L’opposizione francese poteva inoltre nutrirsi di radicati sentimenti antitedeschi, tenuti vivi dai racconti della guerra del 1870 e dai ricordi della prima guerra mondiale; in alcuni francesi, molti dei quali si impegnarono nelle organizzazioni della Resistenza, la germanofobia viscerale era poi alimentata dall’odio per il nazismo, una forma di neopaganesimo per i cattolici, il trionfo di un nazionalismo totalitario per i liberali e i socialisti.

L’Italia era invece nella posizione di un nemico sconfitto che doveva guadagnare credito agli occhi degli Alleati per rivendicare la propria indipendenza. Lo sbarco del 10 luglio era da lungo tempo nei piani di Churchill, colpire il ventre molle dell’Asse costituiva la via strategicamente migliore per impegnare le forze tedesche su un altro fronte e alleggerire la pressione sulla Normandia, dove era previsto lo sbarco che avrebbe consentito di giungere a Berlino. L’esercito italiano era stato sul fronte opposto sino a pochi giorni prima, la firma dell’armistizio aveva decretato la fine dello stato di belligeranza con inglesi e americani, ma aveva lasciato i soldati nell’incertezza del comportamento da tenere nei confronti dei soldati della Wehrmacht, alleati sino a qualche ora prima. Non mancavano riserve sull’opportunità di considerare gli inglesi degli alleati nel sostegno della causa italiana, motivate soprattutto dai pesanti bombardamenti dispiegati sulle città sino a poche settimane prima. Tuttavia la

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ripresa del tema della guerra patriottica consentì alla Resistenza italiana di ritrovare nel tedesco un nemico ancor più antico, che dai tempi dei barbari contro Roma e dell’unificazione nazionale si era evoluto in automa teutonico, “padrone disumanizzato dell’industria e della tecnica”10.

Prima di addentrarci nel cuore della ricostruzione, procediamo dunque in questo capitolo introduttivo a una sintesi dei fatti che portarono all’avvio delle Resistenze, cercando di tracciare in maniera generale i sentieri da esse percorsi.

2. L’étrange défaite, Vichy, la France libre e la Resistenza

Nel 1938 il governo del Fronte popolare, coalizione antifascista di comunisti, socialisti e radicali, era sul punto del naufragio e toccava a Edouard Daladier, primo ministro dall’aprile di quell’anno, gestire le agitazione interne e guidare la Francia in una politica europea sempre più vicina alla guerra. In risposta all’annessione dei Sudeti, i leader di Italia, Francia e Inghilterra si incontrarono a Monaco per trattare con Hitler, stabilendo il riconoscimento delle acquisizioni territoriali tedesche per evitare un conflitto. La politica interna francese alla vigilia della guerra era intanto scandita da contrasti sociali e dal confronto tra i sostenitori e i detrattori della linea politica di appeasement sancita a Monaco. I principali partiti di destra, il Partito Popolare di Doriot e l’Action Francaise, erano in accordo con la linea di Monaco, a sinistra i comunisti vedevano nella sconfitta di Hitler l’unica via per la pace, mentre la Section française de l’International ouvrière (SFIO) e la Confédération Générale du Travail (CGT) erano scisse al loro interno tra le due posizioni. Nell’estate ‘39 era ormai chiaro che Hitler non era intenzionato a fermare la sua espansione ad est, pertanto la Francia cercava un’alleanza con la Gran Bretagna ed entrambe tentavano di intavolare trattative con l’Unione Sovietica, pur essendo diffidenti nei confronti di Stalin. I temporeggiamenti delle due potenze lasciarono spazio a Ribbentrop che poté concludere il 23 agosto il patto di non aggressione tra Germania e URSS, dotato di una clausola segreta che divideva l’Europa orientale in aree di influenza tedesca e russa, prefigurando una nuova spartizione della Polonia. E’ probabile che Stalin intendesse lasciare che le potenze imperialiste si facessero la guerra tra loro, mentre sono chiari i piani del Fuhrer, che in questo modo poteva invadere la Polonia senza temere l’apertura di un fronte orientale. Il patto

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Molotov- Ribbentrop pose i comunisti di tutta Europa “dans le plus profond desarroi”11 combattuti tra la fedeltà al Komintern e le proprie convinzioni antifasciste. Nel frattempo, in seguito all’invasione della Polonia, Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania di Hitler. Era scoppiato quello che sarebbe diventato il secondo conflitto mondiale.

Il timore della quinta colonna fu alla base del decreto legge del 26 settembre che sciolse il Partito Comunista e tutte le organizzazioni legate alla Terza internazionale, mentre i deputati comunisti furono incarcerati nelle settimane successive. Intanto, il governo non riuscì ad evitare l’impennata dei prezzi, i salari bloccati causarono il malcontento generale e le destre si prepararono a una regolazione di conti con il Fronte popolare. Daladier, non avendo più l’appoggio parlamentare e popolare si dimise nell’aprile del ‘40 e fu sostituito da Reynaud, mentre l’esercito, sicuro della stabilità della linea Maginot e della protezione costituita dalla foresta delle Ardenne, versava in un “lassitude croissante dans une attente qui semble de plus en plus vain”12. L’offensiva tedesca giunse invece il 10 maggio, la sua rapidità e la forza delle armi prodotte dalla poderosa industria del Reich spiazzarono l’alto comando francese e ne decretarono la sconfitta nel giro di tre settimane. In cinque giorni infatti fu aperta una breccia di 90 chilometri nella linea di fortificazioni che aveva salvato la Francia durante la prima guerra mondiale e, superato un tentativo di ristabilire la linea continua nelle Fiandre, la Wehrmacht dilagò sul territorio francese facendo 50000 prigionieri, mentre 330000 soldati franco-inglesi riuscivano a raggiungere l’Inghilterra imbarcandosi a Dunkerque. L’impreparazione francese è stata descritta da autorevoli protagonisti del calibro di Jean Moulin e Marc Bloch, dai resoconti dei quali traspare il medesimo senso del dovere che li porterà all’impegno resistenziale. Ai tempi della sconfitta, Moulin era prefetto del dipartimento di Eure-et-Loire con capoluogo a Chartres e in questa veste restò in città nei giorni del disastro, fornendo ai posteri un resoconto di grande utilità per comprendere la situazione delle città francesi alla metà del giugno 1940. Dopo l’annuncio della ritirata e l’ingresso delle truppe tedesche a Parigi, chi poteva prese la via dell’esodo, verso le campagne o all’estero. A Chartres il sindaco, il vescovo, i notabili e i funzionari abbandonarono la città, lasciando la popolazione senza acqua, luce, gas o viveri, “plus aucune organisation économique où administratif”13. Il giovane prefetto si trovò a coordinare

11 J.P. Azéma, op.cit., pag.45. 12 J.P. Azéma, op.cit., pag.48.

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i rifornimenti e la messa in sicurezza della città sotto i bombardamenti aerei in assenza di pompieri, assistenza medica e funzionari amministrativi:

“Tout un édifice social à reconstruire dans des conditions matérielles effroyables, sous les bombardements [...] mais il le faut pour tous ceux dont les sortes est en notre main; il le faut pour opposer aux Allemands, lors de leur arrivée, une armature sociale et morale digne de notre pays”14.

Non ci sembra una forzatura, nonostante la nostra lettura sia filtrata dal senno di poi, rintracciare in queste poche righe il panorama etico e l’impegno morale senza i quali nessuna resistenza sarebbe esistita. All’ingresso delle truppe tedesche in città, il 17, fu chiesto a Moulin di firmare un protocollo che attestava la responsabilità di un contingente senegalese dell’esercito francese nella violenta uccisione di un gruppo di donne e bambini, la sua risposta fu: “Pensez-vous vraiment qu’un français, et, qui plus est, un haut fonctionnaire français, qui a la mission de représenter son pays devant l’ennemi, puisse accepter de signer une pareille infamie?”15

Questa replica consente di soffermarci su un punto di grande importanza, che ribadiremo nel corso della trattazione: coloro che operarono la scelta di partecipare a una qualsiasi forma di Resistenza attiva rischiarono senza progetti precisi, in conseguenza a una situazione e a un senso di impotenza che ritennero inaccettabili. Ma aldilà della parte politica che presero, le matrici etiche che li guidarono furono inquadrate in un orizzonte nazionale e patriottico, tanto in Italia quanto in Francia. Qualsiasi fosse l’idea di società da costruire alla fine della guerra, tutti si mossero nella percezione che la propria nazione fosse una sorta di entità spirituale meritevole di una rappresentanza istituzionale che ne fosse espressione. La centralità dell’orizzonte nazionale per il cittadino moderno è ancor più prorompente nella testimonianza di Marc Bloch, che racconta la sconfitta del ‘40 coniugando il fervore del soldato cittadino di Francia e il senso critico dello storico. La testimonianza che ne è derivata prende le mosse dalla sua esperienza di soldato, capitano addetto ai rifornimenti, e diventa l’esame di coscienza di un francese, mettendo sul banco degli imputati gli alti comandi dell’esercito e la nazione intera. I primi erano accusati di essersi adagiati sugli allori della prima guerra mondiale, che tutti avevano combattuto, fiduciosi nella tenuta delle fortificazioni e incapaci di adeguarsi alla guerra di mobilità messa in atto dalla Wehrmacht

14 J. Moulin, ibidem, corsivo dell’autore. 15 J. Moulin, op.cit., page 89.

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con truppe motorizzate e attacchi aerei. “In breve i nostri comandanti, tra mille contraddizioni, hanno voluto combattere nel 1940 la guerra del 1915-18. I tedeschi, invece, stavano facendo quella del 1940”16.

La popolazione intera è invece accusata di aver badato solo al proprio recinto e alla tranquillità delle proprie piccole città, di non essersi mobilitata per fornire all’esercito quanto necessario per una guerra moderna troppo presa dalle divisioni sociali: la borghesia e le forze reazionarie si erano sentite minacciate dalle rivendicazioni operaie e dal Fronte popolare, i sindacati erano troppo arroccati sulle proprie rivendicazioni per fare concessioni orarie e salariali in vista dello sforzo bellico. Bloch dipinse quindi la sconfitta del ‘40 come una

défait intellettuale (prima che militare) del pensiero e della prassi politico-sociale della

Francia degli anni ‘30. Egli traccia una lucida analisi nelle vesti di soldato e di storico, ma il motivo per cui sente la necessità di queste considerazioni è il più volte dichiarato amore per la Francia. I doveri che attribuisce ai francesi evocano un sistema di valori per cui in guerra ogni cittadino è chiamato a svolgere la propria parte con la devozione di un soldato, in accordo col rifiuto di Jean Moulin di siglare un protocollo infamante per le truppe della propria nazione. Infatti, Bloch avverte sin dall’introduzione che, prima ancora che un ebreo, uno storico e un soldato, è un francese e come tale combatte, perché “vi sono nato, ho bevuto alle fonti della sua cultura, ho fatto mio il suo passato, non respiro bene che sotto il suo cielo e a mia volta ho cercato di difenderla come meglio ho potuto”17.

Intanto il governo si divise sulla scelta tra la firma della capitolazione e la prosecuzione della guerra, i ministri e le personalità più in vista lasciarono Parigi e Philippe Pétain, eroe della prima guerra mondiale e vice primo ministro, prese il comando dei partigiani dell’armistizio e sostituì Reynaud, dimissionario, la sera del 16 giugno. Il giorno successivo annunciò ai francesi che la guerra era persa e la Francia avrebbe accettato la condizione di vinto e concluso un armistizio con il nemico. Nelle stesse ore il generale De Gaulle, chiamato da Reynaud come sottosegretario di Stato alla Difesa nazionale il 5 giugno, era a Londra a trattare con il governo inglese la prosecuzione della guerra e la spartizioni di aiuti statunitensi. Egli inviò un telegramma al comandante in capo delle forze francesi in Africa del nord, Noguès, dichiarando la sua disponibilità a proseguire nei combattimenti, ma gli fu risposto di rientrare in Francia. Era ormai chiaro che gli alti comandi francesi non erano

16 Marc Bloch, “La strana disfatta. Testimonianza del 1940”, Torino, Einaudi 1995, pag.52. 17 M. Bloch, op.cit., pag.8.

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intenzionati a continuare la guerra, mentre De Gaulle scrisse a Weygand, capo dell’esercito, che non avrebbe eseguito l’ordine “car, bien entendu, je n’ai aucun résolution que celle de servir en combattant”18. Tramite la BBC, messa a sua disposizione da Churchill, De Gaulle annunciò

“Au nom de la France, je déclare formellement ce qui suit:

Tout Français qui porte encore des armes a le devoir absolu de continuer la résistance. Déposer les armes, évacuer une position militaire, accepter de soumettre n’importe quel morceau de terre française au control de l‘ennemi, ce serait un crime contre la patrie.”19

Il rifiuto della sconfitta e l’appoggio inglese fanno sì che il generale si adoperi per formare un Comitato nazionale francese in nome del superiore interesse della patria, tentando invano di ottenere l’allineamento dell’Impero coloniale. Sebbene l’appel del 18 giugno sia ricordato nei libri di storia come l’avvio della Resistenza francese, nel territorio metropolitano gli avvenimenti di Londra erano poco noti e i riflettori erano concentrati sulle trattative per l’armistizio, che fu firmato a Compiègne il 22 giugno, nello stesso vagone in cui era stata firmata ventidue anni prima la resa senza condizione dei tedeschi. Vi era stabilito il disarmo di tutte le truppe di terra, salvo quelle di polizia necessarie all’ordine interno, e la diretta occupazione tedesca del nord della Francia con totale disponibilità dei porti sulla Manica, necessari per il lancio dell’operazione Leone marino. Una linea di demarcazione tracciava la separazione dalla zona detta libera, il cui controllo era attribuito a l'Etat Français in costituzione, che doveva comunque consentire il passaggio di truppe e materiali tedeschi tra il nord occupato e la zona a sud-est sotto occupazione italiana. Le spese dell’occupazione e il sostentamento dell’esercito tedesco erano a carico dell’amministrazione francese, cui spettava anche il mantenimento dell’ordine. Hitler non avanzava rivendicazioni territoriali sull'Impero né sulla Francia metropolitana (veniva taciuta l’annessione di fatto dell’Alsazia e della Lorena al Reich) e venivano rimandate alla firma del trattato di pace le rivendicazioni sulla flotta, anche se quella di alto mare veniva smobilitata e disarmata. Infine erano condotti in Germania un milione e mezzo di prigionieri di guerra a titolo di ostaggi politici e tutto il materiale bellico presente sul territorio occupato passava sotto il controllo dei vincitori. In questo modo, Hitler aveva a disposizione le forze materiali e umane dell’industria bellica

18 Lettera di De Gaulle al generale Noguès, 20 giugno 1940, in Charles De Gaulle, “Mémoires de guerre.

L’appel 1940-1942”, Plon, Parigi, 1954, pag. 269.

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francese per la sua guerra totale, dispensandosi dall’onere dell'amministrazione territoriale e dalle spese di mantenimento delle proprie truppe sul territorio francese.

Nella zona libera venne stabilito l'Etat français con sede nella cittadina termale di Vichy, al quale il parlamento assegnò il

compito di revisione

costituzionale il 9 luglio, grazie all’appoggio sia dei partiti conservatori sia della SFIO. In questo modo, l’Etat francais prendeva i poteri seguendo il regolare iter parlamentare che rendeva il governo pienamente legittimo agli occhi dei francesi, che

tardarono a opporvisi

apertamente e a vedere in Pétain un collaborazionista. (20)

Nel momento dell’insicurezza e della disfatta, senza alcuna pressione da parte tedesca e grazie alle abili manovre di Laval, il parlamento si auto sabotò in nome di un potere autorevole e rassicurante che avrebbe dovuto mantenere l’ordine e tutelare i francesi della zona libera.

Pétain a capo del governo era il simbolo di questi intenti, l’espressione del desiderio di tornare a tempi trascorsi, a un agone politico meno dialettico, superando le agitazioni e i contrasti che avevano segnato i governi del Fronte popolare. Questo eroe della prima guerra mondiale dichiarava infatti che la disfatta era dovuta a una deriva morale della nazione, che aveva perso di vista gerarchie, valori e ruoli. Propugnava la necessità di un redressement intellettuale, e, in risposta alle corruzioni della vita cittadina, proponeva un ritorno alla terra e una nuova centralità della famiglia quale nucleo fondante del tessuto sociale. Tale

Révolution nationale passava per la scuola e l’istruzione, che avrebbero dovuto insegnare ai

più giovani i valori morali e tenerli lontano da corruzioni quali l’alcool e i divertimenti

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moderni; lo studio della religione fu reintrodotto, gli ecclesiastici ottennero il diritto di insegnare e il corpo docente fu epurato dai membri vicini al Syndicat National des Enseignants, legato alla CGT. I giovani erano inoltre tenuti a trascorrere almeno otto mesi in uno dei Chantiers de la jeunesse, in cui svolgevano lavori forestali e imparavano nozioni sull’ordine sociale e la storia di Francia. Le decisioni erano prese in un consiglio in cui il primo ministro riuniva di volta in volta ministri a sua scelta, che assieme ad alti funzionari, ufficiali e magistrati erano tenuti a prestare giuramento al capo dello stato. Furono introdotte restrizioni all’ottenimento da parte degli immigrati della nazionalizzazione e il 3 ottobre 1940 una legge proibì agli ebrei l’esercizio di uffici pubblici, della magistratura e di attività culturali. Il 9 novembre i sindacati furono aboliti e le organizzazioni di lavoratori sciolte a favore di un sistema corporativo che mirava a eliminare la concorrenza e la lotta di classe, avvertite dagli industriali degli anni ‘30 come i principali ostacoli alla produttività.

All’interno del governo esistevano inoltre più posizioni sulla collaborazione, riassumibili in due indirizzi: coloro che ritenevano di dover perseguire la collaborazione economica con l’occupante, allo scopo di trattare migliori condizioni al momento della pace, e i convinti che l’Europa del futuro sarebbe stata tedesca e la Francia avrebbe potuto guadagnarvisi un posto tramite un appoggio anche politico alla guerra del Reich. Pierre Laval, vice primo ministro, era il principale fautore del secondo indirizzo, ma fu silurato a causa della sua libertà d’azione e sostituito da Darlan, ammiraglio a capo della Marina, che assunse gli incarichi di vicepremier, ministro degli Esteri, e in momenti differenti, dell’Informazione, degli Interni e della Difesa. Furono queste le due personalità che più si occuparono del rapporto con l’occupante, i cui momenti più noti furono i colloqui di Montoire e i protocolli di Parigi con cui i vinti assicuravano rispettivamente appoggio economico in cambio della sovranità sul territorio francese e la disponibilità dei porti dell’Impero alla flotta tedesca. Robert Paxton ammonisce dal considerare la Révolution nationale una forma di fascismo, poiché lontana dallo slancio di massa e dalla tensione verso il nuovo che caratterizzavano regimi come quello tedesco o italiano. Fu invece una reazione dei conservatori al governo del Fronte Popolare e un ritorno al potere delle élite tradizionaliste permesso e accelerato dalla sconfitta e dalla semi occupazione. In questo modo si evita il rischio di ridurre il fenomeno a un fatto di importazione e si rintracciano nelle sue azione politica “le profonde radici che legavano la politica di Vichy ai grandi conflitti della Terza Repubblica”21. L’Etat

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Francais sorse infatti, più che come rottura dalla pratica politica della Terza Repubblica, come risposta alle sue fratture, come dimostra il fatto che

“nella destra francese furono in molti ad accogliere con favore il crollo della democrazia parlamentare e a considerare l’occupazione come l’occasione per saldare con la sinistra un conto che risaliva a decenni prima, all’epoca dell’Affare Dreyfus e forse addirittura ai tempi della Rivoluzione”22.

I valori propugnati infatti, il ritorno alla terra, l’esaltazione della famiglia, l’elogio del capo di stato quale padre della patria, l’educazione dei giovani e persino l’antisemitismo non possono considerarsi estranei a una certa tradizione politica francese, messa sempre più in minoranza dall’avanzata delle masse. E’ del tutto peculiare al dibattito politico francese tra XIX e XX secolo il tipo di antisemitismo, culturale e religioso, che proliferava in alcuni ambienti; Paxton nota infatti che sino al ‘42 “la sua xenofobia fu più culturale e nazionalistica che razziale, discendeva dalla tradizione francese dell’assimilazione”, si diffidava dell’ebreo perché non si amalgamava alla “conformità culturale” nazionale23, apparendo come un nemico interno come ai tempi di Dreyfus, non per via della sua discendenza.

Il settore in cui le scelte di Vichy furono invece direttamente influenzate dall’occupante fu quello economico: i costi fissati per l’occupazione a carico dello Stato francese erano di 400 milioni di Franchi al giorno, che scesero a 300 milioni con i Protocolli di Parigi e salirono a 500 milioni con dopo l’occupazione dell’intero territorio francese.24 La corporazione degli agricoltori divenne presto un meccanismo di raccolta e smistamento dei prodotti agricoli, i comitati sociali d’impresa erano controllati dagli impiegati e i grandi industriali facevano profitti grazie ai contratti di guerra con il Reich. L’interruzione dei regolari scambi su scala nazionale e il drenaggio di beni agricoli e materie prime strategiche verso la Germania causarono una penuria generale, imposero al governo un economia dirigista e suscitarono il malcontento degli agricoltori che si volsero al mercato nero.

La temporanea inattività dei sindacati appena messi al bando, della SFIO e del PCF e la legittimità parlamentare di cui Vichy era investita, non lasciavano spazio all’avvio di una Resistenza organizzata. Ciò comportò che l’opposizione all’occupante si realizzasse

22 Mark Mazower, “L’impero di Hitler. Come i nazisti governavano l’Europa occupata”, Mondadori, 2010,

pag.435.

23 R.O. Paxton, op.cit., pag. 165. 24 Paxton, op.cit., pag. 141.

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altrimenti, a partire da iniziative di gruppi ristretti della società civile. La pubblicazione di giornali e tract contro il nemico fu una delle prime risposte messe in atto in entrambe le zone: possiamo citare tra i primi giornali in zona occupata Liberation, guidato da Christian Pineau, Défense de la France, organizzato da intellettuali della Sorbona e Resistance, curato dagli antropologi del Musée de l’homme di Parigi. A sud, i coniugi Aubrac misero in piedi

Liberation-sud, Frenay il Movimento di Liberazione nazionale con il suo giornale, Combat,

e un gruppo di cattolici inizio la pubblicazione dei Cahiers de Témoignage Chrétienne. Si trattava di piccoli gruppi, spesso colti, che montavano una rotativa in locali di fortuna e iniziavano a stampare, fronteggiando le mancanze finanziarie e mettendo in comune o sviluppando le competenze necessarie. Il loro scopo era “adresser un discours clair à une opinion publique qu’il s’agissait de convaincre pour, à terme, la mobiliser”25 attaccando l’occupazione e il saccheggio di risorse francesi, ma almeno per il primo anno di occupazione molti gruppi non contestarono Vichy e cercarono di spingere il maresciallo a reagire alle pretese tedesche. Solo con la fine del 1941, l’ingresso nella lotta del PCF e l’avvio dei lanci gollisti che i movimenti, ormai definiti, poterono cominciare a dialogare in vista di una futura unità d’azione. Nel febbraio ‘42 inoltre l’Humanité annunciò la creazione Francs-Tireurs, organizzazione nata dall’unione dei Bataillons de la jeunesse e dell’Organisation Secrète, organizzazioni paramilitari del PC, che si occupava della propaganda, ma anche dell’attuazione di sabotaggi e azioni armate.

Le motivazioni individuali e le posizioni dei singoli gruppi restano irriducibili a uno schema interpretativo, tuttavia i movimenti erano uniti dal patriottismo e dall’antinazismo, divisi sulle strategie di lotta e la posizione da assumere nei confronti di Vichy e della Francia Libera.

Già nel ‘40 De Gaulle aveva messo in piedi il 2° Bureau, addetto al servizio d’informazioni, assegnato a André Dewavrin, Passy, che dirigeva l’invio di agenti sul territorio della

metropole, ottenendo pagine e pagine di resoconti sulle risorse e le postazioni tedesche

tramite la Spagna, grazie al lavoro di agenti come Gilbert Renault, Remy. Il supporto che i movimenti interni ricevevano dal Regno Unito era però vincolato alle necessità strategiche dello Special Operation Executive, che cercava un controllo sui gruppi interni per evitare un’azione prematura e ottenere invece la mobilitazione delle retrovie al momento del D-Day.

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“Perché la loro lotta si armonizzasse con la grande strategia alleata, le autorità britanniche dovevano esercitare, per via diretta o tramite i governi in esilio, un controllo sulle forze clandestine, controllo che presupponeva una condizione: che i poteri esiliati fossero pienamente legittimi”26.

Il lavoro svolto in Francia dagli agenti gollisti aveva quindi per il generale il compito centrale di investire di legittimità il suo ruolo, al punto da renderlo per gli Alleati un intermediario indispensabile al momento dello sbarco e delle trattative per la pace a liberazione avvenuta. Il 2 gennaio Jean Moulin, che era riuscito a raggiungere le forze della Francia libera a Londra, fu paracadutato in zona sud con lo scopo di ripartire aiuti finanziari ai movimenti della Resistenza interiore che scegliessero di accettare l’autorità di De Gaulle. La missione era complicata dal fatto che essi, soprattutto i comunisti, rivendicavano il riconoscimento di un ruolo autonomo nella gestione della lotta in metropole, mentre De Gaulle e gli Alleati non potevano permettere azioni non previste nella propria strategia bellica. Pur con contrasti tra Moulin, Frenay e le organizzazioni comuniste, gli accordi portarono alla nascita all’inizio del ‘43 del Mouvement unis de la Résistance (MUR) e alla costituzione di un Armée secrète. L’invio a Londra di personalità centrali della Resistenza interna (ad esempio Christian Pineau), una missione in Francia di Pierre Brossolette e il corso degli eventi bellici consentirono la formazione del Conseil national de la Résistance (CNR), cui presero parte anche il PCF e la SFIO di Leon Blum. Intanto il 21 giugno Jean Moulin cadeva vittima di una filatura e veniva arrestato dalle SS in un incontro a Caluire; sarebbe morto su un treno per la Germania in seguito alle sevizie subite.

Nel frattempo, nel novembre ‘42 le truppe anglo-statunitensi erano sbarcate nell’Africa francese, la Wehrmacht aveva invaso anche la zona libera ed erano iniziati i rastrellamenti e le deportazioni della popolazione ebraica. Nel febbraio 1943 Sauckel, plenipotenziario per la manodopera del Reich, decise di sfruttare le risorse umane francesi senza deportazione e istituì il Service du Travail Obligatoire (STO) per i nati tra il 1920 e il 1923. Con la totale occupazione, lo STO e la strutturazione dei gruppi organizzati, la resistenza ottenne un nuovo slancio e si aprì a una più ampia partecipazione per nascondere ebrei o renitenti, molti dei quali si rifugiarono in montagna riempiendo le file dei maquis.

Nonostante nel ‘43 Pétain fosse ormai compromesso a tal punto da non rappresentare più un’opzione né per i francesi, né per gli alleati, De Gaulle appariva ancora agli occhi degli statunitensi come un generale autoincoronatosi portavoce della nazione, non estraneo a

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tendenze dittatoriali. Perciò oltre il Mediterraneo, gli Americani avevano imposto Giraud, ammiraglio della flotta, come capo militare e, dopo un primo momento lealista, Darlan si era accordato con Eisenhower e si era dichiarato difensore dell’Africa del Nord. De Gaulle si trovava così di fronte a una minaccia al proprio ruolo di rappresentante dell’esercito e degli interessi francesi presso gli Alleati e si adoperò per ribadire e consolidare la propria posizione. Incontrò Giraud ad Anfa stipulando la costituzione di un potere centrale provvisorio, e giocò bene le sue carte politiche proponendosi ai gruppi della Resistenza interna come unico autorevole intermediario presso gli inglesi. Inoltre, le potenze democratiche dovevano tener conto dell’opinione pubblica, che non amava Giraud, conservatore e da sempre antisemita, così “le sue scelte vichyste gli alienarono rapidamente gli appoggi”27 dei gruppi interni, la cui posizione interessava invece gli anglo americani. Dopo la scomparsa di Moulin, i movimenti erano scontenti della linea da lui dettata al CNR per l’inclusione dei partiti e i criteri imposti per l’ingresso nel Conseil: era infatti previsto che ogni movimento avesse un giornale, una rete di spionaggio e un movimento paramilitare. Essi formarono dunque nel giugno ‘43 il Comité central des Mouvement de Résistance, che riconosceva alla Francia libera l’autorità sulla conduzione della guerra ma chiedeva il controllo della Resistenza interna in Francia. De Gaulle, che non poteva permettersi una svolta autonoma, integrò il comitato e le commissioni espressione dei movimenti interni nel CNR, la presidenza del quale fu attribuita per elezione a Georges Bidault, democristiano membro di Combat che non si opponeva a De Gaulle ma “era prima di tutto un uomo dei movimenti”28.

Così alla fine del 1943, seppur con diffidenze e disaccordi, la resistenza interna era congiunta in istituzioni e organi comuni per una conduzione unitaria della liberazione nazionale, riconosciuti e coordinati dai servizi militari e di spionaggio della Francia libera in vista del giorno J. Tale unità costituisce un caso unico nel panorama delle Resistenze europee, segnate dalle incapacità di formare un fronte comune. Nel caso italiano, se è vero che i partiti misero da parte le loro differenze per lavorare assieme nel CLN, il re e Badoglio non riuscirono mai a essere un punto di riferimento credibile per tutti i partiti della Resistenza. La Francia presenta invece questa unità peculiare che “ argina le tendenze centripete della resistenza

27 O. Wieviorka, “Storia della Resistenza nell’Europa occidentale. 1940-1945”, op.cit., pag. 228. 28 Wieviorka, op. cit., pag.314.

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francese, la obbliga a cercare una forma minimale di consenso e permette di rappresentarla come un tutto tanto omogeneo che un uomo, Charles De Gaulle, può incarnare”29.

3. Italia, un paese diviso e un governo compromesso

Mussolini annunciò l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale il 10 giugno 1940 dal balcone di palazzo Venezia. La consapevolezza dell’impreparazione dell’industria e dell’esercito italiano, che avevano portato dieci mesi prima alla dichiarazione di non belligeranza, furono vinte dalla convinzione che la Germania fosse la futura dominatrice dell’Europa. Nei piani del duce, infatti, la conduzione di una guerra parallela a quella dell’alleato avrebbe consentito di rivendicare a fine conflitto una supremazia italiana sul Mediterraneo, accanto al controllo tedesco dello spazio continentale.30 La campagna italiana in Nord Africa contro gli inglesi e l’offensiva contro la Grecia dall’Albania misero a nudo in pochi mesi l’incapacità italiana, tanto che Hitler fu costretto a intervenire su entrambi i fronti per evitare l’invasione della penisola. Tuttavia, nel corso del 1942 la guerra volse a favore degli inglesi che, ormai affiancati dagli Stati Uniti, dopo la conquista delle coste africane poterono sbarcare in Sicilia il 10 luglio 1943.

A quella data i consensi al regime vacillavano da tempo sotto il peso di una guerra divenuta presto onerosa per la popolazione, all’interno quanto al fronte. Nella primavera si era infatti registrata un’ondata di scioperi nelle fabbriche del triangolo industriale e i soldati mandati nel deserto o nelle fredde campagne russe si erano resi conto che la sontuosa propaganda del regime non trovava riscontro nella realtà dei combattimenti.

“ Prima dell’elaborazione politica, prima dell’argomentazione intellettuale, sono le ruberie delle retrovie, le armi arrugginite, le bombe a mano che non esplodono, gli imboscati di partito, a generare un rigetto che, nella crisi dell’estate del ‘43, diviene scelta consapevole della necessità di riprendere la lotta contro ciò che resta del fascismo e contro i suoi alleati”31.

Di fronte all’arrivo delle truppe nemiche sul territorio nazionale, un gruppo di militari vicini al re e alcuni gerarchi fascisti riunirono il Gran Consiglio il 25 luglio e votarono l’ordine

29 Wievorka, op. Cit., pag.286.

30 Per maggiori indicazioni sui piani del governo fascista cfr. D. Rodogno “Il nuovo ordine mediterraneo. Le

politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1945)” Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

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Grandi, che prevedeva la deposizione di Benito Mussolini dalla guida del governo; il re ne chiese le dimissioni e incaricò l'ex capo di Stato maggiore dell’esercito, Pietro Badoglio, della formazione del governo. Il mese successivo fu segnato dai bombardamenti per spingere l’Italia alla resa, ma, mentre la popolazione sperava che la fine del fascismo significasse la fine della guerra, il governo trattava in segreto con gli Alleati e Hitler preparava i contingenti della Wehrmacht all’occupazione. La firma dell’armistizio fu resa pubblica l’8 settembre, il giorno successivo il re, Badoglio e gli alti ufficiali lasciarono la capitale per rifugiarsi a Brindisi, mentre gli Alleati sbarcavano a Salerno, Taranto e Reggio Calabria. Nelle stesse ore le truppe tedesche riuscivano a mantenere il controllo della penisola sino alla Gustav, una linea di fortificazioni che correva dal Tirreno all’Adriatico all’altezza di Cassino. Lo Special Operation Executive aveva già tentato di negoziare con esponenti dell’esercito italiano nei due precedenti anni di guerra, ma Badoglio stesso aveva dichiarato che non sarebbe intervenuto senza l’appoggio del re. In un incontro tenutosi alla fine di agosto a Lisbona, gli Alleati avevano comunicato al legato italiano Castellani che avrebbero accettato dall’Italia solo una resa senza condizioni sul piano militare, rinviando la definizione del ruolo politico della penisola. Infatti il documento, firmato a Cassibile e poi trasmesso al comando del regio esercito dal generale Ambrosio, recitava:

“in base alle condizioni di armistizio, a partire dalle ore 19,45 di oggi otto settembre, dovrà cessare ogni nostro atto di ostilità verso la FF.AA. anglo-americane. Le FF.AA. italiane dovranno però reagire con la massima decisione ad offese che provenissero da qualsiasi altra parte.” 32

L’interpretazione dell’ultima frase della dichiarazione si presta ad una certa ambiguità, non è chiaro se l’Italia abbandoni il conflitto o si volga invece verso un nuovo nemico. Così, mentre la popolazione festeggiava la fine della guerra, la fuga del governo da Roma e il mancato chiarimento della posizione bellica dell’esercito lasciavano tre milioni di soldati abbandonati a sé stessi, talvolta vittime delle ritorsioni tedesche, come avvenne nell’isola greca di Cefalonia33. Nelle stesse ore, sul territorio nazionale, i soldati si liberavano delle divise e cercavano abiti civili nel tentativo di sfuggire alla cattura e alla deportazione in

32Testo dell'armistizio "breve" del 3 settembre 1943 comunicato dal gen. Ambrosio ai comandanti delle

forze armate in data 8 settembre 1943 , pubblicato in “L'inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943”, a cura di Elena Aga Rossi, Ministero per i beni culturali e ambientali,

Ufficio centrale per i beni archivistici, 1993.

33 O. Wieviorka, “Storia della Resistenza in Europa occidentale, 1940-1945”, Torino, Einaudi, 2018, pag.

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Germania. Nella popolazione di tutto il paese che alloggiò, nutrì e abbigliò i giovani militari allo sbando, Pavone rintraccia l’avvio di quel supporto, che la società civile trovò al suo interno in un momento di smarrimento istituzionale, che abbiamo chiamato Resistenza passiva. Il 9 settembre, gli esponenti dei partiti antifascisti, rientrati dal confino o sortiti dalle carceri dopo il 25 luglio, si riunirono a Roma dando vita ad un Comitato di liberazione nazionale (CLN). Vi sedevano rappresentanti del Partito liberale italiano, della Democrazia cristiana, della Democrazia del lavoro, del PC, del Partito socialista di unità proletaria, guidato da Nenni, e del Partito d’Azione, erede del movimento antifascista Giustizia e Libertà fondato a Parigi dai fratelli Rosselli. La Resistenza armata in Italia sarà il risultato della politicizzazione e dell’istituzionalizzazione delle bande montane che i partiti del CLN riusciranno a portare avanti. I più attivi sul fronte della lotta armata furono i comunisti, che diedero vita alle Brigate Garibaldi, e gli azionisti, le cui bande furono denominate Giustizia e Libertà; esistevano inoltre le socialiste Brigate Matteotti e un gran numero di formazioni che si dichiararono autonome dai partiti, di indirizzo monarchico e/o cattolico, come la friulana Osoppo.

Nell’autunno ‘43 erano quindi presenti e operativi in Italia gli attori che nei venti mesi successivi avrebbero animato una penisola divenuta teatro di guerra per la prima volta dalla sua unificazione. Come la Francia di tre anni prima, l’Italia si ritrovò in breve tempo amministrativamente divisa, non da una linea di demarcazione ma dalla linea del fronte: a nord il governo dell’area sotto occupazione tedesca fu affidata alla Repubblica Sociale Italiana, regime collaborazionista messo in piedi grazie alla liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi; a sud il governo di Vittorio Emanuele III e del maresciallo Badoglio era affiancato dal Allied Military Government on Occupy Territory (AMGOT), amministrazione militare della zona sotto occupazione alleata.

Il 29 settembre, a Malta, Badoglio firmò l’armistizio lungo, testo che precisava le condizioni della resa, sancendo il passaggio dell’esercito, della flotta e delle risorse belliche italiane sotto il controllo degli angloamericani. Era inoltre creata una Commissione di Controllo, presto ribattezzata Commissione Alleata, il cui compito era fiancheggiare il governo di Brindisi, con gestione diretta delle cinque province pugliesi, mentre il resto del sud Italia era amministrato dalla AMGOT. Il governo Badoglio, oltre a sovrastimare il proprio potere contrattuale come nemico sconfitto, non era al corrente dei reali piani alleati, credeva che “gli angloamericani avrebbero preferito un'Italia neutrale ad una occupazione tedesca del

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paese e all'imposizione di un nuovo governo fascista”34. In realtà, le intenzioni di Eisenhower e Churchill erano esattamente di rendere l’Italia “un peso per le risorse tedesche”35, di modo da indebolire le forze della Wehrmacht nel nord della Francia, dove l’operazione Overlord prevedeva lo sbarco che avrebbe consentito di schiacciare la potenza tedesca. La posizione dell’Italia fu quindi mantenuta in un’opportuna ambiguità, evitando la dicitura di nemico

sconfitto ma anche quella di alleato, coniando la condizione di cobelligerante, la cui

posizione al tavolo della pace sarebbe dipesa dal suo impegno a fianco dei nuovi alleati. I partiti antifascisti tuttavia non gradivano il governo designato a rappresentare il paese, dal momento che ai suoi vertici vi erano personaggi collusi con il fascismo di regime, che non offrivano alcun segno di svolta democratica. Il re, infatti, non solo aveva appoggiato Mussolini nel corso del ventennio, ma era responsabile della sua ascesa al potere; e Badoglio, nonostante la sua rottura col duce nel 1940, era stato a lungo capo di Stato Maggiore dell’esercito, per non contare i crimini di guerra di cui si era macchiato in Etiopia. Tuttavia se la popolazione e i partiti italiani mettevano in dubbio la credibilità del governo, la sua compromissione con il fascismo faceva il gioco degli alleati. Come sintetizzato da Wievorka infatti, “la presenza del re assicurava l’obbedienza delle forze armate, mentre la compromissione di entrambi con il fascismo garantiva la loro docilità”36.

Intanto, al di là del fronte, Mussolini, liberato dal Gran Sasso e accordatosi con Hitler, aveva annunciato il 15 settembre la nascita del Partito fascista repubblicano e la formazione di un nuovo governo assieme a coloro che il 25 luglio avevano votato contro la sua deposizione. Nonostante alcuni dirigenti tedeschi preferissero una diretta occupazione per meglio sfruttare le risorse economiche della Val Padana, Hitler valutò “il disastroso effetto politico che avrebbe avuto, innanzitutto sui satelliti minori, la riduzione del senior partner dell’Asse a terra di conquista”37 e progettò il ritorno al potere del proprio mentore ideologico. In questo modo restava formalmente in piedi l’alleanza e, come in Francia, l’occupante tedesco manteneva il controllo territoriale senza farsi carico della gestione amministrativa.

Lutz Klinkhammer, autore dello studio più esaustivo sul sistema tedesco di occupazione in Italia, lo analizza nei termini di una policrazia, ovvero la compresenza di differenti poteri che filtravano, interpretavano e attuavano le direttive che il Fuhrer inviava dal centro.

34 Elena Aga Rossi, Introduzione a “L'inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del

settembre 1943”, op. cit. , pag. 34.

35 ibidem.

36 O. Wieviorka, “Storia della Resistenza in Europa occidentale, 1940-1945”, op.cit., pag. 245. 37 C. Pavone, op.cit., pag. 230-231.

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L’ordine del 10 settembre stabiliva l’autorità amministrativa di Salò nella zona occupata, ma affiancava a Mussolini l’ambasciatore Rudolf Rahn, plenipotenziario per il Reich in Italia alle dipendenze di Ribbentrop, che otteneva così “una serie di funzioni in una sorta di governo civile parallelo al governo italiano”38. La zona appenninica era invece denominata zona d’operazione per la vicinanza del fronte e si trovava sotto controllo militare. Tuttavia nella zona occupata fu disposta un’amministrazione della Wehrmacht, che si basava sui comandi militari, dotati di un ramo amministrativo, suddivisi a loro volta in piazze a livello provinciale. Venne in questo modo generato un contrasto tra il ministero degli Esteri e il Comando supremo dell’esercito, alimentato da un nuovo ordine del Furher del 10 ottobre che subordinava il responsabile amministrativo a quello militare. Secondo lo studioso tedesco creare “due contraddittori ordini o incarichi paralleli [...] creando perciò una policrazia dei rapporti di potere” è una “situazione che si incontra di frequente nella politica di occupazione nazionalsocialista ed era caratteristica dello stile di Hitler”39 per garantire un continuo dinamismo nella struttura di potere. Bisogna poi aggiungere che oltre a Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia, e a Rahn, furono insediati in Nord Italia altri uffici del sistema nazionalsocialista, ciascuno intento all’adempimento delle proprie funzioni. Le SS in primo luogo, guidate da Wolff in qualità di consigliere speciale di polizia presso il governo fascista, erano responsabili dell’ordine interno e della lotta ai partigiani oltre i 30 chilometri dalle coste (di competenza dell’esercito per i possibili sbarchi). Leyers era invece incaricato, per conto del ministro degli armamenti Speer, della Direzione generale degli armamenti e della produzione bellica, da cui dipendeva anche la costruzione delle fortificazioni. L’organizzazione Todt, infine, per mezzo dei legati di Sauckel, era addetta al reperimento di manodopera per l’industria tedesca, in loco o da trasferire in Germania. In questo intrico di poteri e competenze, la posizione del fascismo rispetto all’alleato restò ambigua e aprì la via a considerazioni storiografiche sul grado di autonomia e sugli scopi di Mussolini negli ultimi mesi della sua vita. Taluni hanno visto nella fase repubblicana del fascismo un tentativo di difendere la popolazione italiana dalla guerra e mitigare le asprezze dell’occupazione tedesca; altri hanno interpretato questa fase come un ritorno al fascismo delle origini, per il recupero di intenzioni socializzanti e il modus operandi di carattere militare. Danielle Gagliani evidenzia l’esistenza, all’interno del nuovo partito, di spinte

38 L. Klinkhammer, “L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945”, Bollati Boringhieri, Torino, 1993,

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