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Considerazioni finali: l’eredità del peronismo

Alle elezioni del 1951 Perón fu riconfermato con il 62,5% delle preferenze, facendo incetta di voti femminili, popolari e provinciali. L’Argentina peronista era al culmine della sua gloria. È certo, come si è visto, che nonostante il boom economico degli anni precedenti stavano già affiorando diverse contraddizioni che rivelavano quanto quell’equilibrio “che aveva giovato a tutti” fosse precario. Vari fattori lo testimoniavano. La caduta del ministro Miranda nel 1949 e la sua sostituzione con A.G. Morales, assai più ligio alle leggi dell’economia ortodossa e l’avvio del secondo Piano quinquennale (1952-1957) in coincidenza con una congiuntura internazionale negativa contrassegnata dal basso costo delle materie prime di cui l’Argentina era esportatrice, segnavano l’avvio di una fase assai meno eroica di quella precedente. Il ciclo espansivo era stato alimentato con abbondanti emissioni di moneta e con l’espansione della spesa pubblica che avevano generato un nuovo preoccupante fenomeno: l’inflazione. Per tutta risposta, Perón lanciava il 18 febbraio 1952 il Plan de Emergencia al grido di “produrre,

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produrre, produrre”. I lavoratori, nonostante il vincolo che li legava al loro presidente, iniziarono ad avvertire gli effetti del riflusso economico e scoppiarono scioperi non autorizzati. D’altro canto la CGT rimase fedele al governo e bollò quegli scioperi come “vili attentati contro la rivoluzione peronista”.66

Così, come per l’economia, anche l’armonia del tessuto sociale iniziava a dar segno di essersi inesorabilmente alterata. È nel rapporto con l’esercito e con la Chiesa (le due corporazioni che dall’inizio erano state il pilastro del governo) che iniziano a mostrarsi le fratture più insanabili all’interno della pax peronista. In particolare, la Chiesa era infastidita per il culto della personalità che Perón ed Eva avevano costruito intorno alle loro rispettive figure. Se in un primo momento infatti quel governo era stato lo strumento perfetto per fare assorbire a una società in ebollizione i valori del cattolicesimo, giunti a quest’altezza, al vertice della Chiesa cattolica argentina, e specialmente in seno all’Azione Cattolica (che come quella italiana si distingueva per il forte carattere sociale), sembrava inammissibile che la “religione politica peronista” prendesse il sopravvento sui dogmi cattolici. D’altronde, è certo che su questi gruppi, lungi dall’essere impermeabili agli umori della società, influissero le pressioni dei gruppi economici dominanti che, da una parte, intravedevano più vantaggiose alleanze con i gruppi politici conservatori, antiperonisti e fautori di un’economia ortodossa che fosse in linea con il mutare dei tempi; dall’altra, iniziavano a spaventarsi per il riaffiorare del conflitto sociale. Messo alla prova da più fronti, Perón non era più in grado di imporre una soluzione che si presentasse come valida per tutti. La reductio ad unum che fino a quel momento era stata orchestrata magistralmente dalle tecniche di governo della “comunità organizzata” era al punto di crollare.

Infine nel 1953 il conflitto si scatenò in tutta la sua violenza. Durante una manifestazione governativa in cui avrebbe parlato Perón scoppiarono nella Plaza de Mayo diverse bombe che provocarono decine di morti e centinai di feriti. Si era raggiunto il punto di non ritorno. Era il segno che i gruppi oppositori si erano lanciati al terrorismo e la reazione del governo non fu meno violenta. Mentre la polizia assisteva passivamente, folle di militanti peronisti assaltarono e diedero alle fiamme la Casa del Popolo, vicina agli ambienti socialisti, e la Casa Radicale. Ancora, venne assaltato il Jockey Club, lo storico centro di ritrovo delle élite della capitale. Gli anni successivi videro una escalation di violenza che infine portò al colpo di stato del 1955. Mentre Perón si rifugiava in esilio, la Casa Rosada veniva presa a mitragliate da un reparto

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dell’aviazione mentre reparti della Marina dalla costa minacciavano di convergere su Buenos Aires.

Era la fine del “peronismo classico” e l’inizio della fase della Revolución Libertadora: in nome della restaurazione delle libertà liberali e delle forme della rappresentanza democratica s’inaugurò una fase di gestione politica incentrata su discipline autoritarie. Il partito giustizialista fu messo al bando, stabilendo di fatto una distanza di lì in avanti insanabile tra società e potere politico, tra dominati e dominanti. Il movimento peronista continuava ad avere un enorme successo e ciò si deve al fatto che fu nella sua essenza un movimento popolare, che non disdegnava a priori il ricorso alla coazione, ma che in definitiva contava molto di più su tecniche di governo che si rifacevano a una governamentalità specifica. Questa come si è visto era basata su una dottrina nazionale (la dottrina giustizialista) per la quale “lo Stato non può essere testimone silenzioso

della condizione misera che colpisce per primo l’uomo, poi la sua famiglia, e infine distrugge l’intera comunità (…) lo Stato per essere decisivo deve intervenire rapidamente ed energicamente”.67

Lungi dall’essere intervenzionista solo in materia economica, quello del “peronismo classico” fu uno Stato che gettò le basi per una società fordista basata sul lavoro salariato, nella quale si estendeva attraverso il funzionamento di una rete di istituzioni che “penetravano” nella società civile e nel mercato –per esempio, attraverso misure per regolare il rapporto tra capitale e lavoro, o per l’impulso di politiche pubbliche- impedendo la mercantilizzazione di determinati spazi della vita pubblica.68 Le forme di soggettivazione di questa società, indotta a una cittadinanza inclusiva basata sull’erogazione statale di diritti politici (l’accesso delle masse alla rappresentanza e la sindacalizzazione) e ancor più di diritti sociali (salario garantito, diritto alla casa, sanità, educazione), erano destinate a rimanere ancora per almeno due decenni patrimonio comune di quel paese. Secondo la visione che si adotta in questo lavoro, fu l’incompatibilità tra una società con queste caratteristiche e un potere politico incapace di creare le forme di governamentalità adeguate, che fecero degli anni che seguirono la fine della prima esperienza peronista (1943-1955) un periodo di convulse agitazioni sociali.

67

Cfr. Perón, Doctrina Peronista. P. 73.

68

Fernando Stratta, Marcelo Barrera (2009), El tizón encendido. Protesta social, conflicto y territorio en la Argentina de la posdictadura. Buenos Aires, Editorial El Colectivo. P. 53.

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Da una parte, la diffusione della protesta sociale implicava forme di lotta fino a quel momento poco utilizzate: occupazioni di fabbriche (dove i lavoratori con il loro sindacato erano in gran parte peronisti), marce e metodi di azione diretta come sabotaggi e attentati. Dall’altra, questa esplosione di violenza politica aveva come bersaglio dichiarato i vari governi che si susseguirono fino al 1973 che erano perlopiù governi militari, autoritari e tanto più illegittimi quanto il peronismo rimaneva prescritto. Il mosaico della protesta fu reso ancor più complesso quando dagli anni Sessanta i lavoratori strinsero alleanze con altri settori della società, come gli studenti universitari, ma non solo. Nelle fabbriche sorsero nuove tendenze di lotta, che intrecciavano le istanze del peronismo e quelle della lotta di classe socialista. Mentre in tutta l’America Latina si diffondeva il mito della rivoluzione cubana e dell’argentino Ernesto Guevara, nel paese si formavano movimenti di guerriglia nelle aree rurali e organizzazioni armate rivoluzionarie nelle città.

In modo tanto ambiguo quanto opportunistico, Perón dal suo esilio in Europa cercava di incanalare in un unico discorso tutti gli elementi sociali che si contrapponevano ai governi in carica: non importava se questi provenissero da un sindacato come la CGT (al quale la dittatura riconosceva ampie autonomie e in cui si concentravano forti interessi di potere corporativo) o formazioni rivoluzionarie che s’ispiravano apertamente al marxismo (come l’ERP, Ejercito Revolucionario del Pueblo) o a un socialismo nazionale (come facevano i Montoneros e la Juventud Peronista). Nel 1970, in un’intervista rilasciata durante il suo esilio in Spagna, Perón invitava i giovani argentini a “perseguire la giustizia, se necessario anche con la violenza”. Diceva: ‹‹Gli

unici ad avere il diritto di ricorrere alla violenza sono i popoli quando si liberano. In questo caso la violenza è giustizia››.69

Il culmine di questa fase si raggiunse nel 1969 con il cosiddetto “Cordobazo”, con cui nella città universitaria di Cordoba un’insurrezione popolare guidata da lavoratori e studenti sfidò apertamente il governo militare, occupando interi quartieri e respingendo le forze dell’ordine con barricate e colpi di fucile. A difesa della cittadella universitaria si appostarono alcuni cecchini sui tetti dei palazzi. A questo punto, era chiaro che ai militanti che inneggiavano alla “Patria peronista”, si affiancarono quelli che invece

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pensavano che i tempi fossero maturi per instaurare una “Patria socialista”.70

Entrambi chiedevano a gran voce il ritorno di Perón ed erano momentaneamente incuranti delle differenze che li separavano. Per tutta risposta, la repressione pur feroce del governo militare di Onganía (1955-1960) sembrava inefficace a contenere un paese in subbuglio. Scioperi, abbandono improvviso delle attività, sabotaggio della produzione ecc., rientravano in una strategia di lotta che aveva nella fabbrica il suo minimo comune denominatore. D’altra parte anche il patrono di accumulazione di capitale era centrato sulla produzione industriale. Sull’asse del confronto tra capitale e lavoro si era mantenuta fino a quel momento la relazione tra società e governi (militari o civili che fossero, questi furono fino al 1976 “industrialisti”, così proseguendo di fatto la strategia economica peronista, che a sua volta implicava precise forme di soggettivazione sociale). Infine, quando il peronismo fu liberato dalla prescrizione e Perón poté tornare dal suo esilio nel 1973, il grado di conflittualità sociale era talmente alto da rendere il paese ingovernabile. Quel che è certo è che tutti si aspettavano che il “padre della nazione” avrebbe saputo portare il paese oltre quello stallo eppure Perón, ormai vecchio e malato, si spense nel 1974 lasciando molti interrogativi senza risposta e alimentando un mito destinato a sopravvivergli a lungo, fino a oggi. Nondimeno, fin da subito il governo di Isabel Perón (terza moglie del líder defunto) diede una svolta in senso reazionario alla sua amministrazione, avviando una persecuzione delle organizzazioni armate (la Represión de la sublevación) che di fatto anticipava la feroce fase repressiva del colpo di stato del 1976. In molti sostengono che questo era il seguito naturale di quanto iniziato da Perón stesso, quando durante la manifestazione del primo maggio, nel 1974, cacciò pubblicamente i Montoneros dalla Plaza de Mayo, accusandoli di tradire il peronismo con la loro irresponsabilità. Da quel momento in effetti quell’organizzazione, nata nel periodo della dittatura precedente al ritorno di Perón (1973), decisero di tornare alla clandestinità proprio quando a governare era il loro beniamino.

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Il discorso della frammentazione interna al movimento peronista tra militanti nazionalisti e conservatori (fautori della “Patria peronista”) e militanti che evocavano invece un socialismo nazionale sotto la guida di Perón (la “Patria socialista”) è tanto interessante quanto complesso. Ai fini del mio discorso si vuole osservare che, pur rimanendo dentro le categorie identitarie del peronismo, anche l’Argentina fu teatro tra gli anni Sessanta e Settanta di rivendicazioni che puntavano alla fondazione di un sistema economico alternativo al capitalismo. Perciò anche in questo caso si trovano i segni di un “eccesso di democraticità” rintracciabile a livello internazionale nel periodo indicato. Per informazioni più specifiche riguardo all’ambiguità del discorso del populismo peronista di quegli anni si veda L. Zanatta (2014), La Nazione Cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio. Bari, Editori Laterza.

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Dunque, da una parte la violenza sociale raggiungeva livelli sconosciuti prima di allora; dall’altra nel 1975 l’inflazione, mantenutasi generalmente alta per tutti gli anni seguiti alla fine del “peronismo classico”, si trasformò in iperinflazione, alimentando le teorie di quegli economisti che per la prima volta nello scenario argentino dichiaravano –appoggiando le teorie neoliberali sempre più affermate internazionalmente- che il modello d’industrializzazione avviato dal peronismo era nocivo alla società e perciò andava sostituito. Era l’inizio di qualcosa di diverso.

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CAPITOLO II

La svolta internazionale al neoliberalismo