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La fabbrica del consenso II: la comunicazione e i media

Il secondo punto di forza dello Stato peronista per rinforzare il suo legame con la società civile ha invece caratteristiche di carattere culturale ed è costituito dalla comunicazione, sia essa orale o utilizzi canali più “moderni” come radio, riviste e giornali e infine la televisione. Nel corso di tutto il capitolo si è cercato di dare risalto alle tecniche comunicative di Perón, sempre dirette all’identificazione del singolo cittadino come parte integrante della “comunità organizzata” argentina. Dal 1949 in avanti, traspare sempre più la pretesa di incarnare il popolo per intero: a tal fine, Perón forgiava una nuova dottrina nazionale, il giustizialismo, le cui uniche fonti –come egli stesso sostenne- erano i suoi stessi discorsi pronunciati fin dal 1945. Ora analizzerò più in profondità quest’aspetto per due motivi: il primo è che Perón, come si è visto, era consapevole di quanto fossero importanti i mezzi di comunicazione per legare a sé il popolo argentino. Ad esempio, egli sosteneva: ‹‹Mi costa molto sapere che la

televisione, che è un elemento culturale che entra nella casa di tutti gli Argentini senza chiedere permesso a nessuno, possa stare in mano a coloro che difendono altri interessi che non sono quelli puri della comunità››.59

Il secondo

motivo è che, nella fase storica che considero nei prossimi capitoli, gli stessi canali mediatici hanno un ruolo di primo piano nell’implementazione di una governamentalità alternativa, quella propriamente neoliberale.

Il Manuale del Peronista era un libercolo di contenuti dottrinari diffuso dallo Stato al fine di promuovere valori culturali che facessero interagire non solo Stato e società ma anche tutti i cittadini tra loro secondo nuove norme sociali. Queste rispondevano ai dettami del giustizialismo: una dottrina filosofica nuova tinta di umanesimo, che ripone nell’azione del governo la conduzione delle iniziative sociali, economiche e politiche del popolo, in contrapposizione all’astensionismo tipico dell’individualismo capitalista e dell’interventismo del collettivismo comunista. Così, il Manuale era ‹‹sintesi della

dottrina peronista che deve essere inculcata nelle masse e nei dirigenti›› e uno dei

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Perón, 28/05/1974, citato in Martín Garcia (2004), “El peronismo y su relación con los medios de comunicación” en ‹‹Revistas peronistas: para el debate nacional-cuestión Latinoamérica››, n˚ 5. P. 145.

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primi compiti di ogni buon peronista è quello di ‹‹apprendere, insegnare e inculcare il

Manuale del peronista››.60

Tutto il popolo era chiamato a partecipare, a integrarsi a una collettività, non più secondo le procedure liberaldemocratiche (il contratto sociale non si fondava sulla rinuncia dei diritti naturali dell’individuo in cambio di una vita in società), ma secondo uno schema di Stato corporativo che in definitiva funzionava da compendio dei diversi interessi in gioco. La logica sottostante era quella di capovolgere il senso della relazione Stato-società: era lo Stato (non l’individuo) ad attivare le dinamiche di aggregazione sul piano sociale e politico.61 Cioè, lo Stato dal 1943 aveva forgiato le nuove virtù civiche degli Argentini e ora puntava a possederne il monopolio. A ulteriore conferma di ciò, il 17 ottobre 1950 (quinto anniversario di quello che fu denominato il “giorno della Lealtà dei lavoratori”) Perón annunciò dal balcone della Casa Rosada le

Venti Verità giustizialiste: una sorta di “rosario laico” lanciato ‹‹per le generazioni

future›› dove si riassumono i principi fondanti della nuova teoria nazionale. A oggi, chiunque in Argentina ricorda almeno qualcuno dei punti che i vecchi militanti peronisti recitavano a memoria: 1)La vera democrazia è l’interesse del popolo. 4)Il peronismo non considera che una categoria di uomini: quelli che lavorano. 5)Che ognuno produca perlomeno ciò che consuma. 7)Per un Argentino nessuno è migliore di un altro Argentino. 12)Nella nuova Argentina l’unica categoria di privilegiati sono i bambini… In questa visione organicista della società imposta dallo Stato, i sindacati non erano più espressione dell’associazionismo libero ma snodi istituzionali, enti di diritto pubblico dotati di potere rappresentativo solo in seguito al riconoscimento della loro personalità giuridica da parte del ministro del Lavoro. In realtà, questi erano diventati vere e proprie roccaforti del potere peronista e non conservavano niente dei contenuti rivoluzionari che avevano mantenuto fino all’avvento del peronismo. Il fatto che dal 1945 in avanti il sindacato divenisse portavoce pressoché esclusivo di rivendicazioni di tipo redistributivo e non più politico (migliori retribuzioni, migliori condizioni contrattuali da negoziare con il padronato attraverso il ruolo di uno Stato giudice, ecc.) è il risultato dell’ordine sociale ottenuto dal peronismo, la pax peronista, dove la CGT era una costola del movimento. Nella concezione tipica del populismo argentino, la società è vista come un unico organismo e ogni suo gruppo sociale è un arto necessario al corretto funzionamento di quell’organismo. Ebbene, se il “peronismo classico” ha

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Peón, El Manual peronista. Pp. 10-11.

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privilegiato i lavoratori (e i loro sindacati) questo risponde al fatto che, nella fase storica in cui agiva, si riconosceva che l’armonizzazione tra capitale e lavoro era la questione più urgente da affrontare se voleva rendere governabile la società. In definitiva i lavoratori non erano che uno degli elementi (un arto) della visione organicista tipica del populismo, perciò, in linea principio, quando in futuro la questione del lavoro fosse stata risolta, il peronismo avrebbe potuto abbandonare quella priorità cui non era legato da nessuna costrizione ideologica che non fosse quella dell’”interesse di tutta la Nazione”. Nel 1952, del resto, con la creazione della CGE (Confederación General de

la Empresa), Perón punta a organizzare il “braccio padronale” della comunità

organizzata a dimostrazione che l’abbraccio statale puntava a comprendere tutti gli attori sociali.

Come si vedrà nei prossimi capitoli, il sodalizio tra movimento peronista e i sindacati s’incrinerà solo a fine anni Novanta, quando un gruppo distaccatosi dalla CGT, la CTA (Coordinamento de Trabajadores Argentinos) capeggiata da Moyano adotterà un nuovo approccio critico e nuove istanze radicali contro le forze politiche peroniste, a quel punto propriamente neoliberali. Per tutti gli anni in cui invece il peronismo fu prescritto (dal 1955 al 1973) il sindacato operò come fosse il depositario dell’identità peronista della nazione. Se da una parte dunque, il partito giustizialista era stato bandito dal governo autoritario che s’installò dal 1955, dall’altra, la CGT divenne un vero e proprio organo di pressione politica e di rappresentanza delle istanze di chi si opponeva alla dittatura dal versante peronista. Così anche i sindacalisti furono investiti di un potere politico enorme cui però erano stati delegati da Perón, il quale dal suo esilio spagnolo continuava a dirigere le fila del suo movimento.

La dimensione sindacale era talmente importante nella logica del “peronismo classico” che Perón decise di affidare a sua moglie, Eva Duarte, la gestione dei rapporti con le organizzazioni dei lavoratori o con i lavoratori in forma diretta. Lungi dall’essere solo un compito di tipo amministrativo, a Eva era chiesto soprattutto di diventare per loro un punto di riferimento benevolo e sempre disponibile all’ascolto. A tal fine, quella che divenne una delle first lady più famose al mondo prese a visitare fabbriche, uffici e numerosi altri luoghi di lavoro e a ricevere tre volte per settimana una crescente quantità di lavoratori in difficoltà, donne abbandonate, disoccupati e questuanti. La stampa governativa ne enfatizzò l’azione cominciando a riservarle spazio e a darle eco, così che

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la figura divenisse sempre più popolare tra i fedeli di Perón.62 Il fatto che fino al 1946 (quando si celebrò il matrimonio presidenziale) fosse ignota al grande pubblico non faceva che rinforzare l’immagine di una primera dama che conosceva il suo popolo grazie alle sue umili origini, di cui peraltro faceva vanto. In più era giovane, graziosa e molto ambiziosa. Ben presto prese a essere amata dai descamisados tanto quanto era odiata dai settori “alti” della società argentina: dalle élite economiche locali (le quali erano il bersaglio prediletto delle parole di fuoco che Eva riservava agli “oligarchi”), dai vertici della Chiesa (che vedevano in lei, con ragione, una sorta di madonna terrena in grado di fare proseliti in quella che sempre più appariva come la religione politica del peronismo) e infine dai militari (che non vedevano di buon occhio il fatto che una donna affiancasse El General al comando). Eppure, almeno in un primo momento, Perón non colse o non volle cogliere le crepe che iniziavano a formarsi, e non gli dispiaceva che sua moglie in nome suo mantenesse vitale il contatto col “popolo” che era stato lui stesso per primo a forgiare. Il ruolo di Eva perciò è da considerare come un’evoluzione della strategia peronista nel contatto con le masse: era un filtro eccezionalmente efficace tra Stato e società e alimentava un consenso politico che va ben oltre alla relazione canonica tra elettori e uomini al potere. Perón aveva dato il pane alla tavola di migliaia di Argentini e sua moglie Eva era chiamata a emanare una sorta di fede profana, un senso di appartenenza al movimento peronista che trascende alla politica pura. Nell’ultimo discorso che tenne, già malata, a un’enorme folla commossa, disse: ‹‹Che

Dio benedica voi tutti, umili della Patria, e abbia in disprezzo la superbia dell’oligarchia. Per favore, dopo la mia morte, siate fedeli a Perón››.63

Oltre che per tutti gli umili, Eva Perón divenne punto di riferimento anche per le donne, anch’esse consacrate ufficialmente al mondo della rappresentanza politica il 9 settembre 1947, quando s’introdusse il suffragio femminile (che consegnò un bacino di voti enorme al peronismo). Ebbene, lungi dall’essere un’eroina femminista, Eva riuscì a sottrarre anche quella bandiera alle militanti socialiste e radicali schierate sul versante antiperonista. Lei, che si presentava come ‹‹madre e moglie di tutti gli Argentini››, semmai chiamava le sue seguaci alla disciplina; intimava loro alla “subordinazione” e alla “cieca fiducia”. Infine, l’8 luglio 1948 tutte le iniziative sociali della primera dama confluirono nella Fondazione Eva Perón, foraggiata da finanziamenti pubblici e privati e

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Zanatta, op. cit. p. 68.

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in grado di catalizzare un potere enorme –del tutto arbitrario e personalistico- che estendeva i tentacoli del regime un po’ ovunque nella società: nel partito peronista, nel Parlamento (ancora in vita formalmente ma di fatto svuotato di ogni sua prerogativa), nelle ambasciate e nella magistratura, nei media e soprattutto nella potentissima CGT. Lungi dall’avere solo una potenza mediatica, data dalla sua dote di grande comunicatrice, Eva Perón gestiva leve di potere per cui non doveva rendere conto a nessuno: queste erano fondamentali a garantire la “peronizzazione” della società al riparo da qualsiasi confronto con forze politiche, corporative e sociali diverse da quelle che stavano all’ombra di Perón.

Il discorso peronista oramai invadeva qualsiasi canale di diffusione della cultura. Quando Perón era diventato presidente, la maggior parte dei quotidiani e delle riviste, oltre che dei programmi radio, erano in mano a gruppi legati al gruppo politico de la

Unión Democratica, oppositore del peronismo. Dal 1947 però il governo inizió ad

acquistare canali radio, in uno sforzo di monopolizzazione dell’informazione simile a quello che avverrà negli anni Novanta, quando, durante la presidenza di Menem, reti radiofoniche private del calibro di Cablevisión e Multicanal comprarono svariati canali minori. I distinti canali radio inoltre presero allora la caratteristica di formare catene d’informazione in grado di coprire l’intero territorio nazionale: i loro contenuti erano decisi dalla Subsecretería de Prensa y Difusión, amministrata nientemeno che da Perón e sua moglie Eva. Nei dieci anni di governo peronista il rapporto con i programmi che dipendevano dalla Subsecretería fu intenso e molto proficuo. Lo stesso Perón, riferendosi a un programma noto come “Penso e dico ciò che penso”, nel quale a ogni puntata uno scaltro speaker inscenava un dialogo con un oppositore immaginario del governo chiamato “Mordisquito”, ebbe a dire che la sua rielezione nei comizi dell’11 novembre 1951 si doveva “al voto delle donne e a Mordisquito”.

“Tu hai sempre vissuto senza provare l’angustia che si prova quando si avverte la mancanza di qualcosa e il tuo mondo non è mai stato raggiunto dal suono doloroso che emettono le moltitudini quando sono sfruttate. Lo capisci questo, Mordisquito? No! A me non la dai a bere che non mi capisci…non ti credo”.64

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Spezzone di conversazione del programma radiofonico “Pienso y digo lo que pienso”, riportato in Garcia, op. cit. p. 152.

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Qui lo si vede chiaramente: Mordisquito veste i panni di un privilegiato membro dell’”oligarchia” contro cui sovente si scagliava la retorica peronista in questi anni. Dall’altra parte, c’era invece la galassia volutamente indefinita del “popolare”, alla cui base si trovavano i lavoratori ma che rappresentava un mondo dai confini labili, che tendevano a essere estesi od ogni “vero” Argentino. Il conflitto sociale che si era espresso caldamente nell’arena politica nel momento in cui il peronismo si era affermato contro le élite liberali, ora che la società appariva “peronizzata” si esprimeva più che altro dal punto di vista culturale. Veniva a meno la componente puramente classista del conflitto: non solo perché, in termini marxiani, mancava il riconoscimento preciso di un determinato gruppo sociale protagonista di quel conflitto, ma soprattutto perché a dirigere quel processo era uno Stato che con una retorica spesso sprezzante e “plebea” mirava in definitiva ad rafforzare i confini delle proprie tecniche di governo sulla società, basate sull’inclusione e la pacificazione del conflitto latente. L’obiettivo era il contrario di una rivoluzione di classe. Il mezzo culturale fu probabilmente lo strumento più sottile con cui questo avvenne. Si trattava di un tipo di rappresentazione (popolo/oligarchia) molto diffusa nella popolazione che permetteva di combinare i violenti attacchi dei discorsi –in particolare quelli di Eva Duarte Perón- con scarse azioni concrete dirette ai loro supposti destinatari (“gli oligarchi nascosti nei loro salotti”).65

Si è detto che lo Stato in questi anni facilitava l’accesso alla cultura; ebbene, in particolar modo divenne distributore e manipolatore di una cultura “popolare” che includeva molto del repertorio folclorico tradizionale (si pensi alla figura del gaucho, ovvero dell’uomo semplice, lavoratore, che viveva nell’isolata pampa argentina) ma anche l’aspetto più moderno di una cultura commerciale, quella legata ai consumi di massa permessi dal boom. Nella costruzione della governamentalità peronista (come in seguito per la governamentalità neoliberale) mi pare che comunicazione ed economia abbiano ruoli del tutto complementari. Sempre, a orchestrare questi processi vi è una razionalità introdotta dallo Stato. Il 17 ottobre 1951 fu mandata in onda la prima trasmissione televisiva nazionale, durante la quale Eva Perón annunciò pubblicamente di rinunciare a candidarsi come vicepresidente della nazione, come aveva precedentemente dichiarato suscitando non pochi clamori nell’opinione pubblica. Nel 1954 fu inaugurata pubblicamente la prima fabbrica nazionale di televisioni Copehart

Argentina.

57 Similmente, in quegli anni il deputato giustizialista John William Cook, in occasione

della commissione parlamentare che decise l’espropriazione statale del quotidiano La

Prensa in virtù d’importazioni non trasparenti di carta da giornale dall’estero,

qualificava il gruppo che faceva capo a quel quotidiano come ‹‹nemico della nazione e dei lavoratori e vicino ai settori capitalisti che complottano contro il governo››. In seguito, il giornale passò sotto il controllo della CGT. Ancora, la testata giornalistica

Clarín (a oggi uno dei quotidiani più apprezzati del paese) fu avversa al peronismo fino

al 1951 quando le pressioni esercitare dal governo la portarono ad accettare un rapporto di pacifica convivenza.

In breve, a livello discorsivo si puntò a rinforzare la dimensione del “popolare” contro

il privilegio dei pochi; sul piano sociale ed economico invece si puntò a fare dell’aumento dei salari dei lavoratori una variabile indipendente perché protetta dallo Stato pianificatore e benefattore. Entrambi questi fattori contribuiscono a costruire una forma di soggettivazione sociale basata sull’inclusione delle masse ai consumi e, soprattutto, come ho mostrato a tutta una serie di diritti sociali prima impensabili. Questa è la caratteristica essenziale che il mio lavoro attribuisce al “peronismo classico”.