• Non ci sono risultati.

Una spiegazione economica per una crisi politica

Dalla sua cattedra al Collège de France nel corso del seminario del 1978-1979, Foucault sosteneva che “dietro al cambio di governamentalità c’è sempre una crisi, quasi sempre economica, ma in ogni caso politica”.71 Si può dire che l’ambito della mia ricerca è delimitato da una serie di crisi. Partendo dalla crisi di rappresentanza delle élite liberali argentine, ora passerò attraverso la crisi del modello peronista per giungere, nel terzo capitolo, alla crisi del 2001 che è il punto conclusivo della mia ricerca. Sulla base di quanto si è osservato nel corso del primo capitolo, è possibile sostenere che dalla metà degli anni Settanta entrò definitivamente in crisi il modello economico

desarrollista che per trent’anni, dalle prime misure d’industrializzazione introdotte dal

modello di sostituzione d’importazioni, aveva caratterizzato l’agenda dei governi argentini. Vi sono diversi elementi che spiegano le ragioni di questo fallimento, alcuni endogeni e altri esogeni. Questi ultimi sono di fondamentale rilevanza dato che, come si è visto, l’Argentina presentava molti punti in comune con le economie fordiste dell’epoca: mi sembra che non si possa parlare di una Argentina neoliberale senza prima osservare i cambiamenti del sistema capitalista globale. Infatti, negli stessi anni il compromesso “keynesiano-fordista” basato sul rapporto stabile tra salario e consumi entrava definitivamente in crisi ovunque. Di tali cambiamenti si parlerà nel seguente capitolo, dedicato alla svolta al neoliberismo globale. Prima, però, è opportuno dare spazio alle basi teoriche del neoliberalismo, per comprendere veramente il fenomeno che produsse quei cambiamenti.

Per ora si è cercato di mostrare che, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, la governamentalità predominante aveva messo l’economia al servizio del sociale al fine di armonizzare il conflitto, rendendo tutti “un po’ più capitalisti” attraverso l’accesso al consumo e ai diritti sociali come educazione, sanità, ecc. Il laboratorio politico peronista

71

Michel Foucault (2005), Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore. P. 162.

64

aveva seguito logiche analoghe fino alla crisi del governo di Isabel Perón, il quale infine fu schiacciato tra un conflitto sociale tanto radicale da rendere il paese ingovernabile, e un’inflazione che nel 1976 sfiorava il 470%. A quel punto non era strano che una dittatura militare che prometteva ordine e stabilità economica contasse sull’appoggio di una parte importante della popolazione, in particolar modo delle élite dominanti che avevano screditato il governo peronista. Allo stesso modo non stupisce che l’inefficienza dell’apparato industriale, avviato durante il piano economico del primo governo di Perón, fu considerato dal nuovo regime dittatoriale la principale causa della creazione di una classe operaia e di una classe media urbana insoddisfatte e politicamente militanti. Si palesava così la felice coincidenza che l’obiettivo tecnico di lungo periodo per una migliore allocazione delle risorse coincideva con l’obiettivo politico di minare la base sociale di un’opposizione divenuta inaccettabile.72

È riconosciuto all’unanimità dagli storici che si occupano di Argentina che per i militari che s’installarono con la forza nel 1976 l’obiettivo di imporre un nuovo modello economico finanziario basato sulle esportazioni di materie prime era il metodo migliore per smantellare dalle fondamenta la civiltà peronista basata sulla fabbrica (che era il luogo più rappresentativo della governamentalità peronista). Nel mio elaborato nondimeno si riconosce che questa priorità non proveniva da istanze riconducibili esclusivamente alla dittatura locale, ma più in generale a una strategia globale del capitale per ridefinire i rapporti tra capitale e lavoro. Invero, la tesi più valida per il contesto argentino, mi pare, è che i due fattori (endogeno ed esogeno) concorrono, non escludendosi l’un l’altro, nel determinare il cambio di governamentalità che si verificò nel paese a metà anni Settanta.

Senza voler insistere ancora sulle caratteristiche della governamentalità fordista (e peronista), è importante affermare, prendendo a prestito le parole di Maurizio Lazzarato, che la necessità di un’altra economia non è mai (solo) economica, ma sempre e soprattutto politica, poiché crescita-profitto-sviluppo sono prima che rapporti economici, rapporti di potere.73 Il salario, così, era al centro di un rapporto di scambio, una relazione di potere tra padronato e lavoratori che implicava importanti forme d’inclusione nel regime di accumulazione attraverso compromessi politici

72 Veronica Ronchi (2010), Neoliberalismo e neopopulismo in America Latina. I casi di Messico e

Argentina negli anni Novanta. Bologna, Il Mulino. P. 32.

73

Maurizio Lazzarato (2013), Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista. Roma, DeriveApprodi. P. 27.

65

(sull’occupazione, sulla divisione dei profitti dovuti all’aumento di produttività: ciò che si può chiamare “socialismo del capitale”, frutto dello sforzo del capitale per integrare la lotta di classe nel suo regime di accumulazione). Per trent’anni il salario era rimasto un punto fermo delle politiche statali. Infine, la nuova ragione neoliberale s’impose sul modello del New Deal, ritenuto complice di un contropotere che, seppur parzialmente, aveva invaso uno spazio politico che non gli spettava.

In Argentina, il modello di sostituzione d’importazioni fu additato dal 1976 in avanti come il responsabile di ogni genere di stallo (del rallentamento della produzione così come dell’ingestibilità delle fabbriche) ma è evidente che la ragione fondamentale che lo rese detestabile al nuovo governo militare e alla sua squadra economica, legata a un doppio filo con le élite della finanza internazionale, era la presenza sempre più consistente in società di rivendicazioni antisistemiche: focolai di guerriglia nelle aree urbane, formazioni rivoluzionarie d’ispirazione socialista nelle città (che facevano particolarmente presa sugli universitari e sui lavoratori non sindacalizzati), e addirittura, un connubio minaccioso tra cattolicesimo e marxismo che guidava i cosiddetti “preti poveri”, figli della Teologia della Liberazione, che nel subcontinente americano assumeva tinte particolarmente radicali. Per le élite del paese, nella bilancia della giustizia sociale che era stata tanto cara a Perón, il piatto del lavoro stava infine rovesciando i rapporti a discapito di quello del capitale, così da rendere necessario un nuovo intervento da parte dello Stato e un cambiamento di strategia da parte del capitale stesso.

Ne deriva che la fase che fa seguito alla crisi di ridefinizione del capitalismo seguirà nuovi metodi di gestione dei rapporti di potere che, secondo la tesi che qui si adotta, sono ora basati sulla de-industrializzazione e la finanziarizzazione dell’economia e, in particolare, sul ruolo del credito/debito. Se la “moneta capitalista” dell’era fordista era stata la moneta-salario; ora era la moneta-credito a ridefinire i rapporti sociali e di potere. In seguito si vedrà come. Prima, la governamentalità era stata fondata su un compromesso di cui il salario e il pieno impiego erano l’emblema; dagli anni Settanta invece si produrranno forme nuove di soggettivazione sociale che rompono definitivamente la rappresentazione delle relazioni sociali nei termini tradizionali del confronto tra capitale e lavoro, che in quel tempo aveva raggiunto quell’intollerabile “eccesso democratico” cui ho già fatto riferimento molte volte. Anzitutto, dunque, la svolta neoliberale si spiega nientemeno che come un cambio antropologico spiegabile a

66

partire da ragioni sociali ancor più che economiche: per i motivi che si sono visti la civiltà delle fabbriche e dei consumi andava pensionata in cambio di un modello più accattivante che proponeva un’economia e una società composte non più da masse di lavoratori, ma da “unità-imprese” in grado di generalizzare le politiche del “capitale umano” favorendo ogni forma di lavoro autonomo.

La teoria neoliberale del capitale umano74, specialmente, è fondamentale nel descrivere i nuovi rapporti sociali che si stanno introducendo. Questa sostiene che al fine di creare crescita economica è necessario considerare, oltre ai fattori terra (T), capitale (K), lavoro (L), il fattore “capitale umano” che integra il fattore L, anteriormente inteso solo come tempo dedicato al lavoro, considerandolo nella sua componente umana, ovvero attraverso la lente di qualità non riconducibili immediatamente alla sfera economica (educazione, motivazione personale, competitività ecc.). Questo elemento, apparentemente innocuo, è tanto più importante perché non fa capo a un gruppo sociale specifico, come lo sono i lavoratori (coloro che prestano forza-lavoro) e i capitalisti (ovvero, in termini marxiani, i proprietari dei mezzi di produzione) ma si rivolge alla totalità degli individui in società. Superare anche solo a livello teorico la tensione tradizionale tra capitale e lavoro ha una rilevanza sociale fortissima: non solo supera brillantemente il conflitto che aveva nella fabbrica il suo naturale denominatore, ma pone l’accento su tutte quelle attività che l’individuo svolgerà (il “lavoro su di se”) per potenziare il proprio capitale umano e creare nuova crescita.

Inaugurando un linguaggio veramente manageriale, si dirà che l’individuo può crescere come “unità-impresa” facendo investimenti sul proprio capitale umano. Di qui, il suo avanzamento come individuo dipenderà solo da se stesso. Da questo punto di vista trova riscontro l’auspicio che il pensatore neoliberale Hayek lanciava nei primi anni Settanta, quando ancora al neoliberalismo non era riconosciuto il primato intellettuale che di lì a poco ottenne a livello internazionale. Egli diceva: ‹‹Ciò di cui abbiamo bisogno è un liberalismo che sia un pensiero vivente. Il liberalismo ha sempre lasciato ai socialisti il compito di fabbricare utopie, ed è proprio da quest’attività utopica e impegnata a elaborare teorie che il socialismo ha tratto gran parte del suo vigore e del

74 La seguente teoria trova fondamento nell’opera del pensatore neoliberale Gary Becker (1962)

Investment in Human Capital: a theoretical analysis, testo citato e commentato in Michel Foucault, op. cit. pp. 181-193.

67

suo dinamismo storico. Ebbene, anche il liberalismo ha bisogno di un’utopia. A noi spetta costruire utopie liberali, pensare secondo le modalità del liberalismo, anziché presentare il liberalismo come un’alternativa tecnica di governo››.75 A posteriori si può affermare che Hayek fu accontentato e che il liberalismo nella sua accezione neoliberale trovò una sintesi capace di fare qualche passo in più rispetto al marxismo, ancora confinato alla fabbrica come unico luogo del confronto sociale.

A dire il vero, il contributo dell’operaismo italiano avviato nel 1968 apriva un dibattito interessante in tal senso ma rimase per lungo tempo una corrente molto esigua dell’interpretazione marxista della società. Al contrario, il capitale dispiegava le proprie logiche nelle società dell’epoca attraverso la politica della vita (Vitalpolitik) istituita dai pensatori neoliberali, la quale sarà meglio organizzata dall’impresa finanziaria piuttosto che da quella industriale.76 Data la complessità del discorso che qui si affronta, sarà necessario proseguire per gradi.