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Un primo approccio giustifica l’opportunità della riduzione o dell’eliminazione della tassazione dei redditi di capitale sulla base di argomentazioni teoriche, solo in parte legate ai rischi tipici della competizione fiscale. Si possono a questo proposito richiamare due filoni di pensiero fondamentali: l’uno a sostegno dell’imposta sulla spesa, l’altro a sostegno della dual income tax.

Il primo e più noto, filone di pensiero sostiene la necessità di non assoggettare a tassazione, i redditi di capitale (9), sulla base di considerazioni sia di efficienza — la tassazione dei redditi di capita­ le comporta distorsioni nelle scelte di risparmio del contribuente e, quindi, nelle sue scelte intertemporali di consumo — sia di equità — ci si riferisce, in particolare, alla tesi della doppia tassazione del risparmio, secondo la quale un’imposta sul reddito complessivo è iniqua in quanto discrimina gli individui in relazione alla loro attitu­ dine al risparmio. Le principali obiezioni ad esso dirette riguardano sia una diversa concezione di equità — l’imposta sulla spesa si ri­ solverebbe di fatto in una tassazione dei soli redditi di lavoro, i quali, secondo la nota teoria della discriminazione qualitativa dei redditi, meriterebbero semmai un trattamento di favore — sia un diverso approccio alla problematica dell’efficienza — le imposte in­ terferiscono non solo con le scelte intertemporali di consumo, ma anche con la scelta fra lavoro e tempo libero; tali scelte non sono fra di loro indipendenti; se le si considera congiuntamente la supe­ riorità dell’imposta sulla spesa sul piano dell’efficienza risulta molto più ardua da dimostrare [Musgrave, 1990] (10). Al di là della non

(9) Come è noto, un’imposta sulla spesa può essere realizzata secondo due modalità alternative: escludendo dalla base imponibile costituita dal reddito com­ plessivo del soggetto quella parte di tale reddito che egli destina al risparmio, ov­ vero, esentando da imposta i redditi di capitale.

(10) È comunque interessante ricordare, a questo proposito, un teorema della tassazione ottimale, secondo il quale un sistema fiscale efficiente, volto a minimizzare non solo la distorsione circa le scelte di risparmio, ma anche quella relativa alla scelta fra lavoro e riposo, dovrebbe ricomprendere fra i consumi tas­ sati anche il tempo libero, ovvero, nell’impossibilità di fare ciò, i beni ad esso complementari. Per ottenere questo risultato si suggerisce di tassare più pesante­ mente i consumi dei giovani rispetto a quelli degli anziani, essendo i primi più correlati al tempo libero. Da questa considerazione deriverebbe addirittura la

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univocità delle conclusioni a cui l’analisi di questo approccio alla teoria della tassazione ha portato (11), va sottolineato che esso, pur essendo stato sostenuto con forza in occasione di importanti riforme fiscali, in paesi quali il Regno Unito [Meade, 1979] la Svezia [Lo- din, 1978] e gli Stati Uniti [Bradford, 1986], non è ancora stato adottato da nessuno di essi. Questo risultato è, in parte, imputabile alle difficoltà che l’applicazione unilaterale di un’imposta sulla spe­ sa comporta in un contesto internazionale. Non c’è quindi da stu­ pirsi che il dibattito sull’argomento abbia trovato un nuovo impulso proprio in anni recenti, anni in cui, a seguito della liberalizzazione dei movimenti di capitale, il ricorso ad un’imposta sulla spesa può divenire una scelta interessante, se non obbligata, per un numero elevato di paesi. Per meglio precisare questa considerazione, è im­ portante sottolineare che, in economie aperte alla libera circolazio­ ne dei capitali, qualunque sia l’opinione che esse nutrono circa l’e­ quità e l’efficienza di questo tipo di tassazione, le singole nazioni non possono più ignorare che, in assenza di apposite misure che prevengano tale fenomeno, nel lungo periodo l’imposta sulla spesa può diventare una realtà, indipendentemente dalle loro scelte. L ’a­ nalisi teorica ha infatti messo in luce chiaramente come l’annulla­ mento del prelievo sui redditi di capitale è un risultato che conse­ gue alla pratica impossibilità a tassare tali redditi quando siano percepiti all’estero dai propri residenti, e alla necessità di non tas­ sare quelli dei non residenti, per i richiamati motivi di competizio­ ne fiscale (cfr., ad esempio, Razin-Sadka, 1989). Se questo sbocco è davvero considerato inevitabile, o non vi è comunque la volontà di osteggiarlo, ci si deve chiedere se non sia preferibile perseguirlo direttamente, anziché accettarlo come un risultato del libero opera­ re del mercato, che si accompagna però ad una fase di transizione dagli effetti probabilmente discutibili sul piano sia dell’efficienza che dell’equità.

Il secondo filone di pensiero a sostegno di una riduzione dell’o­ nere riservato ai redditi di capitale, che ha ispirato, in misura di­ versa, le recenti riforme fiscali nei paesi del nord Europa (Svezia,

cessiti di sussidiare i redditi di capitale, non solo quella di esentarli da ogni tassa­ zione (cfr. Rose, 1990b).

(11) Il punto di maggior debolezza dell’approccio in questione è riscontra­ bile nella impossibilità per la letteratura empirica di dimostrare in modo inequi­ vocabile l’esistenza di una relazione significativa, e positiva, tra tasso di interesse e decisioni di risparmio.

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Norvegia, Finlandia e Danimarca), va sotto il nome di dual income

tax ( Di t). Nella sua versione pura, esso consiste nell’applicazione di un’imposta proporzionale a tutti i redditi di capitale, secondo un’aliquota uguale a quella dell’imposta sulle società, e all’aliquota marginale più bassa dell’imposta progressiva cui sarebbero assog­ gettati i redditi da lavoro e i trasferimenti. Le giustificazioni di que­ sta scelta, come illustrate in un recente contributo di Sorensen [1994], comportano, ancora una volta, considerazioni di equità ed efficienza. Esse possono essere sintetizzate come segue. Sotto il profilo dell’equità, la Di t riduce gli effetti iniqui della doppia tassa­ zione del risparmio, compensa per una tassazione dei redditi di ca­ pitali nominali anziché reali e, soprattutto, riduce la discriminazio­ ne che l’imposta sul reddito introduce fra investimenti in capitale finanziario e fisico e investimenti in capitale umano, al quale solo è riservato il trattamento del tipo previsto dall’imposta sulla spe­ sa (12). Sottoponendo i redditi di capitale ad un prelievo contenuto, la Di t è equa anche perché riduce le possibilità di arbitraggi fiscali — ad esempio limitando la convenienza alla deducibilità degli inte­

ressi passivi dal reddito d ’impresa — e permette una più generaliz­ zata tassazione dei guadagni di capitale, per i quali si ritiene comu­ nemente inappropriata una tassazione elevata.

Per quanto riguarda il profilo dell’efficienza, la Di t trova il suo punto di forza proprio nella liberalizzazione dei movimenti di capi­ tale. Si sostiene infatti che una bassa tassazione dei redditi di capi­ tale, in presenza di tale fenomeno, è efficiente perché, in linea con quanto suggerito dalla teoria della tassazione ottimale, colpisce in modo più contenuto i redditi dei fattori più mobili. Una tassazione di tali redditi, slegata da quella di redditi di lavoro, inoltre, rende più facile to undertake future downward adjustments o f thè capitai

( l i ) Ciò dipende, secondo i sostenitori della Dit, dal fatto che il costo per l’acquisizione di capitale umano è rappresentato, fondamentalmente, dalla rinun­ cia ad ottenere redditi nel periodo della formazione, per ottenere redditi più ele­ vati in seguito. Poiché i redditi a cui si rinuncia oggi non sono tassati, il costo del­ l’investimento in capitale umano è esente da tassa, così come lo sarebbe, in un’imposta sul consumo, il costo per l’acquisizione di investimenti finanziari o di capitali fisici. Vale però la pena ricordare che la tesi secondo cui l’imposta sul red­ dito discrimina a favore degli investimenti in capitale umano non è unanimemen­ te condivisa. Come ricordato dallo stesso Sorensen, altri autori, talvolta con riferi­ mento a contesti istituzionali diversi da quello dei paesi nordici, per i quali, in particolare, assuma maggiore rilevanza la problematica dei costi dei servizi edu­ cativi, sostengono la tesi opposta (cfr. ad esempio, Nerloveet al., 1993).

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income tax if further increases in thè intemational mobility of capi­ tai should warrant such a step [Sorensen, 1994, p. 70].

Queste argomentazioni mostrano come il ricorso alla Di t possa essere considerato, in larga parte, un primo significativo passo in direzione dell’adozione di un’imposta sulla spesa, di cui condivide le motivazioni di fondo. Si tratta di una proposta di riforma indub­ biamente attraente anche per la sua pragmaticità: l’abbandono del­ l’imposta sul reddito viene infatti perseguito molto più gradualmen­ te e con molta più possibilità di discrezionalità da parte dei singoli stati, di quanto non sia richiesto dai teorici dell’imposta sulla spesa.

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