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Il contenuto della Rivelazione

L‟etica è il modello a misura della trascendenza e la Bibbia è Rivelazione in quanto kerygma etico. (L’aldilà del versetto, p.233)

Accostarsi al contenuto della rivelazione, secondo Levinas, significa innanzitutto rifiutare qualsiasi «dogmatica che ha resistito ai filosofi ebrei del Medio Evo» e provare a mettere in luce quella particolare relazione che si stabilisce «tra Colui del quale la Bibbia porta il messaggio, da una parte, e il lettore, dall‟altra»489

.

Anche per questo motivo, la nostra analisi prenderà le mosse da una conferenza tenuta dal nostro filosofo nel 1969 al Colloquio organizzato dal Centro internazionale di studi umanistici e dell‟Istituto di studi filosofici di Roma, e intitolata Il Nome di Dio secondo alcuni testi talmudici490. Si tratta di uno scritto che, a nostro avviso, ben sintetizza le prospettive di pensiero relative al tema che abbiamo cercato di delineare in questo capitolo. Al contempo, ci è sembrato opportuno appoggiarci direttamente al testo per mostrare in medias res quel modo di procedere tipicamente levinasiano: la «traduzione in greco» della saggezza ebraica.

Nell‟introduzione al tema vero e proprio, Levinas si preoccupa di definire i limiti e le potenzialità del suo approccio metodologico, sottolineando da un lato la sua inadeguatezza di fronte alla grande tradizione rabbinica, e mettendo in evidenza la specificità di questa raccolta di commenti: il Talmud non è una mera «curiosità etnografica o archeologica»491, ma racchiude al suo interno un pensiero, un‟autentica «opzione filosofica»492 che è necessario scovare e dedurre: fin dalle prime righe si dichiara, dunque, la volontà di far emergere l‟universale dal particolare, quell‟opera di «enunciazione» in greco dei principi che la Grecia ignorava.

489

E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.226 490

Cfr. E.LEVINAS, «Il Nome di Dio secondo alcuni testi talmudici», in L’aldilà del versetto, cit., pp.197-211

491

Ivi, p.198 492

Levinas entra poi nel merito della questione, ricordando innanzitutto l‟importanza dell‟oralità legata ai nomi di Dio: essi vengono rivelati e conosciuti a partire dalla Scrittura e questo necessita di una tradizione orale viva per imparare a leggerli.

Tuttavia – si affretta a sostenere il nostro filosofo – «non è la relazione con questi Nomi a costituire, di per sé, l‟intimità più grande con Dio»493

. La comprensione, la conoscenza dell‟essenza non sono sufficienti per penetrare il Suo mistero. Indubbiamente, il primo contatto con il Dio rivelato passa attraverso la relazione con la Scrittura: faticoso lavoro di lettura, di studio, di trascrizione e trasmissione. Ma la rivelazione tocca un altro aspetto della realtà umana, al di là di quello intelligibile e razionale: «l‟intimità è di un altro ordine»494 - precisa ancora Levinas. La riflessione rabbinica su Dio infatti ha a che fare con qualcosa di estremamente pratico, poiché riguarda prima di tutto l‟agire e la responsabilità umana:

E questo è il modo caratteristico d‟atteggiarsi del giudaismo. Alla rettitudine dell‟orientamento che va verso il Nome si sovrappone una tutt‟altra relazione con Colui che è nominato: l‟obbedienza ai suoi comandamenti. La relazione con Dio attraverso l‟atto rituale comandato domina ogni altra relazione495.

Si tratta di un ribaltamento ontologico che sembra contraddire tutta l‟esperienza filosofica occidentale: la rivelazione non risponde ad una sete di conoscenza, ad un bisogno intellettuale ma «è data per l‟obbedienza, la sola strada per una vicinanza a Dio»496

, evitando qualsiasi identificazione. Avremo modo di tornare più avanti su questo punto che rappresenta la vera «novità» del pensatore francese.

Dopo l‟introduzione, Levinas prosegue con il commento ad un testo del trattato Shebouth (35ab) che fa riferimento diretto ai nomi di Dio, a partire da una direttiva pratica: quando copiamo questi nomi non dobbiamo mai cancellarli per alcun motivo. A seguire, vengono elencati nove nomi propri, tradotti abitualmente con il termine «Dio» (tra i quali figurano El o

493 Ibid. 494 Ibid. 495 Ivi, p.199 496

Eloha) e altri che invece abbiamo il diritto di cancellare poiché sono «nomi costituiti da attributi sostantificati»497 (es. il Grande, il Paziente…). Infine, il testo pone la questione se tutti i nomi di Dio che troviamo nella Scrittura sottostiano a questa regola e quali siano eventuali eccezioni. A questo proposito, Levinas fa notare come dietro al problema pratico della cancellazione si nasconda in realtà una riflessione sulla «dignità dei diversi nomi e in fin dei conti il senso stesso della relazione a Dio»498.

E qui si preannuncia una prima importante sottolineatura: per il Talmud tutte le parole ebraiche tradotte con «Dio», oppure «Deus» o ancora «Theos» hanno valore di nome proprio, come se, «nella logica del monoteismo», questo termine non possa mai diventare un nome comune. «La parola Dio mancherebbe alla lingua ebraica»499 - commenta Levinas, facendo notare (con una citazione di Maimonide) che da un lato è la stessa parola «Nome» ad indicare la divinità e, dall‟altro, che, quando noi diciamo «Dio», il Talmud e la tradizione ebraica pronunciano sempre la formula: «il Santo-sia-benedetto»500.

Si presenta qui il tema della santità di Dio (già evocato nell‟introduzione501

) che Levinas specifica come segue:

La santità evoca nel pensiero rabbinico, prima di tutto, la separazione (come la nostra parola «assoluto»). Il termine nomina dunque – e questo è notevolissimo – un modo d‟essere o un al di là dell‟essere piuttosto che una quiddità502

.

Contro la pretesa di concettualizzazione e com-prensione che caratterizza il pensiero occidentale, Levinas rivendica una nozione di Dio indefinibile, irrappresentabile, che sfugge alle categorie dell‟essere. Di Dio abbiamo soltanto una rivelazione sotto forma di «modi d‟essere», attraverso ciò che compie. Una concezione che ritroviamo nell‟idea ebraica di

497

E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.201 498 Ibid. 499 Ibid. 500 Ibid. 501

«Questi nomi [di Dio] si pronunciano in occasione della lettura ad alta voce della Bibbia, nelle preghiere, quando viene prestato giuramento e in diverse circostanze della vita rituale ebraica. Essi sono dichiarati santi» (Ivi, p.198)

502 Ibid.

Chekhina, parola che indica «il soggiorno di Dio nel mondo, o più precisamente, in mezzo a Israele»503; ma anche l‟uso di altri termini - «Padrone del mondo» oppure «nostro Padre dei cieli» - non esprime mai l‟essenza ma piuttosto una relazione, una modalità di entrare in contatto.

Tuttavia, Levinas fa notare che esiste anche una rivelazione per mezzo del Nome: «essa ci porta più lontano, forse al di là dell‟essere»504

. Il testo talmudico infatti ci insegna un «gradualismo» dei nomi: quelli che non possiamo e quelli che possiamo cancellare. Precisamente questi ultimi attribuiscono un significato al Nome e in qualche modo lo tematizzano. E allora si verifica che questi nomi, che vorrebbero «dire» e «afferrare» il mistero di Dio, in realtà se ne allontanano, poiché esso è «irrappresentabile e santo, cioè assoluto, al di là di ogni tematizzazione e di ogni essenza»505.

Levinas è molto chiaro: Dio è al di là di tutto e di tutti, oltre la totalità che ingloba gli enti, e non è pensabile una relazione in termini di fusione con l‟Assoluto. Parlare di rivelazione significa piuttosto far riferimento ad un modus essendi che «conserva la trascendenza di quel che si manifesta» e dunque «eccede la capacità di una intuizione e anche di un concetto»506. Ciò nonostante, rimane irrisolta una questione: il divieto di cancellare le lettere del Nome non sta ad indicare che esse, in qualche modo, contengono Dio, il non-contenibile?

Il filosofo francese si sofferma allora a riflettere sull‟importanza dello Scritto e del Libro che rappresentano la traccia di un aldilà, di qualcosa che precede la stessa tradizione che li ha composti:

L‟umanità monoteista, malgrado la sua pretesa filosofica di porsi all‟origine del suo io e del non-io riconosce nello Scritto la traccia di un passato anteriore ad ogni passato memorabile e storico507.

503 Ivi, pp.201-202 504 Ivi, p.202 505 Ibid. 506 Ibid. 507 Ivi, p.203

Si fa strada qui un‟ambiguità, un enigma dello Scritto e della stessa rivelazione, da cui emerge significativamente un nuovo punto di vista sulla rivelazione:

Essa si delinea così come una modalità della trascendenza. Le lettere quadrate sono una dimora precaria donde si ritrae già il Nome rivelato; lettere cancellabili alla mercè dell‟uomo che traccia o che ricopia. […] Ma questa epifania incerta, ai limiti dell‟evanescenza, è precisamente la sola che l‟uomo può trattenere. Per questo egli è il momento essenziale di questa trascendenza e della sua manifestazione. Per questo, mediante questa rivelazione incancellabile, egli è interpellato con una rettitudine senza pari508.

Levinas «scioglie» così l‟enigma evidenziandone la natura antropologica: è a causa di e per l‟uomo che esso si rende necessario. Tutto si gioca all‟interno di un fragile equilibrio tra dire, manifestare e allo stesso tempo nascondere, coprire (anche per questo «all‟obbligo di non cancellare si aggiunge, nel giudaismo, l‟obbligo di “non pronunciare invano”»509).

Ma il testo talmudico offre un ulteriore «gradualismo» all‟interno dei nomi da non cancellare, accordando un privilegio al Tetragramma, il «Nome “esplicito”» che reca in sé la strana condizione di non dover mai essere pronunciato»510. Per questo Adonai è il nome del Tetragramma, paradosso di un nome che ha un nome, «si mostra e si dissimula»511; e al contempo, modalità stra-ordinaria di manifestazione del senso che è sempre «anacoresi» e «santità», separazione.

L‟analisi di Levinas prosegue sempre più in profondità, suscitando nuove domande che riguardano in particolare la questione dei contenuti del Nome:

Questo enigma o ambiguità della presenza e del ritrarsi, modalità, in qualche modo, formale, non riceve alcun significato, alcun contenuto? Questa anacoresi di Dio nella sua manifestazione […] è solo teologia negativa? Che cosa è in positivo?512

Per offrire una risposta, il nostro filosofo si appoggia ancora al testo talmudico e precisamente a quella parte finale in cui ci si chiede se i Nomi che figurano nei diversi libri della Bibbia 508 Ibid. 509 Ibid. 510 Ivi, p.204 511 Ibid. 512 Ivi, p.205

siano tutti santi. L‟analisi di alcuni episodi in cui effettivamente i «Nomi sono santi» mostra che «il Dio rivelato nei suoi nomi riceve un senso a partire da situazioni umane, di miseria e di felicità, nelle quali è invocato»513: la rivelazione acquista dunque un significato a partire da un orizzonte antropologico. La «prossimità più prossima» a Dio è inscritta nella responsabilità dell‟uomo per l‟altro uomo – questo il grande insegnamento della tradizione rabbinica ed ebraica. Il ritrarsi di Dio che si limita a dire i suoi ordini non annulla la manifestazione, non implica la «non-conoscenza», ma piuttosto apre «all‟obbligo dell‟uomo nei confronti di tuti gli altri uomini»514:

Secondo la parola del profeta (Geremia XXII,10), fissare il diritto del povero e dello sventurato, «ecco, certamente, quel che si dice conoscermi, dice l‟Eterno». Conoscenza dell‟inconoscibile, la trascendenza si fa etica.

A questo proposito, Levinas si sofferma sul termine Sebaoth, un Nome che secondo alcuni non avrebbe il carattere di santità. Obiezione che viene respinta dal nostro filosofo, poiché questo nome (il cui significato è quello di «moltitudini») fa riferimento ad Israele e dunque attraverso di esso l‟Assoluto si fa conoscere in rapporto all‟uomo, ed in particolare a tutta l‟umanità. Queste le parole di Levinas:

Il riferimento a Israele è essenziale al Nome. La sua Santità è la santità che esso suggerisce, «al di là di ogni oggettivazione e di ogni tematizzazione», stanno precisamente a significare la costituzione di una società umana in stato di obbligazione. La nozione di Israele nel Talmud […] deve essere separata da ogni particolarismo, eccettuato quello dell‟elezione. Ma l‟elezione significa un surplus di doveri515

.

Il filosofo continua poi la sua riflessione, «sollecitando» e aprendo nuove prospettive di pensiero. Stavolta l‟attenzione si concentra su un caso particolare in cui il Nome viene tracciato proprio con l‟obiettivo di essere cancellato (cfr. trattato Sotà 53a e Sukkah 53b). L‟episodio richiama un rito antichissimo da praticare nei confronti di una donna accusata di

513 Ibid. 514 Ivi, p.206 515 Ibid.

adulterio, descritto nel libro dei Numeri516. Ciò che è interessante notare è il fatto che il testo talmudico ricava da questa pratica un‟idea sorprendente: la cancellazione del Nome è la riconciliazione degli umani. Il Nome infatti può essere eliminato al fine di ristabilire il legame tra marito e moglie, e questo a maggior ragione quando si tratta di «ottenere la pace nell‟Universo»517

, come insegna la parabola del re Davide, riportata nel trattato Sukkah 53b518. La trascendenza del Nome di Dio, dunque, diviene cancellazione sfuggendo ogni tentativo di tematizzazione; ma questa cancellazione, questo ritirarsi non è altro che un appello alla responsabilità nei confronti del prossimo.

Lo stesso sfondo concettuale appartiene ad un ultimo apologo del trattato Shebuot 35b, in cui si sostiene che tutte le forme del Nome divino pronunciate da Abramo nella Bibbia sarebbero sante, ad eccezione di quella che troviamo in Genesi 18,3: «Adonai (Signore), se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare davanti al tuo servitore»519. Il nome Adonai in questo caso sarebbe riferito ad uno dei tre angeli che, in forma umana, fanno visita ad Abramo. I rabbini alimentano la discussione ribattendo con un nuovo apologo520, e arrivando a sostenere che anche quel nome è santo poiché l‟ospitalità offerta ai viandanti è più importante della presenza divina: «rivelazione che si trasforma in etica»521, paradosso di una trascendenza

516

Scrive Levinas: «La donna sospettata, senza prove, di adulterio dal marito deve, secondo Numeri V, esser condotta dal marito geloso presso il pontefice del Tempio e sottomettersi a una prova […] A un certo punto, secondo il rito descritto nella Bibbia, il pontefice scongiurerà la donna: “Se un uomo ha avuto commercio con te, l‟Eterno (scritto come Tetragramma) faccia di te soggetto d‟imprecazione. (…) E la donna risponderà: “Amen, amen”. Il pontefice scriverà queste parole (tra le quali figura il Tetragramma) su un fogliettino. Le cancellerà nelle acque amare. In questa cancellazione verrà cancellato anche il Tetragramma scritto in vista di questa cancellazione» (Ivi, pp.206-207) 517

Ivi, p.206 518

«Il re Davide scava la terra per scoprire, nel punto in cui un giorno suo figlio erigerà il Tempio, la sorgente delle acque vive necessarie alle libazioni future dell‟altare. Zampillano acque, impetuose, che minacciano di inondare l‟universo. Come arrestare il cataclisma? Davide riceve allora un consiglio: “Al fine di ottenere la riconciliazione tra marito e moglie, la Torah ha insegnato che il mio nome, scritto in santità, venga cancellato nell‟acqua. A maggior ragione questo deve esser fatto per ottenere la pace nell‟Universo”» (Ivi, p.207)

519 Ibid. 520

«Per uscire dalla difficoltà, un apologo. Dio sarebbe apparso ad Abramo contemporaneamente ai tre passanti. È a lui che Abramo avrebbe detto: “Non passare, Adonai, davanti al tuo servitore”. Egli gli avrebbe detto: “Aspetta che riceva prima i tre viaggiatori”, perché i viandanti, oppressi dal calore e dalla sete, passano davanti all‟Eterno nostro Dio» (Ivi, pp.207-208)

521

teologica che, nel suo apparente isolamento, mi comanda nei confronti dell‟altro uomo, autentico «senso del monoteismo abramitico»522.

La soggettività umana si riscopre allora originariamente obbligata prima di ogni impegno, di ogni decisione assunta e passata al vaglio della ragione. Per questo motivo – conclude Levinas, riprendendo ancora un testo del trattato Kiddushin 71a - coloro che possono veramente accedere al nome di Dio si distinguono per «umiltà, discrezione, perdono delle offese»523; attribuzioni che non hanno soltanto il sapore di una virtù ma che « “rovesciano” la nozione ontologica della soggettività per collocarla nella rinuncia, nella cancellazione e in una passività totale»524.

Dopo aver ripercorso le orme di Levinas, analizzando e commentando da vicino le sue parole, possiamo offrire una sintesi dei risultati raggiunti per quanto concerne il tema di nostra competenza. Se davvero Dio si è detto nella Torah – allora «questo fatto apre subito l‟orizzonte etico»525

, poiché la rivelazione è anzitutto un obbligo, un comandamento, una legge, che per l‟ebreo si esprime nelle mitzvot. Contro ogni pretesa di concettualizzazione, Dio rimane nascosto, irrappresentabile, estraneo alle logiche di possesso e com-prensione, ma viene propriamente all‟idea nella concretezza della responsabilità, invitandomi all‟accoglienza. Inoltre, pur essendo donata ad Israele, in virtù di una elezione, la Torah- rivelazione riguarda l‟intera umanità e scavalca i confini del particolarismo privilegiato. Esattamente questi sono i contenuti fondamentali di quel «pensiero d‟Israele» che il nostro filosofo si preoccupa di far risaltare e di «tradurre in greco» all‟interno degli scritti ebraici e delle letture talmudiche.

Scorrendo tra le pagine di questi testi, scopriamo allora che il senso della Rivelazione consiste nella «possibilità di una responsabilità per l‟alterità dell‟altro uomo»526

, radicata su quei comandamenti biblici che rappresentano un ribaltamento ontologico del conatus essendi: 522 Ibid. 523 Ibid. 524 Ibid. 525

A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.210 526

«Non ucciderai» e «Amerai il tuo prossimo». In queste due prescrizioni «significa il volto dell‟altro»527

ed è racchiusa emblematicamente tutta la Torah. E la parola «Dio», lungi dall‟essere un‟idea astratta, viene pensata concretamente in questo ordine originario, «“luogo” in cui l‟Infinito discende dalle sue “altezze celesti”»528

.

A questo proposito, non deve sorprenderci che lo stesso Levinas parli di una vera e propria «kenosi di Dio», poiché in questo concetto intravede una modalità ontologica che può avere «un pieno significato nella sensibilità giudaica»529.

In un articolo intitolato «Ebraismo e Kenosi», lontano da qualsiasi idea di incarnazione divina che finirebbe per negare la trascendenza e la separatezza (santità), Levinas mette in luce come «i termini che evocano la Maestà e l‟Altezza di Dio sono spesso seguiti o preceduti da quelli che descrivono un Dio che si piega sulla miseria umana o che abita tale miseria»530.

In particolare, rievocando un‟antica parabola del Talmud sull‟umiltà di Dio, il nostro filosofo giunge alla conclusione che la kenosi sia una modalità di rivelazione, e anzi la sola che l‟uomo possa veramente accogliere. Si tratterebbe di una kenosi talmente radicale che Dio accetta persino «la contestazione della sua santità in un mondo incapace di mantenersi alla luce della sua Rivelazione»531. Levinas osserva inoltre come la Scrittura stessa non sarebbe altro che il luogo in cui «Dio è iscritto»:

Tutto è coeterno nella Scrittura e nei commenti. Ma anche rinnovamento e sviluppo continuo del senso letterale nelle diverse dimensioni del senso e nelle incessanti scoperte. Rinnovamento e sviluppo interiori, sorti sicuramente dalla stessa vita religiosa che viene vissuta a contatto con i testi, viventi anch‟essi nella loro stasi: a contatto con un «Dio scritto». Vita religiosa che porta ed è portata da questi testi, d‟accordo in questo con l‟antica parabola dei Saggi di Israele che racconta di come i leviti che portavano nel deserto l‟Arca santa fossero anche da questa condotti – parabola che rappresenta probabilmente la vera figura dell‟ispirazione532

. 527 Ivi, p.127 528 Ibid. 529

E.LEVINAS, «Ebraismo e Kenosi», in Nell’ora delle nazioni, cit., pp.131-132 530 Ivi, p.132 531 Ivi, p.135 532 Ivi, p.138

L‟ultima frase del brano è particolarmente significativa poiché richiama il tema dello studio e dell‟applicazione rigorosa alle Scritture: l‟impegno per la Torah non può essere un passatempo, ma assume la forma di un autentico atto liturgico. La mia lettura, «qui ed ora», incarnata in un preciso momento della storia, contribuisce a mantenere quella rivelazione continua che si compie nella singolarità di ciascuno.

Da qui l‟importanza dell‟interpretazione, dello «studio valido come associazione, come alleanza, come socialità con Dio, con la sua volontà che non è certo incarnata, ma è iscritta nella Torah»533. L‟appello all‟esegesi, al Talmud e «all‟Infinito rinnovarsi della Parola di Dio nel commento»534 si pone come un orizzonte imprescindibile per l‟ebreo moderno.

Levinas trae fino in fondo le conseguenze della sua impostazione, offrendo anche una ri- lettura specifica del modo di intendere il rapporto uomo-Dio e la stessa nozione di religione. Opponendosi ad una visione numinosa e sacrale del monoteismo ebraico, che «trasporta l‟uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri»535

, Levinas, come abbiamo visto, preferisce piuttosto la linea di una «demitizzazione». Per questo ribadisce con forza che «conoscere Dio significa sapere cosa bisogna fare»536, poiché la relazione religiosa è primariamente una relazione etica:

L‟etica non è il corollario della visione di Dio: è questa stessa visione. L‟etica è un‟ottica. Tutto ciò