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Gloria dell’Infinito e a-Dio

Nel primo capitolo del presente lavoro avevamo cercato di delineare il progetto levinasiano della soggettività responsabile così come indicato nelle pagine di Altrimenti che essere221. Le conclusioni cui eravamo giunti trovano una loro sintesi nelle seguenti affermazioni del filosofo francese: «Questo libro ha esposto la significazione della soggettività nella quotidianità stra-ordinaria della mia responsabilità per gli altri uomini […] la mia passività, la passività in quanto l‟uno-per-l’altro […] L‟uno-per-l’altro, fino all‟uno-ostaggio- dell’altro»222

.

L‟identità dell‟io umano si definisce nei termini di una «deposizione» a favore di altri, di una responsabilità illimitata e irrecusabile per altri. «Siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più degli altri»: la citazione di Fëdor Dostoevskij, ripresa più volte dallo stesso Levinas223, incarna in modo emblematico questa concezione del soggetto come «ostaggio» e «sostituto» dell‟Altro. In questo senso, l‟umano, al suo fondo, è «di-inter-esse», ovvero «l‟essere che si disfa della sua condizione di essere»224

, o «altrimenti che essere».

Ai fini del nostro lavoro, occorre ricordare nuovamente quanto già evidenziato nelle pagine precedenti a proposito della stretta correlazione tra il tema della soggettività responsabile e quella della trascendenza di Dio225. Lo stesso Levinas, del resto, aveva indicato con chiarezza questa convergenza tematica fin dall‟incipit dell‟opera:

Il problema della trascendenza di Dio e il problema della soggettività irriducibile all‟essenza, irriducibile all‟immanenza essenziale, procedono insieme226

.

Per mettere in luce questo aspetto occorre richiamare la nozione di «gloria dell‟Infinito», introdotta da Levinas nella parte conclusiva dell‟opera.

221

Cfr. supra pp.26-31 222

E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.177 223

Cfr. Ivi, p.183 224

E.LEVINAS, Etica e Infinito, cit., p.96 225

Cfr. supra p.23 226

Una volta impostata su nuove basi la soggettività come vera e propria trascendenza sull‟essere, attraverso la costruzione e l‟analisi di una terminologia adeguata (ostaggio, sostituzione, persecuzione, vulnerabilità, prossimità…), Levinas ha di fatto operato un passaggio dal significato ontologico a quello etico. Il soggetto è propriamente un «io sotto convocazione»227, destinatario di un comando «a cui non si può che rispondere “eccomi” in cui il pronome “io” è all‟accusativo»228

. Precisamente in questo «enunciato di un “eccomi” che non si identifica a niente se non alla voce stessa che si enuncia e si abbandona» consiste la sincerità del Dire. E il senso di questa sincerità, di questa passività più passiva del soggetto, il «fare così segno al punto di farsi segno»229 rimanda alla «gloria dell‟Infinito»:

La gloria dell‟Infinito è l‟identità an-archica del soggetto scovato senza possibilità di scampo, io portato alla sincerità, facendo segno ad altri – di cui e dinanzi al quale io sono responsabile – di questa donazione stessa di segno, cioè di questa responsabilità: «eccomi»230.

Lontano da ogni rivelazione e manifestazione, poiché l‟apparire come tema la smentirebbero, questa «infinizione dell‟infinito» proviene da un passato immemoriale, mai presentato e rappresentabile in un Detto. Essa «si glorifica attraverso l‟uscita del soggetto fuori dagli angoli bui del “quanto a sé”»231

, attraverso la responsabilità che impedisce al soggetto di nascondersi dall‟ossessione dell‟Altro.

In questo senso, l‟«Eccomi» è una «testimonianza dell‟Infinito»232

. Senza mai rivelarsi, farsi presente, dis-velarsi in un qualche Detto, è solo grazie alla voce del testimone che «la gloria dell‟Infinito si glorifica»:

L‟Infinito non ha dunque gloria che attraverso la soggettività, attraverso l‟avventura umana dell‟approssimarsi all‟altro, attraverso la sostituzione all‟altro, attraverso l‟espiazione per l‟altro233

. 227 Ivi, p.178 228 Ibid. 229 Ivi, p.179 230 Ivi, p.182 231 Ivi, p.181 232 Ivi, p.183 233 Ivi, p.185

La passività del soggetto, il peso che lo investe e lo ossessiona fino alla sostituzione «esplode in Dire», e l‟esteriorità dell‟Infinito – pensiero sempre eccedente – «diviene interiorità nella sincerità della testimonianza», diventa una voce “interiore” che «mi concerne e mi circonda e mi ordina attraverso la mia stessa voce»234. La testimonianza è, dunque, la modalità particolarissima dell‟Infinito di «iniziare» e «significare».

Riprendendo un termine già utilizzato nei saggi precedenti, Levinas chiama «illeità» (illeitè) questa significazione dell‟Infinito, che sfugge a qualsiasi tentativo di tematizzazione, sempre alla terza persona. L‟Infinito mi comanda da un «non so dove», ancor prima di intenderlo e rappresentarlo, «mi ordina il “prossimo” come volto senza esporsi a me»235. L‟accadere

dell‟Infinito è precisamente questa obbedienza anteriore a qualsiasi rappresentazione o ascolto ma senza costrizione o dominazione, questo approssimarmi ad Altri sempre in ritardo: in una parola, profetismo, «“Eccomi, in nome di Dio”, senza riferirmi direttamente alla sua presenza»236.

La trascendenza dell‟Infinito o Dio è possibile dunque solo attraverso il soggetto, in un rovesciamento dell‟ordine: «la rivelazione avviene attraverso colui che la riceve»237

, ma non al modo di una esibizione oggettiva di un “io credo in Dio” – bensì nell‟«Eccomi» della testimonianza, unico vero segno che «mi significa in nome di Dio al servizio degli uomini che mi riguardano»238. In questa prospettiva, risulta più chiaro il senso della seguente affermazione che ben sintetizza le analisi condotte finora:

Nella convocazione assoluta del soggetto si ode enigmaticamente l‟Infinito: l‟al di qua e l‟al di là239

.

In sintesi, Dio, o l‟Infinito, è ciò che significa «come il “donde” immemorabile e l‟“a cui” senza fine della soggettività responsabile»240 , poiché il soggetto si trova investito 234 Ivi, p.184 235 Ivi, p.188 236 Ivi, p.187 237 Ivi, p.195 238 Ivi, p.187 239 Ivi, pp.175-176

preliminarmente da una chiamata al Bene, che lo obbliga ancor prima di qualsiasi scelta, e questa sua responsabilità si pone come “infinita” nei confronti dell‟altro. Illeità, «sconvolgente avvenimento della parola Dio»241, l‟Infinito è testimoniato dal soggetto che si espone all‟appello dell‟Altro in assoluta gratuità.

Nel dire «Eccomi», il soggetto realizza un moto contrario a quello della persistenza nell‟essere, a quello del conatus essendi, e manifesta così un qualcosa che si pone al di là della vita e della morte, propriamente un «altrimenti che essere», una «gloria dell‟Infinito». Questo è anche il senso della chiusa finale che troviamo in Altrimenti che essere:

In quest‟opera che non cerca di restaurare nessun concetto decaduto, la destituzione o de-situazione del soggetto non restano senza significato: dopo la morte di un certo dio abitante dietro ai mondi, la sostituzione dell‟ostaggio scopre la traccia – scrittura impronunciabile – di ciò, che, sempre già passato – sempre «esso» (il) – non entra in nessun presente e a cui non convengono più i nomi designanti gli esseri, né i verbi in cui risuona la loro essenza – ma che, Pro-nome, segna col suo sigillo tutto ciò che può portare un nome242.

La riflessione sulla trascendenza teologica, così come emersa dall‟analisi condotta finora, viene ulteriormente esplicitata in alcuni scritti successivi. A questo proposito, è opportuno richiamare la collezione di saggi intitolata Di Dio che viene all’idea, pubblicata per la prima volta in Francia nel 1982243. Raccogliendo dialoghi, conferenze e note varie in un arco temporale compreso tra gli anni 1972-1980, Levinas tenta di condurre «una ricerca sulla possibilità – o anche sul fatto – d‟intendere il termine Dio come significante»244, a prescindere da qualsiasi dichiarazione di fede o di ateismo, ovvero «indipendentemente dal problema della esistenza o non esistenza di Dio»245. Levinas, in sostanza, tenta di indicare una modalità in cui Dio viene all‟idea, di indagare quella «concretezza fenomenologica in cui questa

240

G.FERRETTI, Emmanuel Levinas. Un profilo e quattro temi teologici, cit., p.70 241

E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.190 242

Ivi, p.229 243

Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Di Dio che viene all’idea (a cura di Silvano Petrosino), Jaca Book, Milano, 1983

244

Ivi, p.9 245

significazione potrebbe significare o significa»246. Tra gli scritti che compongono questa raccolta, risulta particolarmente significativo il testo Dio e la filosofia che troviamo nella seconda sezione dell‟opera247

.

Riprendendo la consueta critica alla metafisica occidentale, elaborata fin dagli esordi del suo pensiero, Levinas si chiede se sia possibile impostare un discorso su Dio «che non sia né ontologia né fede»248, ovvero se esista un modo per dire la trascendenza senza interpretarla «in termini di essere, di presenza e di immanenza»249.

Di fronte ad una filosofia che riduce la questione della verità ad una esposizione tematica, ad una tematizzazione e manifestazione dell‟essere, in realtà l‟idea di Dio – o dell‟Infinito – è qualcosa che rompe l‟immanenza della coscienza. Levinas, come abbiamo già osservato in precedenza, prende in prestito le argomentazioni di Cartesio e la sua capacità di disegnare «con un rigore ineguagliabile, il percorso straordinario di un pensiero che procede fino alla rottura dell‟ “io penso”»250. L‟idea di Dio è ciò che fa esplodere il pensiero e anzi «è Dio in

me, ma già Dio che rompe la coscienza che intenziona le idee»251.

L‟idea dell‟Infinito in noi rimanda, da un lato, a quella «passività più passiva di ogni altra passività»252 che ha sede nella coscienza e, dall‟altro, al tema del Desiderio, già ampiamente sviluppato nell‟opera del 1961. L‟Infinito, quel di più nel di meno, «ciò che significa al di qua di ogni sua manifestazione»253, si incarna concretamente nella soggettività come tensione tra Desiderante e Desiderabile, appunto come Desiderio dell‟Infinito, che mai può trovare un appagamento, a differenza del bisogno: «dis-interessamento, trascendenza – desiderio del Bene»254. 246 Ibid. 247 Cfr. Ivi, pp.77-101 248 Ivi, p.80 249 Ivi, p.85 250 Ibid. 251 Ivi, p.86 252 Ivi, p. 87 253 Ivi, p.89 254 Ivi, p.90

Per salvaguardare totalmente questa trascendenza – e fare in modo che il Desiderio dell‟Infinito non venga assorbito nelle trame dell‟immanenza – Levinas, nel solco della riflessione maturata in Altrimenti che essere, suggerisce che il Desiderabile – Dio o l‟Infinito – «resti separato nel Desiderio», «prossimo ma differente – Santo»255

. Questa particolare «posizione» è resa possibile dal fatto che il Desiderabile mi ordina verso ciò che non è Desiderabile, ovvero ad altri: Dio è l‟irraggiungibile, il separato poiché rinvia al prossimo, «all‟indesiderabile per eccellenza»256

. La modalità di questo rinvio viene indicata da Levinas con il termine «illeità» (illeitè), un concetto già utilizzato negli scritti precedenti:

Intangibile, il Desiderabile si separa dalla relazione del Desiderio che essa chiama e, in forza di questa separazione o santità, rimane terza persona: Egli (Il) al fondo del Tu257.

Dio, quel «Bene in senso eminente», «bontà del Bene» è ciò che orienta verso l‟altro, «ciò che mi costringe alla bontà»258 . In questo senso, la soggettività si riscopre «di colpo all‟accusativo» e l‟io, obbedendo ad un comando ancor prima di averlo sentito, viene eletto ad una responsabilità infinita nei confronti del prossimo, fino all‟ostaggio e alla sostituzione. Per questo motivo, il filosofo francese rivendica ancora una volta quel primato dell‟etica sull‟ontologia e afferma che «l‟essere buono è eccellenza ed altezza al di là dell‟essere»259

: la vera trascendenza è appunto l‟etica.

Nelle pagine conclusive del saggio, Levinas si concentra sul tema della responsabilità e tenta di approfondire i concetti di testimonianza e ispirazione, già richiamati in Altrimenti che essere. La prossimità del prossimo, autentica «rottura diacronica», elezione, «responsabilità che non lascia tempo»260, in quanto nessuno può sostituirsi a me - ma anche responsabilità «che si accresce nella misura – o dismisura – in cui la risposta è mantenuta»261; ebbene questa 255 Ivi, p. 91 256 Ibid. 257 Ivi, p.92 258 Ibid. 259 Ibid. 260 Ivi, p.95 261 Ivi, p.96

«uscita» continua da se stessi rappresenta propriamente una «testimonianza dell‟Infinito, modalità di questa gloria»262. Nel suo «eccomi» detto al prossimo, «svuotandosi» di se stesso e aumentando infinitamente la responsabilità, l‟io diviene «testimonianza – o traccia, o gloria – dell‟Infinito»263

. Questo eccesso, questa dismisura del «per l’altro» è esattamente la prima parola, o più precisamente Dire, «modalità del significare prima di ogni esperienza», antecedente ad ogni Detto»264, Dire come testimonianza. La soggettività esprime l‟Infinito – o Dio – in quell‟ «accusativo meraviglioso»265 che la consegna al prossimo; l‟Infinito accade in quanto io, prima di ogni impegno, rispondo d‟altri avvertendo un ordine che mi comanda di servirlo.

Levinas utilizza il termine ispirazione per indicare «l‟intrigo dell‟infinito in cui io mi faccio l‟autore di quel che ascolto». La testimonianza pura è quella del «profetismo», poiché il soggetto si fa tramite di ciò che annuncia e obbedisce all‟ordine ancor prima di ogni svelamento. Dio – l‟Infinito – si risveglia soltanto nel profetismo, contro qualsiasi tentativo di oggettivazione e tematizzazione: la trascendenza significa in quanto ordina, e dunque – sottolinea ancora il filosofo francese - significa con modalità etica.

La chiusa finale del saggio Dio e la filosofia ci consegna in sintesi i risultati della riflessione levinasiana:

La trascendenza come significazione e la significazione come significazione di un ordine dato alla soggettività prima di ogni enunciato: puro un-per-l‟altro266.

A conferma delle analisi che abbiamo condotto finora possiamo richiamare altri scritti che fanno parte della raccolta Di Dio che viene all’idea267. L‟obiettivo di Levinas rimane quello di mostrare una via alternativa in cui sia possibile «pensare» la trascendenza di Dio senza ridurla 262 Ivi, p.97 263 Ivi, p.98 264 Ibid. 265 Ibid. 266 Ivi, p.101 267

Cfr in particolare i capitoli intitolati Ermeneutica e al di là; Il pensiero dell’essere e la questione dell’altro; Trascendenza e male; Note sul senso; La cattiva coscienza e l’inesorabile.

a categorie ontologiche e immanenti. L‟idea dell‟Infinito rompe con l‟intenzionalità, con «il tempo della coscienza che si presta alla rappresentazione»268, con una teologia «rimasta pensiero dell‟Identità e dell‟Essere»269

e apre ad una «relazione s-quilibrata»270, a ciò che non potrebbe comprendersi, inglobarsi, toccarsi. La trascendenza rimane qualcosa di irriducibile alle strutture di bisogno da soddisfare proprie dell‟intenzionalità; in essa si annuncia una differenza che è «non-in-differenza», affezione, «radicalmente distinta dalla presentazione dell‟essere alla coscienza di…»271

.

La trascendenza a Dio – sottolinea ancora una volta Levinas - si produce soltanto in forza della trascendenza etica, a partire dalla relazione con altri, senza che questo tuttavia significhi «né che l‟altro uomo sia Dio, né che Dio sia un grande Altri»272

: il timore di Dio ritorna in timore del prossimo e della sua morte, la trascendenza dell‟Infinito si capovolge in responsabilità per l‟altro uomo.

Nel pensiero che va a Dio «si interrompe l‟avventura ontologica», «si eclissa l‟idea dell‟essere»273

e la coscienza «attende un atteso che oltrepassa infinitamente l‟attesa»274. Se siamo autorizzati a parlare di «teofania» e di «rivelazione», essa consiste in uno «sfondamento» del Bene che comanda e prescrive la responsabilità per l‟altro uomo.

È questa una responsabilità che mi raggiunge da un passato immemoriale ancor prima della mia libertà di scelta, di ogni consapevolezza e di ogni presente: «paradosso» di una diacronia radicale del tempo e di un vincolo che «mi raggiunge come ordine […] di un Dio “che ama lo straniero”, di un Dio invisibile»275

.

Tralasciando qualsiasi idea di Dio che lo riduce ad un termine di una relazione, ad una mèta da raggiungere, Levinas parla propriamente di «a-Dio» (à-Dieu) per indicare questa

268

E.LEVINAS, Dio di che viene all’idea, cit., p.127 269 Ivi, p.132 270 Ivi, p.133 271 Ivi, p.144 272 Ivi, p.133 273 Ivi, p.151 274 Ivi, p.160 275 Ivi, p.192

devozione nei confronti dell‟Infinito a cui sono votato, pur ammettendo l‟inadeguatezza e l‟inesprimibilità del concetto276

. Nel saggio La cattiva coscienza e l’inesorabile, il pensatore francese precisa il senso di questa nozione affermando:

Chiamata di Dio, non instaura tra me e Lui che mi ha parlato un rapporto. […] L‟Infinito non saprebbe significare per un pensiero che va a termine e l‟a-Dio non è una finalità277

.

L‟a-Dio non è un processo dell‟essere: nell‟appello, io sono inviato all‟altro uomo per il quale questo appello significa, al prossimo per il quale devo temere278.

In sostanza, la vera trascendenza, «che rende possibile ogni intuizione, ogni intenzionalità ed ogni mirare»279, significa nel volto del prossimo, nel per-l’altro, in quella prossimità concreta che è «responsabilità inalienabile» e «unicità dell‟eletto»280, proveniente da un‟eternità irraggiungibile.

Nelle pagine intitolate Note sul senso, ed in particolare nel paragrafo Il senso dell’umano, Levinas sembra offrirci un autentico «compendio» di quelle riflessioni maturate sul tema della trascendenza teologica. Vale la pena riportare per intero la citazione che ben sintetizza la posizione del filosofo francese:

Che la Rivelazione sia amore per l‟altro uomo, che la trascendenza dell‟a-Dio, separata da una separazione in cui non si riscontra alcun genere comune ai separati, neanche qualche forma vuota che li raccolga insieme, che il rapporto all‟Assoluto o all‟Infinito significhino eticamente, cioè nella prossimità dell‟altro uomo, estraneo o perfino nudo, denudato e indesiderabile, ma anche nel suo volto ineludibile che mi interroga, volto rivolto verso di me, che mi mette in questione - tutto ciò non dev‟essere preso per una «nuova prova dell‟esistenza di Dio». […] Tutto ciò descrive esclusivamente la circostanza in cui il senso stesso del termine Dio viene all‟idea e più imperiosamente di una presenza281.

276

«Infinito al quale io sono votato da un pensiero non-intenzionale la cui devozione nessuna preposizione della nostra lingua – neanche la “a” alla quale noi ricorriamo – saprebbe tradurre» (Ivi, pp.192-193) 277 Ivi, p.203 278 Ivi, p.204 279 Ivi, p.195 280 Ivi, p.196 281 Ivi, p.194