Il tessuto produttivo italiano è fondamentalmente caratterizzato da aziende di medie e piccole dimensioni. Negli anni Settanta, infatti, sono venute a mancare le condizioni di crescita della domanda di mercato, l’abbondanza di risorse e la stabilità monetaria sulle quali si era basato lo sviluppo industriale fino a quel momento, così che per le grandi imprese iniziò ad essere difficile mantenere le proprie strategie di crescita espansiva.
D’altro lato si registrò contemporaneamente un processo di crescita di un tessuto di piccole e medie imprese, legate alla produzione tradizionale e radicate in aree
geograficamente ristrette del Paese73. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta le
piccole e medie imprese sono diventate il cuore del nostro sistema produttivo e neppure il vasto processo di privatizzazione delle imprese pubbliche, avvenuto a metà degli anni Novanta, è riuscito a rafforzare il nostro sistema industriale. Il predominio delle piccole e medie imprese è legato anche al fatto che la produzione italiana sia specializzata in settori in cui non sono presenti economie di
scala74. Inoltre le imprese italiane sono addirittura più piccole, in media, rispetto a
quelle appartenenti allo stesso settore presenti in altri Paesi75.
In tutti i Paesi le imprese nascono piccole, ma poi diventano grandi; in Italia ciò non sempre avviene. Quindi la questione da affrontare non è tanto quella del vastissimo numero di piccole imprese, ma piuttosto quella della scarsa crescita
dimensionale italiana76. Inoltre la specializzazione di tali imprese è rivolta più che
73 Queste vengono definite “distretti industriali”: sono 141 i distretti identificati da fonti Istat, i quali
costituiscono circa un quarto del sistema produttivo del Paese e all’interno dei quali risiede circa il 22% della popolazione italiana. Il maggior numero di distretti è localizzato a nord-est della penisola. A ciò si aggiunga che l’occupazione manifatturiera distrettuale rappresenta circa un terzo di quella complessiva italiana; i distretti del made in Italy sono 130, ossia ben il 92,2% dei distretti industriali del Paese, presenti nel settore della meccanica (27,0%), del tessile-abbigliamento (22,7%), dei beni per la casa (17,0%) e di pelli, cuoio e calzature (12,1%). Per approfondimenti si veda: Istat, I distretti
industriali, www.istat.it/archivio/2015.
74 Le economie di scala prevedono la diminuzione dei costi medi di produzione in relazione alla
crescita della dimensione degli impianti, ossia danno luogo alla riduzione dei costi unitari al crescere della quantità prodotta, e sono quindi realizzate da grandi imprese, per ragioni sia organizzative che tecnologiche, Le economie di scala, Enciclopedia Treccani, www.treccani.it.
75 Per approfondimenti si veda: Istat, Il sistema produttivo: competitività e performance, capitolo 3,
Rapporto annuale Istat 2015.
76 Secondo un articolo dell’Università di Trento, «la crescita dimensionale può avvenire in due modi:
per accrescimento della capacità produttiva, oppure per acquisizione esterna da parte di altre imprese; in Italia ambedue questi meccanismi non funzionano». Unitrentomag, Un sistema
produttivo frammentato. Le piccole e medie imprese italiane e il problema della crescita dimensionale, 2015, http://webmagazine.unitn.it/eventi/7321/un-sistema-produttivo-frammentato.
37 altro verso settori a basso valore aggiunto e più precisamente verso quei comparti delle attività manifatturiere, meglio conosciuti come “made in Italy”, che sono spesso a basso contenuto d’innovazione e di ricerca e sviluppo.
Infatti il ritardo dell’Italia nell’innovazione, rispetto ai principali Paesi industriali, risente proprio della frammentazione del sistema produttivo in molte piccole imprese, le quali hanno difficoltà a sostenere i costi elevati, legati appunto ad innovazione e ricerca e sviluppo.
A tutto ciò si sommano la carenza di capitale umano nelle funzioni manageriali e di ricerca, la carenza di risorse finanziarie, e quindi il fatto che le fonti di finanziamento siano limitate, e infine un’eccessiva flessibilità dei rapporti di lavoro che riduce l’incentivo ad investire nella formazione. Per accrescere la capacità innovativa italiana sono opportune azioni che favoriscano quella crescita dimensionale delle imprese, di cui si parlava poco prima, e che incoraggino inoltre l’adozione di forme di gestione più manageriali e l’aumento del grado di
capitalizzazione77.
Il ridotto incentivo ad investire nella formazione, a cui si accennava precedentemente, fa sì che l’Italia sia caratterizzata da un sistema di formazione delle competenze contraddistinto appunto da bassi investimenti sia da parte del sistema scolastico che da parte delle aziende. Tra l’altro, nei sistemi liberali, quali l’Italia, la scuola produce una ricca base di competenze generali e per lo più accademiche e, anche se possono essere presenti percorsi tecnico-professionali, essi sono marginali e limitati a segmenti occupazionali molto specifici. Le aziende generalmente attingono dalla scuola e formano on the job le competenze di cui hanno bisogno, senza però investire in programmi di formazione orientati al lungo periodo78.
77 M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti, S. Magri, Banca d’Italia – N° 121 – Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi, www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2012. 78 G. Ballarino, Istruzione, formazione professionale, transizione scuola-lavoro. Il caso italiano in prospettiva comparata, 2013, p. 27.
38 3.1.1. Formazione delle competenze in Italia
In Italia non esiste un sistema di formazione delle competenze, ovvero un sistema di formazione professionale vero e proprio, ma ne esistono tre, tra loro ampiamente sovrapposti: il sistema degli istituti tecnici, quello degli istituti professionali e quello della formazione professionale regionale. Questi tre sistemi sono cresciuti in maniera proporzionale, ma allo stesso tempo non organizzata, mancando, infatti, una pianificazione a livello sistemico.
Il più antico è il sistema degli istituti tecnici, che è nato quando, in quelle zone del Paese in cui l’industria si era maggiormente sviluppata, sono state create una serie di scuole tecniche indipendenti, poi gradualmente integrate nel sistema scolastico nazionale.
Gli istituti professionali invece inizialmente erano scuole triennali che non prevedevano alcuna possibilità di continuazione, dove si poteva però conseguire un diploma molto specifico, che consentiva di accedere a ruoli tecnici di qualificazione intermedia. Tali istituti professionali furono successivamente equiparati in qualche modo agli istituti tecnici, in particolare con l’inserimento di un biennio aggiuntivo, che dava la possibilità di sostenere l’esame di maturità.
Il terzo sistema è quello della formazione professionale regionale, che si basa
sull’articolo 11779 della Costituzione Italiana, il quale attribuisce alle regioni la
responsabilità in materia di formazione professionale, erogata dai Centri di Formazione Professionale direttamente gestiti dalla regione o delegati alle province. Anche per la formazione professionale non c’è stata una progettazione sistemica né una chiara divisione dei compiti.
All’inizio dello scorso decennio sono state messe a punto dal Governo italiano delle riforme, di cui parleremo nei prossimi paragrafi, che vanno nella direzione della
necessaria pianificazione in tema di formazione. Giàa partire dagli anni Novanta
diversi attori istituzionali, in particolare le associazioni datoriali, le Camere di commercio e diversi enti locali, hanno cercato di rilanciare i rapporti tra istruzione tecnico-professionale e aziende, tenendo presente come punto di riferimento il modello tedesco.
79 Art. 117 Cost. «[…] Sono materie di legislazione concorrente (tra Stato e regioni) quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; […]».
39 Il sistema duale è considerato in Germania parte integrante del sistema scolastico, mentre in Italia la contrapposizione tra dimensione accademica e dimensione tecnico-professionale dell’istruzione è invece molto forte. Questa contrapposizione è alle origini della mancanza, nel nostro Paese, di un’istruzione tecnica di livello post-secondario, diversa dall’Università. L’istruzione terziaria tedesca prevede invece, oltre all’Università, un canale tecnico-professionale, delineato nel capitolo precedente, che deriva dal sistema duale e ne riproduce la stretta integrazione con
il mondo delle aziende, offrendo una didattica più orientata all’applicazione80.
Vediamo in maniera più approfondita come si articola oggi il sistema d’istruzione italiano e come si è sviluppato, dalle origini fino ai giorni nostri.
80 G. Ballarino, D. Checchi, La Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione formazione in un’economia di mercato coordinata, in «Rivista di Politica Economica», 2013, n. 1.
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