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ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO, DA POSSIBILITA' A OBBLIGO. IL CONTRIBUTO DELLE AGENZIE PER IL LAVORO: IL CASO GI GROUP

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN

COMUNICAZIONE D’IMPRESA E POLITICA DELLE

RISORSE UMANE

TITOLO:

ALTERNZANZA SCUOLA – LAVORO, DA POSSIBILITA’ A OBBLIGO. IL CONTRIBUTO DELLE AGENZIE PER IL LAVORO:

IL CASO GI GROUP

CANDIDATO

:

RELATORE

:

Mariacristina Calabrò

Prof. Giancamillo Palmerini

(2)
(3)

Alla mia famiglia, ai miei cari, ai miei amici e a tutti coloro che mi hanno incoraggiato.

(4)
(5)

I

INDICE

INTRODUZIONE ... 1

CAPITOLO 1. LE ESIGENZE DEI GIOVANI E LE MISURE INTRAPRESE ... 5

1.1. La condizione dei giovani tra crisi economica e flessibilità lavorativa ... 6

1.2. Il passaggio dall’istruzione al lavoro ... 8

1.2.1. Diverse modalità di transizione ... 9

1.2.2. Il mismatch delle competenze tra sistema formativo e sistema produttivo ... 11

1.3. Riformare il sistema di collegamento al lavoro ... 14

1.3.1 Interventi internazionali: da Bologna, a Lisbona, a Copenaghen. ... 15

1.3.2. Il punto di vista internazionale ... 17

CAPITOLO 2. LA GERMANIA: DALLA SCUOLA AL LAVORO CON UN PERCORSO DUALE ... 21

2.1. Il contesto storico di riferimento ... 22

2.1.1. L’influenza del sistema di istruzione sull’economia in Germania ... 24

2.2. Il sistema d’istruzione e formazione in Germania: origini normative ... 25

2.2.1. Sistema tedesco di istruzione primaria ... 26

2.2.2. Sistema tedesco di istruzione secondaria, inferiore e superiore ... 27

2.2.3. Sistema tedesco di istruzione e formazione terziaria ... 30

2.3. Alternanza in ambito scolastico e alternanza in apprendistato ... 32

2.3.1. Il sistema duale tedesco: punti di forza e di debolezza……… 33

CAPITOLO 3. L’ITALIA E IL SUO SISTEMA DI ISTRUZIONE: DALLE ORIGINI AD OGGI ... 35

3.1. Contesto: il sistema produttivo italiano ... 36

3.1.1. Formazione delle competenze in Italia ... 38

3.2. Il sistema d’istruzione in Italia ... 40

(6)

II

3.3.1. Riforme Moratti e Gelmini: precursori della “Buona Scuola” ... 49

CAPITOLO 4. LA “BUONA SCUOLA”: FOCUS SULL’ALTERNANZA SCUOLA – LAVORO ... 53

4.1. Linee fondamentali della Legge 107/2015 ... 54

4.2. L’alternanza scuola – lavoro ... 60

4.2.1. L’alternanza scuola – lavoro attraverso la normativa: dalle origini ad oggi ... 61

4.2.2. L’alternanza nella “Buona Scuola”... 66

4.2.3. Attori coinvolti nella realizzazione dell’alternanza ... 69

4.2.4. Dispositivi didattici utilizzabili ... 71

CAPITOLO 5. IL CONTRIBUTO DELLE AGENZIE PER IL LAVORO: IL CASO GI GROUP E L’IMPRESA LA MARZOCCO ... 75

5.1. Le Agenzie Per il Lavoro: cosa sono e cosa fanno ... 76

5.1.1. Le Agenzie Per il Lavoro come intermediari dell’alternanza ... 78

5.2. Gi Group e la sua storia ... 82

5.2.1. Gi Group e la sua mission ... 83

5.3. Il contributo di Gi Group nell’alternanza scuola – lavoro ... 85

5.3.1. Gi Group e la guida operativa per le aziende ... 86

5.3.2. Gi Group e la Survey sull’alternanza scuola – lavoro ... 90

5.3.3. Gi Group e il progetto di alternanza scuola – lavoro ... 95

5.4. Caso pratico di alternanza scuola - lavoro: Gi Group e La Marzocco. ... 97

5.4.1. La Marzocco: storia, valori e mission. ... 97

5.4.2. La Marzocco e il progetto di alternanza scuola lavoro... 100

5.4.3. Spunti emersi da un confronto diretto con La Marzocco ... 103

CONCLUSIONI ... 107

BIBLIOGRAFIA ... 109

(7)
(8)

1

INTRODUZIONE

Uno degli argomenti più intensamente dibattuti negli ultimi anni riguarda il tema della alternanza scuola-lavoro. Le ragioni di questo accresciuto dibattito sono da ricercare nelle necessità economiche del Paese, con particolare riguardo alla condizione economica e lavorativa dei giovani. Tutto ciò ha spinto il Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, all’approvazione della legge del 13 luglio 2015,

n. 107, meglio conosciuta come “Buona Scuola”.

Tale legge introduce l’obbligo di inserire all’interno degli istituti scolastici dei percorsi di alternanza scuola – lavoro, che mirano a fornire ai giovani, oltre alle conoscenze di base, quelle competenze lavorative che sembrano sempre più necessarie per entrare agevolmente nel mercato del lavoro. Infatti, proprio il rapporto tra mondo scolastico e mondo produttivo e del lavoro rappresenta, come sappiamo, una delle maggiori criticità dell’economia e della società italiane: i giovani non riescono a sviluppare attraverso il percorso formativo intrapreso quelle competenze che si apprendono solo tramite il diretto contatto e l’effettivo inserimento nel mondo del lavoro.

Questo elaborato, partendo proprio dalla convinzione del potere educativo e formativo dei contesti di lavoro, tratta l’argomento da diversi punti di vista.

Nel primo capitolo viene descritta la condizione dei giovani, che rappresenta uno dei maggiori motivi di preoccupazione del nostro Paese, principalmente negli anni più recenti, segnati da una profonda crisi economica. Viene mostrato infatti come, proprio in questi anni, tale categoria sociale sia stata al centro di politiche attive miranti a contrastare appunto la disoccupazione giovanile. Queste politiche hanno portato all’introduzione di forme contrattuali caratterizzate da una forte flessibilità, alla quale però spesso fa da contraltare l’insicurezza e l’instabilità lavorativa. A ciò si aggiunge il fatto che i giovani, al momento dell’entrata nel mercato del lavoro, subiscono gli effetti di quello che viene comunemente definito mismatch tra domanda e offerta, ovvero tra le competenze acquisite e quelle richieste. Ciò è dovuto principalmente alla mancanza di collegamento tra scuola e lavoro. Sarebbe opportuno creare verosimilmente dei ponti stabili tra sistema educativo-formativo e sistema produttivo-lavorativo.

(9)

2 Le istituzioni internazionali in primis hanno cercato di trovare delle soluzioni: nell’ultima parte del primo capitolo sono infatti delineati i principali processi europei che, soprattutto negli ultimi venti anni, hanno condizionato l’andamento dei suddetti sistemi, con particolare riguardo a quello di istruzione.

Si parte dal processo di Bologna per arrivare a quello di Lisbona e per concludere con quello di Copenaghen, processi che condividono il tentativo di valorizzazione dell’integrazione tra scuola e lavoro. Le istituzioni internazionali individuano nel modello tedesco del “sistema duale” il massimo prototipo di tale integrazione. Infatti, il secondo capitolo di questo elaborato si concentra appunto sulla Germania, la quale può essere assunta a modello sia per le riforme economiche e sociali messe in atto nel corso del tempo, che per il suo sistema di istruzione e formazione. Partendo dal contesto storico ed economico tedesco, sarà descritto dettagliatamente il relativo sistema di istruzione e formazione, soffermando poi l’attenzione sul sistema duale sopramenzionato, basato sull’unione di apprendistato in azienda e formazione scolastica. Esso è in grado di produrre competenze adeguate ad una struttura produttiva competitiva e ciò ha permesso la tenuta economica e sociale della Germania anche durante la crisi.

Per questi motivi la Germania può rappresentare un benchmark utile per l’Italia, ovvero può assumere una funzione di guida, alla quale le istituzioni scolastiche e le imprese italiane possono ispirarsi per trarne insegnamento.

Il terzo capitolo, tenendo presente il caso tedesco come punto di riferimento e di paragone, prende le mosse da una panoramica generale sul contesto produttivo italiano, caratterizzato principalmente da piccole e medie imprese, per concentrarsi poi sul sistema d’istruzione dell’Italia e sui passi normativi che sono stati fatti dall’Ottocento fino ad oggi, con un focus sulle riforme dell’ultimo ventennio fino alla recente riforma conosciuta come “Buona Scuola”, sulla quale si concentra invece il quarto capitolo.

Sarà delineato infatti successivamente un quadro generale su quelle che sono le linee fondamentali stabilite dalla legge n. 107/2015, estendendo poi in particolare la riflessione all’alternanza scuola – lavoro. L’alternanza sarà spiegata all’interno del capitolo, prima attraverso un excursus sulla normativa e poi con una descrizione relativa agli attori coinvolti in questo processo e ai dispositivi didattici utili alla sua attuazione.

(10)

3 Nel quinto ed ultimo capitolo viene mostrato come, nonostante l’ampia condivisione teorica dei principi che stanno alla base dell’alternanza scuola – lavoro, la sua realizzazione non sia ancora completa, anzi procede attualmente a rallentatore. Proprio queste motivazioni rendono fondamentale la presenza di intermediari, quali sono le Agenzie Per il Lavoro.

Infatti, alla fine di questo elaborato, la trattazione si concentrerà proprio sulle Agenzie Per il Lavoro, su cosa sono e cosa fanno e su come possono essere di supporto ai fini dell’alternanza scuola – lavoro, per poi spostare l’attenzione su una di queste agenzie in particolare, Gi Group.

A questo punto, partendo dalla descrizione della sua storia e della sua missione, si arriva a mostrare il contributo di Gi Group in relazione all’alternanza scuola – lavoro, analizzando nello specifico un caso pratico in cui Gi Group ha reso possibile la realizzazione di percorsi di alternanza, facendo da tramite tra alcuni istituti scolastici fiorentini e una grande azienda italiana. Sarà inoltre raccontato brevemente il punto di vista dell’azienda in questione, che è stata direttamente intervistata da Gi Group ai fini del monitoraggio e della valutazione delle esperienze realizzate.

L’elaborato, in conclusione, mira a mettere in luce quelli che sono i punti di forza e di debolezza dell’alternanza scuola – lavoro, con l’intento di offrire alcuni spunti di riflessione che possano essere utili ad apportare i miglioramenti che sono ancora necessari, cercando di sottolineare il valore dell’alternanza scuola – lavoro, da intendersi come un percorso che non vuole e non deve rimanere fine a sé stesso.

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(12)

5

CAPITOLO 1.

LE ESIGENZE DEI GIOVANI E LE MISURE INTRAPRESE

«La differenza tra le persone

sta solo nel loro avere maggiore o minore accesso alla conoscenza» (cit. Lev Tolstoj)

La condizione dei giovani è uno dei principali motivi di preoccupazione del nostro Paese soprattutto quando si toccano temi caldi come quello della disoccupazione.

Questa, come mostrato da fonti statistiche, una su tutte l’Istat1,raccoglie una grossa

fetta della popolazione giovanile sul nostro territorio. Va da sé che negli anni più recenti la condizione dei giovani sia stata al centro di politiche sociali atte a cercare di contrastare quella che, a gran voce, è definita come una piaga sociale dell’era

moderna.2

In questa direzione, il percorso formativo, dato il suo scopo di crescita tanto personale quanto professionale di uno studente, risulta essere un fattore fondamentale che va ad incidere sulle probabilità di occupazione dei più giovani. Il passaggio dalla scuola al lavoro in Italia è però un passaggio difficile: non è quasi mai immediato e spesso sfocia in un cammino lungo e faticoso, il cui esito finale può talvolta generare insoddisfazione sia per chi l’occupazione la cerca, sia per chi la offre. Ciò succede quando il lavoro svolto richiede un livello di competenze professionali e non che risultano differenti da quelle acquisite nel corso degli studi.

1 In un articolo del Sole 24 ore, emerge, grazie a fonti Istat, come il tasso di disoccupazione tra i 15

e i 24 anni sia salito al 40,1%, considerando come arco temporale il periodo compreso dal 2008 alla fine del 2016. Per approfondimenti si veda: Istat: la disoccupazione dei giovani risale al 40,1%, gennaio 2017, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-01-31/istat-disoccupazione-giovani-risale-401percento-100915.shtml?uuid=AEVOdGL&refresh_ce=1.

2 Il solo tasso di disoccupazione rappresenta tuttavia una misura incompleta della forza lavoro

giovanile inutilizzata, perché esclude “l’inattività”, un’area che tra i giovani ha registrato negli ultimi due decenni una tendenza alla crescita. Per cogliere anche questo aspetto, è utile introdurre il concetto di NEET (Neither in education nor in employment or training), col quale si identifica la quota di under 30 che sono disoccupati o inattivi per motivi diversi dall’essere studenti o in formazione. Purtroppo la presenza di un’area di inattività giovanile pare quindi una caratteristica strutturale del nostro mercato del lavoro, imputabile anche allo scoraggiamento che coglie molti giovani di fronte alle difficoltà di inserimento occupazionale, sia per mancanza di un adeguato titolo di studio che per l’incompatibilità che spesso si crea tra le competenze acquisite nel sistema scolastico e quelle richieste dal mondo produttivo. Per approfondimenti si veda: N. Sciclone, La

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6 La transizione dall’istruzione al mondo del lavoro può essere però migliorata, intervenendo sui principali punti di criticità del sistema formativo stesso.

1.1. La condizione dei giovani tra crisi economica e flessibilità

lavorativa

In Italia, negli anni più recenti, segnati da una profonda crisi economica, è andata aumentando la percezione che i giovani stiano vivendo un peggioramento in termini di condizioni economiche e lavorative, rispetto alla generazione precedente. Questa impressione, diffusa anche in altri Paesi europei, ha un riscontro particolare in Italia, dove l’aumento della permanenza nei percorsi di istruzione ha contribuito a ridurre le potenziali risorse giovani in ingresso nel mercato del lavoro: la diminuzione dei giovani occupati è di riflesso connessa ad un innalzamento dei livelli di istruzione

registrato negli ultimi anni3.

D’altra parte, risulterebbe azzardato parlare della condizione lavorativa dei giovani esclusivamente in maniera negativa, in quanto le riforme del mercato del lavoro degli ultimi anni hanno avuto come obiettivo quello di rendere più agevole l’accesso al mondo del lavoro.

Infatti negli ultimi anni le opportunità occupazionali dei giovani hanno evidenziato un andamento crescente, questo grazie ad una serie di riforme volte a facilitare l’assunzione, tramite l’introduzione e la liberalizzazione di forme contrattuali

caratterizzate da una forte flessibilità4. Il cambiamento del quadro normativo,

infatti, ha prodotto effetti significativi sul mercato del lavoro già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, quando il tasso di occupazione ha preso a crescere a ritmi sostenuti, permettendo il superamento della soglia del 75% all’inizio degli anni Duemila. Negli anni più recenti invece il tasso di occupazione giovanile è

3 Gli indicatori che misurano il livello di istruzione della popolazione e la partecipazione al sistema

formativo hanno infatti registrato complessivamente un andamento positivo nel periodo 2015/2016. Per approfondimenti si veda: Livelli di istruzione e formazione sempre più alti, http://www.istat.it/it/files/2016/12/02-Istruzione-formazione-BES-2016.pdf.

4 I primi interventi normativi volti ad accrescere la flessibilità in entrata sono rappresentati dal

Pacchetto Treu (L. 196/1997) e dal d.lgs. 368/2001, che hanno legalizzato il lavoro interinale e alleggerito i vincoli in materia di contratti a tempo determinato. Nel 2004, la Legge Biagi si è presentata come una riforma di più vasta portata: fornendo alle imprese nuove forme contrattuali estremamente flessibili, essa ha cercato di scoraggiare il ricorso ai contratti di lavoro parasubordinato, spesso utilizzati per coprire posizioni lavorative di fatto subordinate, ma anche di fornire gli strumenti necessari all’emersione del lavoro nero (ad esempio, il contratto di lavoro a chiamata e le prestazioni di lavoro accessorio).

(14)

7 tornato ai livelli dei primi anni Novanta, per effetto della crisi economica che ha riversato i suoi effetti innanzitutto sui soggetti al margine del mercato del lavoro,

in gran parte appartenenti alle fasce d’età più giovani5.

A questo punto è opportuno sottolineare come al termine “flessibilità” sia stato accostato sempre più quello di “insicurezza”: gli interventi di liberalizzazione dei contratti atipici, aumentando le tipologie contrattuali flessibili e ampliandone le possibilità di utilizzo, hanno da un lato facilitato l’ingresso nel mercato del lavoro, e dall’altro hanno favorito un aumento della permanenza nell’instabilità lavorativa. Tra le varie forme di flessibilità che hanno contribuito in misura determinante a rafforzare la vulnerabilità dei più giovani di fronte alle difficoltà di raggiungimento di una stabilità economica, spiccano due tipi contratti atipici: il lavoro a termine e il lavoro a tempo ridotto, dove quest’ultimo è caratterizzato da una “doppia” atipicità: sia per durata contrattuale, che per orario di lavoro.

Ciò è dovuto anche allo scetticismo della parte produttiva, che non vedendo segnali di ripresa economica, stenta ad investire sul fattore lavoro a media e/o lunga scadenza.

Da sottolineare è come la flessibilità non sia di per sé un elemento fonte di insicurezza ed instabilità, ma essa, se sviluppata in un sistema caratterizzato dal dinamismo e dalla fluidità, può di contro permettere una migliore allocazione delle risorse lavorative. Il problema sorge nel momento in cui essa sfocia nel precariato, dove i termini di dinamismo e fluidità perdono quel filo di continuità che li caratterizza, passando quindi da periodi di attività a periodi di inattività.

5 Elaborazioni IRPET su dati Istat, citando N. Sciclone, La condizione giovanile ai tempi della crisi,

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8

1.2. Il passaggio dall’istruzione al lavoro

Tra i fattori che maggiormente risultano essere di impatto sull’iter professionale di un giovane ed in generale sulla sua formazione personale, l’istruzione rappresenta quello che più degli altri favorisce le proprie opportunità occupazionali e permette di affrontare il rischio della disoccupazione. Nonostante ciò al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro anche i giovani istruiti devono fare i conti con la scarsa esperienza lavorativa maturata, accusando così la differenza tra le competenze acquisite nell’arco dei propri studi e quelle richieste nel mondo del lavoro.

Inoltre, l’allungamento del percorso formativo (dalla scuola all’università, dalla laurea di primo livello alla laurea di secondo livello, passando per master vari, specializzazioni e tirocini) pone un soggetto a restare nella condizione di studente fino a tempi in cui la stessa definizione di “giovane” inizia a sembrare poco adatta. Considerando in aggiunta che spesso le prime esperienze lavorative sono contratti a termine, l’iter di un soggetto che entra nel mercato del lavoro si prospetta lungo e non privo di difficoltà.

Tale percorso, seppur lungo e travagliato, dovrebbe permettere un’ulteriore accumulazione di informazioni e di capitale umano, consentendo così di avvicinarsi sempre più a quelle competenze richieste e di accedere quindi a una più soddisfacente condizione lavorativa. Tuttavia, non sempre ciò avviene e molto spesso durante il passaggio al mondo del lavoro alcuni restano al margine, se non addirittura esclusi.

Viene spontaneo quindi attribuire gran parte delle colpe al sistema di istruzione, spesso percepito come troppo distante dalle esigenze del mondo del lavoro. Nonostante ciò, non è da trascurare che a volte le imprese stesse dimostrano uno scarso interesse ad investire sul capitale umano dei giovani, proponendo loro delle mansioni poco qualificate.

Tra il sistema di istruzione e il mondo del lavoro regna un vuoto quasi assoluto, al quale si tenta spesso di trovare una soluzione attraverso le conoscenze legate alla propria posizione sociale, che vanno quindi a ripresentare quelle stesse diseguaglianze ed inefficienze che l’istruzione stessa dovrebbe permettere di attenuare.

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9 1.2.1. Diverse modalità di transizione

Alcuni dati relativi alla delicata fase di passaggio dalla scuola al lavoro possono

essere recuperati facendo riferimento all’Indagine ISFOL Plus;6 questa indagine7

permette di focalizzare l’analisi sulla fase di transizione dal sistema di istruzione al mondo del lavoro prendendo in considerazione informazioni relative al percorso scolastico-universitario e alla carriera lavorativa.

Vengono presi in esame i 5 anni successivi al conseguimento di un titolo di studio secondario o terziario come il periodo in cui un giovane è da considerarsi “in transizione”, si è quindi analizzata la condizione occupazionale dei neodiplomati e neolaureati.

Da notare come nello studio proposto venga sottolineato che diverse tipologie di istruzione secondaria e/o terziaria comportano differenti modalità di transizione al mondo del lavoro. Per quanto riguarda i neodiplomati, a seconda del tipo di scuola frequentata, per coloro che hanno conseguito il titolo da meno di 5 anni esistono probabilità molto diverse di proseguire gli studi, di accedere ad un’occupazione e di finire nello stato di disoccupazione: i liceali sembrano mostrare una forte propensione a continuare con il percorso di studi, la quale appare invece modesta per i diplomati tecnici e soprattutto professionali. La transizione verso l’occupazione nei primi 5 anni dal diploma avviene per i liceali in una minima percentuale di casi, mentre riguarda oltre la metà dei diplomati presso istituti professionali.

Per quanto riguarda lo stato di disoccupazione, questo fenomeno interessa circa un quarto di coloro che hanno conseguito un diploma tecnico-professionale, mentre per coloro che hanno frequentato i licei il rischio di disoccupazione è ovviato dall’elevata tendenza a proseguire gli studi, a volte scelta obbligata proprio a causa delle scarse opportunità lavorative.

6 La rilevazione ISFOL Plus è un’indagine con cadenza periodica e la rilevazione è di tipo

campionario e coinvolge in ogni occasione circa 40mila individui. Il campo d’osservazione è rappresentato dalla popolazione residente in Italia con età compresa tra 18 e 64 anni. Il dettaglio massimo delle stime è la regione Toscana, che si colloca generalmente su valori intermedi tra quelli delle regioni meridionali e di quelle settentrionali, e per questo ritenuta rappresentativa del campione italiano.

7 Per approfondimenti sull’indagine in questione si veda: N. Sciclone, La condizione giovanile ai tempi della crisi, Firenze, 2013 pag. 40.

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10 Dopo alcuni anni dal conseguimento del titolo si osserva una forte diminuzione della probabilità di trovare un’occupazione per i giovani qualificati che non ne hanno mai avuta una. A questo punto non è infatti difficile cadere nello scoraggiamento che può comprensibilmente cogliere molti di fronte al circolo vizioso “no experience-no job, no job-no experience”.

Dal terzo-quarto anno dopo il conseguimento del titolo, oltre allo scoraggiamento, sopraggiunge un vero e proprio intrappolamento in quelle condizioni che rendono difficile il miglioramento delle posizioni, riducendo drasticamente la probabilità di trovare un’occupazione per chi non l’ha mai avuta prima. Esiste quindi una quota non trascurabile di giovani qualificati che, a 5 anni dal conseguimento del titolo, non ha mai avuto un’esperienza lavorativa e che rischia quindi di restare definitivamente esclusa dal mercato del lavoro. Il mancato esercizio delle competenze acquisite nel sistema di istruzione per periodi prolungati, porta ad una dequalificazione delle stesse e di conseguenza lo stesso percorso lavorativo ne risente drasticamente.

L’inadeguatezza percepita dai giovani in merito alle proprie competenze è in parte legata al modello di transizione esistente in Italia, che si basa sul principio “study

first, than work”; diversamente da quanto avviene in altri Paesi incentrati sul

modello “study while working” (tipico dei Paesi anglosassoni) e in quelli basati

sull’apprendistato professionalizzante (come Germania, Austria e Svizzera)8.

In Italia molti giovani si affacciano sul mondo del lavoro per la prima volta dopo il conseguimento del titolo di studio, senza aver mai avuto alcuna esperienza lavorativa. L’esperienza lavorativa diviene dunque un momento fondamentale per confrontarsi con quel sapere contestuale che costituisce l’effettivo valore aggiunto dei lavoratori, che si somma alle competenze acquisite durante il percorso di studi.

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11 1.2.2. Il mismatch delle competenze tra sistema formativo e sistema

produttivo

In Italia una delle principali criticità della transizione scuola-lavoro è rappresentata dal mismatch che spesso si viene a generare tra tipologia o livello di istruzione del lavoratore e effettive competenze richieste nel posto di lavoro. Infatti, molti dei giovani, soprattutto inizialmente, si trovano a dover occupare posizioni che richiedono competenze inferiori o comunque differenti da quelle derivanti dalla loro formazione.

A tal proposito si distinguono due tipi di mismatch:

- Il primo, di tipo verticale, si verifica quando un individuo è assunto per svolgere un lavoro per il quale si richiede un livello di istruzione inferiore a quello in suo possesso;

- Il secondo, di tipo orizzontale, si verifica quando il tipo di istruzione o di competenze sviluppate a scuola sono inappropriate al lavoro svolto.

Nel nostro mercato del lavoro quindi il fenomeno del mismatch tra le competenze e le conoscenze possedute da neodiplomati e neolaureati e quelle richieste dal mondo produttivo non riguarda solo i giovani che non riescono a inserirsi nel mondo del lavoro, ma anche quelli che hanno trovato un impiego non adeguato. Si parla in questo caso di sotto-inquadramento o di over-education, per indicare la condizione di quei lavoratori che svolgono una professione che richiederebbe un titolo di studio diverso, ovvero inferiore rispetto a quello in realtà posseduto, con

conseguente spreco di capitale umano qualificato9. Quindi anche coloro che hanno

l’opportunità di lavorare non hanno la possibilità di far fruttare il proprio investimento in istruzione, adattandosi a svolgere professioni per le quali risultano

over-educated e non adeguatamente remunerati.

Non vi è dubbio che tra le principali cause del rapporto conflittuale e poco funzionale tra il sistema formativo e il mondo della produzione vi sia l’incapacità del primo a relazionarsi con la seconda. È ormai chiaro da tempo come non sia sufficiente andare a scuola perché questo influisca positivamente sulla vita lavorativa delle persone.

Da questo punto di vista, nonostante i miglioramenti intercorsi, è necessario potenziare i meccanismi di valutazione delle conoscenze e competenze apprese nel

(19)

12 sistema dell’istruzione, in modo da migliorare la funzione di segnale che il titolo di studio svolge nei confronti del mondo lavorativo.

Al centro di questa riflessione c’è l’importanza delle competenze trasversali o soft

skills (come ormai definite dal linguaggio comune oltre che da quello

amministrativo) le quali:

«Riguardano le capacità di affrontamento e soluzione dei problemi, di lavorare in gruppo, di esprimere una costante flessibilità, di apprendere e farsi autori di decisioni autonome. Nella società della conoscenza gli eventi della globalizzazione e della complessità del mercato del lavoro domandano ai lavoratori qualificazione e riqualificazione, disposizione a cambiare lavoro, aggiunta e affinamento di abilità e capacità, guadagno di competenze trasversali e meta-competenze e chiedono ai processi formativi non tanto di insistere sulla consegna di saperi specifici quanto sull’apprendimento di strumenti conoscitivi essenziali, flessibili, utili

all’apprendimento permanente e alla formazione continua»10.

Queste dimensioni sono realizzabili solo facendo tornare al centro del processo formativo la persona, e portano ad una definizione del termine “competenza/e” diversa da quella tradizionalmente usata.

Il Cedefop spiega la “competenza” come «la capacità di applicare in modo appropriato in un determinato contesto (istruzione, lavoro, sviluppo personale e

professionale) i risultati dell’apprendimento»11. Di conseguenza queste competenze

trasversali o soft skills, sono così definite perché «trasversali rispetto ai singoli mestieri e settori e connesse alle competenze personali (fiducia in se stessi, disciplina, imprenditorialità) e sociali (predisposizione al lavoro di gruppo,

comunicazione, empatia)»12. Tali competenze sono inoltre “trasversali” non solo

rispetto alle situazioni lavorative, ma anche nei confronti delle “competenze disciplinari”, ovvero si ritrovano in ogni diversa disciplina di studio e quindi non possono essere il risultato di un solo apprendimento.

La centralità di queste competenze è sempre in continuo aumento nel mercato del lavoro. Capire come aiutare le persone e soprattutto i giovani nel far emergere

10 B. Rossi, La costruzione dell’identità professionale. Impegni per l’università, in Cultura del lavoro e formazione universitaria, a cura di L. Fabbri – B. Rossi, Franco Angeli, Milano, 2008, p.

37.

11 Cedefop, Terminology of European education and training policy. A selection of 100 key terms,

Office for Official Pubblications of the European Communities, Luxembourg, 2008, p. 72.

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13 queste loro caratteristiche è un problema che interessa la formazione di ogni tipo e a qualsiasi livello.

La formazione dell’individuo deve consentire non solo una sua polivalenza, ma deve prepararlo al cambiamento, ad un continuo suo modificarsi sia negli atteggiamenti che nei comportamenti, così da mettersi in grado di adeguarsi man mano nel corso della vita ad un mondo esterno, ad una società in costante trasformazione, nello sforzo di non lasciarsi sorpassare e travolgere dai mutamenti in corso, anzi che sia tale da predisporlo a diventare egli stesso fattore di

rinnovamento e di evoluzione del sistema.13

Bisogna quindi riflettere sulla capacità dei sistemi educativi attuali di far fiorire le competenze personali e non una semplice accumulazione acritica delle nozioni, in quanto la formazione di queste competenze non si può standardizzare attraverso le nozioni, ma ha bisogno di esperienze reali, di analisi dell’esperienza stessa e di allenamento pratico.

Emerge una forte esigenza di maggiore connessione tra ciò che, in termini di competenze e conoscenze, riesce a produrre il sistema di istruzione e formazione e

quanto invece è domandato dal contesto socio-economico.Su questo fronte occorre

in primo luogo aumentare e qualificare i canali formativi che connettono imprese/imprenditori e studenti/lavoratori. Fondamentale è inoltre la qualificazione dei percorsi di istruzione e formazione professionale e della formazione on the job delle imprese. Sarebbe necessario imparare di più sul luogo di lavoro, con percorsi in alternanza o duali.

13 G. Martinoli, La preparazione delle forze lavoro di domani, in Educazione e divisione del lavoro,

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14

1.3. Riformare il sistema di collegamento al lavoro

Un passo fondamentale per migliorare la transizione dal sistema dell’istruzione al mondo del lavoro consiste nell’inserire tra i due dei ponti stabili che permettano alla maggior parte dei giovani di collocarsi in posti di lavoro adatti alle loro competenze.

In una fase come quella attuale, in cui la transizione dall’istruzione all’occupazione è resa più lunga e problematica dalla difficile congiuntura economica, le politiche attive dovrebbero prendersi carico di accompagnare le giovani risorse umane qualificate verso posizioni occupazionali a loro idonee, aiutandoli e motivandoli a sviluppare o, se necessario, a riadattare le proprie competenze a quelle più richieste dal mercato del lavoro.

Si tratta quindi di instaurare forti legami tra il sistema educativo-formativo e quello economico-produttivo, creando così un modello formativo integrato di apprendimento, capace di formare soggetti che siano così provvisti di abilità pratiche e di nuove attitudini mentali.

Questo richiede di ripensare all’educazione: essa non può più essere considerata una forma di sviluppo della persona realizzabile soltanto all’interno dei contesti formali, perché questo continuerebbe a generare la parcellizzazione delle conoscenze, anziché lo sviluppo dell’attitudine a risolvere problemi complessi, mediante l’uso significativo dell’esperienza. È importante quindi riuscire a coniugare il sapere formale e con il sapere informale, tenendo presente che il compito della scuola è anche quello di evitare che tutte le esperienze che i soggetti acquisiscono fuori di essa si disperdano e, nello stesso tempo, di assicurarsi che gli studenti possano usare all’esterno, ciò che apprendono a scuola. Infatti, è proprio la connessione tra il contenuto dell’apprendimento e i contesti nei quali questo dev’essere applicato, che attribuisce significato e senso al processo stesso di

apprendimento14.

Di seguito verranno analizzati alcuni processi europei che, ponendo al centro del dibattitto i temi sin quì trattati, hanno dettato condizioni e obiettivi da raggiungere.

(22)

15 1.3.1 Interventi internazionali: da Bologna, a Lisbona, a Copenaghen.

Il primo decennio del nuovo millennio ha visto la nascita e la diffusione di un “modello europeo di formazione delle competenze”, come esito congiunto principalmente di due processi tra loro indipendenti, anche se molto simili e vicini: il processo di Bologna per quanto riguarda l’istruzione superiore, universitaria e post-secondaria in generale, e il processo di Copenaghen per quanto riguarda l’Istruzione e Formazione Professionale. L’analisi dei documenti prodotti dai due processi mostra come l’idea dominante sia in realtà quella di un nuovo tipo di

individuo, che sviluppa di continuo le proprie competenze15.

Il processo di Bologna, avviato con la dichiarazione di Bologna nel 1999 e valutato ogni tre anni nel corso delle conferenze ministeriali, ha lo scopo di introdurre un sistema più comparabile, compatibile e coerente per l’istruzione superiore europea ed è in linea con gli obiettivi del quadro “Istruzione e formazione” dell’Unione

Europea e con la sua strategia Europa 202016 per la crescita e l’occupazione17.

Sono stati presi impegni politici forti: nel 1996 viene creato un comitato permanente per l’occupazione e il mercato del lavoro; nell’ottobre del 1997 una sezione specifica del Trattato di Amsterdam (Titolo VIII) viene per la prima volta dedicata all’occupazione, sezione che stabilisce “una strategia coordinata per l’occupazione”; un vertice straordinario sull’occupazione si tiene a Lussemburgo nel novembre 1997 e viene lanciata su questa base la strategia europea per l’occupazione (SEO), appoggiata fermamente l’anno successivo dal Consiglio europeo di Cardiff e da quelli che seguiranno, in particolare dal Consiglio europeo

di Lisbona del 200018, dal quale tra il nome appunto la strategia di Lisbona19.

15 G. Ballarino, Istruzione, formazione professionale, transizione scuola-lavoro. Il caso italiano in prospettiva comparata, 2013, p. 12.

16 Europa 2020, http://ec.europa.eu/europe2020/europe-2020-in-a-nutshell/index_it.htm.

17 Per approfondimenti si veda: Il processo di Bologna: realizzare uno Spazio europeo dell’istruzione superiore, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM:c11088. 18 S. Baggiani, L’istruzione e la formazione professionale. Le principali tappe della cooperazione a livello comunitario, 2016, p.12.

19 Per Strategia di Lisbona,

(23)

16 Così, a partire dal 2001, il parere dei ministri dell’istruzione è tenuto in conto dalla Commissione nell’elaborazione delle linee guida annuali per l’occupazione che

accordano, a partire da questa data, una priorità al life-long learning20.

Inoltre il consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 segna una tappa importante anche in questo ambito introducendo il “metodo aperto di coordinamento”, ovvero

l’open coordination, che consacra gli indicatori e i criteri di riferimento europei

come strumenti chiave che permettono di misurare i progressi dell’Unione verso gli obiettivi fissati in comune per il 2010.

In questi anni si verificano anche importanti cambiamenti nell’ambito della cooperazione comunitaria in materia di istruzione e formazione, tanto nella sua dimensione politica che a livello di programmi rivolti ai cittadini. La strategia di Lisbona conduce i responsabili di questa cooperazione a definire, per la prima volta nella storia, un quadro di cooperazione politica comune, ovvero “Istruzione e

formazione 2010”21, che diventerà il punto di riferimento per l’insieme delle azioni

di istruzione e formazione e per adottare un nuovo metodo di lavoro teso a favorire le convergenze dei sistemi.

Il Consiglio Europeo di Lisbona fissa un obiettivo molto ambizioso da realizzare entro il 2010: «l’Unione deve diventare l’economia della conoscenza più

competitiva e più dinamica del mondo […]»22. Imponendo la scadenza del 2010, il

Consiglio europeo stabilisce, per tutti i settori interessati, una certa esigenza di efficacia e di risultato. Le conclusioni di Lisbona hanno l’obiettivo di sostenere il processo di riforma e di cambiamento negli Stati membri con un obiettivo a medio termine, un metodo di lavoro e di monitoraggio strutturato.

Il processo di Copenaghen, avviato nel 2002, punta a migliorare le prestazioni, la qualità e l’attrattività dell’Istruzione e Formazione Professionale in Europa e a

20 Per spiegare tale termine si riprendono quì le parole di A. Alberici nel Convegno Una società a misura di apprendimento, Educazione permanente nei diversi contesti formativi, La possibilità di cambiare, l’apprendimento permanente come risorsa strategica per la vita, Bressanone, 2009:

«È la pratica dell’educazione permanente che si intende considerare nella sua accezione di condizione per lo sviluppo della potenzialità apprenditiva degli esseri umani, cioè nel senso di potenzialità di apprendimento permanente - lifelong learning. […] Metodo necessario allo sviluppo umano, individuale e collettivo, e che considera lo sviluppo della potenzialità apprenditiva e delle competenze di secondo livello, strategiche e riflessive, in particolare quella dell’apprendere ad apprendere, come motore, energia umana necessaria alle trasformazioni sociali, economiche, culturali, nelle moderne società complesse».

21 Programma Istruzione e formazione 2010. L’urgenza delle riforme per la riuscita della Strategia di Lisbona, Bruxelles, 3 marzo 2004.

(24)

17 incoraggiare l’uso delle varie opportunità di formazione professionale nell’ambito dell’apprendimento permanente, e mira a contribuire al raggiungimento degli

obiettivi relativi all’istruzione della strategia Europa 202023.

Per favorire l’integrazione tra i sistemi di Istruzione e Formazione Professionali nazionali e per aumentare la mobilità di lavoratori tra Paesi, è stato varato l’ECVET (European Certification of Vocational Education and Training), un sistema di certificazione standardizzata delle competenze professionali, che non sostituisce i sistemi nazionali, ma punta a favorirne la progressiva integrazione.

1.3.2. Il punto di vista internazionale

L’attenzione politica e didattica verso la cosiddetta work-based learning, ovvero l’istruzione e formazione basata sul lavoro, è particolarmente cresciuta durante la crisi economica. In particolare le istituzioni internazionali, studiando le strade per uscire dal labirinto della crisi economica internazionale, hanno sancito che è necessario «investire nella formazione professionale e nei contratti di apprendistato

per ristabilire la corretta transizione tra scuola e mondo del lavoro».24

Nel rapporto dell’International Labour Organization (ILO), edito nel 2013 e dedicato alle tendenze dell’occupazione giovanile, si sostiene che:

«L’esperienza di lavoro è particolarmente apprezzata dalle aziende e l’assenza di questo tipo di esperienze è il principale ostacolo per il giovane che cerca lavoro. Molti giovani sono così intrappolati in un circolo vizioso: non possono acquisire esperienze di lavoro perché non riescono ad ottenere un lavoro; e non ottengono un

lavoro perché non hanno esperienze pregresse».25

In tutto questo documento viene messa in rilievo la necessità di promuovere esperienze di lavoro tra i giovani già durante il periodo degli studi secondari, per prepararli alla transizione scuola-lavoro.

Non si tratta di un tema nuovo, infatti già nel 1997 il Consiglio europeo aveva fatto presente agli Stati membri quanto fosse importante:

23 Cooperazione rafforzata dell’Unione europea in materia di istruzione e formazione professionale,

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=uriserv:ef0018.

24 OECD, Tackling the Jobs Crisis. The Labour Market and Social Policy Response, Paris2009, p.

15.

25 ILO, Global Employment Trends for Youth 2013. A generation at risk, International Labour

(25)

18 «Suscitare nei giovani una maggiore capacità di adattamento ai mutamenti tecnologici ed economici e dotarli di qualifiche che corrispondono alle esigenze del mercato del lavoro, se del caso istituendo e sviluppando i sistemi di

apprendistato».26

È quindi un percorso almeno ventennale quello che ha guidato le principali istituzioni internazionali, e soprattutto l’Unione Europea, alla convinzione che la diffusione dell’alternanza scuola-lavoro, della formazione professionale e dell’apprendistato siano i principali strumenti per contrastare in maniera vincente la disoccupazione giovanile.

Riforme in tal senso sono state realizzate in diversi Paesi europei e l’elemento comune di questi interventi è il tentativo di valorizzazione dell’integrazione tra scuola, università e lavoro e, di conseguenza, l’ampliamento dello spazio destinato

alla formazione in alternanza.27

Relativamente all’occupazione giovanile, alla qualità del lavoro e alla produttività, in un contesto di promozione dell’alternanza scuola-lavoro, le istituzioni europee hanno affermato che essa:

«Da un lato incrementa l’occupabilità delle persone, aiuta a ridurre il disallineamento formativo e professionale e riduce i tempi di transizione dalla formazione al lavoro; dall’altro lato aiuta la crescita della persona e migliora la

qualità della vita».28

La diffusione di forme di apprendimento basato sul lavoro è al centro delle più recenti indicazioni europee in materia di istruzione e formazione. La riflessione europea sull’istruzione e formazione è, come si è detto, il capitolo centrale della più

ampia strategia di Lisbona ed è uno dei pilastri della strategia “Europa 2020”29, fin

dal suo lancio nel 2010per giungere poi al programma “Istruzione e Formazione

2020”30.

26 Consiglio Europeo straordinario sull’occupazione, Conclusioni della Presidenza, Lussemburgo,

20-21 novembre 1997.

27 AA.VV., Crisi economica e riforme del lavoro in Francia, Germania, Italia e Spagna, ADAPT

University Press, Modena 2014.

28 Riga Conclusions 2015 on a new set of medium-term deliverables in the field of VET for the period 2015-2020, as a result of the review of short-term deliverables defined in the 2010 Bruges Communiquè, Riga 22 June 2015, p. 1.

29 Comunicazione della Commissione, Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, COM (2010) 2020 def., Bruxelles, 3 marzo 2010.

30 Conclusioni del Consiglio europeo del 12 maggio 2009, su un quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (“ET 2020”), 2009/C 119/02.

(26)

19 Poiché si prevede che la domanda di abilità e competenze di livello superiore nel 2020 crescerà ulteriormente, i sistemi di istruzione devono impegnarsi ad innalzare gli standard di qualità e il livello dei risultati di apprendimento per rispondere adeguatamente al bisogno di competenze e consentire ai giovani di inserirsi con

successo nel mondo del lavoro31.

È in tal senso che l’alternanza formativa diventa una metodologia pedagogica non solo possibile, ma addirittura necessaria in ogni processo educativo che ambisca alla crescita integrale della persona e quindi ad una sua occupabilità. L’alternanza «come principio educativo […] pone in evidenza lo stretto rapporto tra agire e apprendere: l’azione e il sapere si generano a vicenda, divenendo l’uno il principio

dell’altro, l’azione produce a sua volta risorse per generare e gestire l’azione».32

L’alternanza appare quindi come un metodo educativo inevitabile se si considera come peculiare momento di congiunzione tra nozioni teoriche ed esperienze pratiche, potendo così giungere ad una conoscenza piena in tal senso. Più propriamente, piuttosto che alternanza, si potrebbe definirla “integrazione”, superando anche l’ultimo residuo di distanza nel significato del termine italiano

rispetto al modello tedesco33: integrazione tra teoria e pratica, quindi integrazione

tra formazione e lavoro all’interno dei processi scolastici e formativi.

Le istituzioni internazionali, infatti, individuano nel modello tedesco del sistema duale il principale strumento di contrasto alla disoccupazione giovanile, perché permette un dialogo continuo e costante con il mondo del lavoro.

31 E. Massagli, Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, ed. Studium, Roma, 2016. 32 P.C. Rivoltella – P.C. Rossi, L’agire didattico. Manuale per l’insegnante, La scuola, Brescia

2012, ed. digitale, citando F. Methan – C.Ronveaux – S. Vanhulle, Alternance en formation, De Boeck, Bruxelles 2007.

33 «Il termine stesso che viene utilizzato in italiano è fuorviante: alternare scuola e lavoro non è

difficile, basta organizzare tirocini. Quello che accade in Germania è invece una forma di integrazione tra scuola e lavoro di ben maggiore complessità». G. Ballarino, D. Checchi, La

Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione formazione in un’economia di mercato coordinata, in «Rivista di Politica Economica», 2013, n. 1, p. 47.

(27)
(28)

21

CAPITOLO 2.

LA GERMANIA: DALLA SCUOLA AL LAVORO CON UN

PERCORSO DUALE

Con l’aggravarsi della crisi economica e di conseguenza col peggioramento delle

condizioni di occupazione34, la riflessione internazionale si è concentrata sulla

necessità di perseguire uno sviluppo occupazionale e sociale basato sull’integrazione tra politiche e attori istituzionali diversi.

Anche in Italia sono stati portati avanti una serie di interventi in materia di politiche attive, indirizzati in particolare ai giovani, i quali, come abbiamo spiegato nel capitolo precedente, rappresentano la componente della popolazione con maggiori

difficoltà di inserimento lavorativo. La maggior parte delle iniziative nazionali35

infatti è stata volta ad affrontare la questione della transizione verso il mondo del lavoro e si è posta l’obiettivo di migliorare l’occupabilità dei giovani, fornendo loro le skills concretamente richieste dal mondo produttivo.

Diviene pertanto fondamentale conoscere e condividere le esperienze realizzate a livello europeo, così da poter avere un metro di paragone sulle politiche rivolte ai giovani e sull’efficacia degli strumenti di promozione dell’occupazione. In particolare la Germania può essere presa come punto di riferimento per le riforme economiche e sociali rese necessarie dalla crisi e principalmente per quanto riguarda la scuola e il rapporto tra istruzione e mercato del lavoro.

34 Come emerge in un articolo dell’Eurostat, Conti nazionali e PIL - Statistics Explained - European Commission, infatti: «Le conseguenze della crisi economica e finanziaria hanno inciso pesantemente

sui risultati globali delle economie degli Stati membri dell'UE se osservati sull'intero arco dell'ultimo decennio. I tassi di crescita medi annui dell'UE-28 e dell'area dell'euro dell’ultimo decennio sono stati rispettivamente pari allo 0,9 % e allo 0,7 %», http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/National_accounts_and_GDP/it.

35 Tra le iniziative ci sono: la riforma del sistema del collocamento, del sistema di istruzione e

(29)

22

2.1. Il contesto storico di riferimento

Il processo di industrializzazione non ha prodotto in Europa un modello uniforme di istruzione e formazione. Evidenti differenze esistono tuttora tra i sistemi

formativi europei36 e tali difformità derivano da peculiarità storiche, legislative,

culturali, politiche, istituzionali e di principi pedagogici diffusi, che inevitabilmente permeano ogni sistema educativo e formativo, che è il risultato più o meno

involontario dell’amalgama di questi ingredienti.37

Difatti alle origini del sistema di istruzione e formazione tedesco ci sono le particolari condizioni in cui ha avuto luogo il processo di industrializzazione in Germania: uno stato autoritario, politicamente non liberale, che tuttavia si impegna attivamente nella promozione di un sistema industriale moderno, nella creazione di un’economia di mercato e di istituzioni sociali che favoriscano tutto ciò. Questo è il contesto storico, economico e politico che sta dietro alle grandi riforme istituzionali della Germania ottocentesca, dalla scolarizzazione di massa allo sviluppo del sistema universitario in Prussia, fino alle riforme sociali dell’epoca

bismarckiana38.

In tali condizioni nasce il sistema duale tedesco, che ha origine con la

Handwerkgesetz del 1897, la legge che creò un insieme di associazioni

imprenditoriali definite Handwerkskammern, letteralmente “camere

dell’artigianato”. Queste istituzioni, volute dallo Stato, ma gestite e sostenute dagli imprenditori e ben diffuse sul territorio, avrebbero dovuto rinforzare il tessuto di medie e piccole imprese di livello tecnologico medio-alto, consentendo loro di competere al meglio contro le grandi imprese: il governo temeva infatti che lo sviluppo delle grandi imprese industriali avrebbe portato al rafforzamento dei

36 Per approfondimenti sulla dimensione europea dell’educazione e sui differenti sistemi educativi

europei in base alla loro significatività geografica e istituzionale si veda: Eurydice Italia, Sistemi

scolastici europei, Bollettino di informazione internazionale, Roma, marzo 2012, http://www.indire.it/lucabas/lkmw_file/eurydice/BOLLETTINO_sistemi_scolastici_UE_2012_fin ale_x_web.pdf.

37 T. Deissinger, R. Heine, M. Ott, The dominance of apprenticeships in the German VET system and its implications for Europeanisation – A comparative view in the context of the EQF and the European LLL strategy, in «Journal of Vocational Education and Training», 2011, n.3, pp. 397-416;

D. Raffe, Conclusion: Where are pathways going? – Conceptual and methodological lessons from

the Pathways study in OECD, Pathways and participation in vocational and technical education and training, OECD Publishing, Paris, 1998, pp. 375-394.

38 G. Ballarino, Istruzione, formazione professionale, transizione scuola-lavoro. Il caso italiano in prospettiva comparata, 2013, p. 17.

(30)

23 sindacati e del movimento operaio, cosa eventualmente poco gradita ad un regime autoritario quale quello tedesco.

Le Handwerkskammern sono sopravvissute fino all’avvento dell’industria moderna, nella quale si sono riqualificate e ben integrate, diventando il centro del sistema di istruzione e formazione professionale tedesco: esse difatti lo caratterizzano come sistema collettivista, mediando tra gli interessi dei diversi attori coinvolti e garantendone una gestione condivisa e consensuale.

Il sistema tedesco subì dei cambiamenti a partire dagli anni ’20, quando l'istruzione del Terzo Reich mirava ad indottrinare gli studenti e a trasmettere loro la visione

del mondo del Nazional Socialismo.Dopo il 1933 infatti il regime nazista aveva

eliminato dalle scuole pubbliche tutti gli insegnanti ebrei o quelli che venivano ritenuti "politicamente inaffidabili".

In questo periodo le scuole giocarono quindi un ruolo importante nel diffondere le

idee naziste tra la gioventù tedesca. Ad esempio la Gioventù Hitleriana,fondata nel

1926, aveva come scopo principale quello di addestrare i ragazzi e di prepararli al

servizio militare, all'inizio solo per l'esercito, ma in seguito anche per le SS.Appena

raggiungevano i diciotto anni, i ragazzi dovevano immediatamente arruolarsi nell'esercito o nel Corpo Ausiliari del Reich, per i quali le attività nella Gioventù

Hitleriana li avevano preparati39.

Dopo la resa incondizionata delle forze armate tedesche nel maggio del 1945, le

forze d'occupazione alleate obbligarono i giovani tedeschi a sottoporsi a un

processo di "denazificazione"40 e ad essere istruiti sui valori della democrazia. In

seguito alla guerra e alla fine del regime, nei Länder occidentali il sistema venne dunque democratizzato con l’ingresso dei rappresentanti dei lavoratori, ma ne venne preservato il carattere collettivista e cooperativo. Ciò influì naturalmente anche sul sistema di istruzione che tornò ad avere le caratteristiche di un tempo.

39 Per approfondimenti si veda: L’indottrinamento della gioventù, tratto da «L’enciclopedia

dell’olocausto», https://www.ushmm.org/wlc/it/article.php?ModuleId=10007820.

(31)

24 2.1.1. L’influenza del sistema di istruzione sull’economia in Germania

La tenuta economica e sociale della Germania di fronte alla crisi testimonia l’efficacia del sistema duale di formazione e, più in generale, dimostra come il sistema di istruzione tedesco sia capace di produrre competenze adeguate ad una struttura produttiva competitiva. Nel 2008, quando arriva la crisi, la crescita viene meno per tutti gli Stati, Germania compresa, ma quando la crescita ricomincia, la Germania parte con un ritmo decisamente diverso, e migliore, di quello degli altri

paesi europei. Diversamente che negli altri paesi, in Germania la crisi non ha

praticamente ridotto i livelli di occupazione41.

Il modello socio-economico tedesco si basa soprattutto sull’esportazione di prodotti ad alta intensità tecnologica e di alta qualità, la cui produzione deriva una forza lavoro qualificata e non conflittuale, ben retribuita e sostenuta in caso di disoccupazione. Gli studiosi si riferiscono a tale sistema come «via maestra» allo sviluppo industriale, contrapponendolo alla «scorciatoia» basata invece sulla compressione dei costi del lavoro, e per questo più esposta alle fluttuazioni del mercato e, soprattutto, alla concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione. Nel sistema tedesco, l’alta qualificazione dei lavoratori è dovuta alla loro formazione all’interno del sistema duale e la bassa conflittualità è garantita, oltre che dallo stesso sistema duale, anche da relazioni industriali cooperative, caratterizzate dall’estensione della contrattazione collettiva e dal coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori nella gestione di alcuni aspetti della vita aziendale42.

41 Come evidenziato dall’Eurostat, nell’articolo Statistiche dell’occupazione, «il tasso di

occupazione, ossia la quota degli occupati sulla popolazione in età lavorativa, è considerato un indicatore sociale fondamentale a fini di analisi nello studio delle dinamiche del mercato del lavoro […] Tra l'inizio della crisi economica e finanziaria e il 2014 (ultimi dati disponibili), i risultati dei singoli mercati del lavoro hanno presentato differenze significative. Sebbene il tasso di occupazione generale per l'UE-28 nel 2014 sia risultato di 0,8 punti percentuali inferiore a quello registrato nel 2009, i tassi di undici Stati membri hanno mostrato un aumento. […] ad esempio in Germania si sono osservati aumenti superiori a 3,0 punti percentuali», http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Employment_statistics/it.

42 Cfr. G. Ballarino, D. Checchi, La Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione formazione in un’economia di mercato coordinata, in «Rivista di Politica Economica»,

(32)

25

2.2. Il sistema d’istruzione e formazione in Germania: origini

normative

Il sistema scolastico tedesco è un settore cruciale per la vita del Paese ed è condizionato dalla struttura federale dello Stato. Tale sistema è strutturato in base all’articolo 7, comma 1, della Costituzione della Repubblica Federale (Grundgesetz), varata nel maggio 1949 ed estesa alla DDR nel 1990, che recita

testualmente: «L’intero sistema scolastico è soggetto al controllo dello Stato»43.

Le scuole tedesche sono dunque fortemente statalizzate, mentre le scuole private sono meno diffuse di quanto non avvenga nei principali Stati europei e sono anche poco frequentate. Sono dunque i governi dei singoli Länder a gestire la politica scolastica in ogni singola regione ed esiste un ministro dell’istruzione per ogni Land. Quindi i Länder hanno competenza legislativa esclusiva in materia di istruzione; il Governo Federale si occupa della strategia, dei livelli essenziali e delle

norme sulla formazione professionale che si svolge esternamente alla scuola44.

Per rendere completo il quadro normativo bisogna far riferimento ad alcune leggi principali:

- La legge sulla formazione professionale, Berufsbildungsgesetz – BBiG,

emanata il 14 agosto 1969 e riformata nel 2005 e nel 201345. È una

legge-quadro, emanata dal Governo Federale, che sistematizza la legislazione accumulatasi nel corso dei decenni. Proprio perché la costituzione tedesca prevede che la responsabilità dei sistemi di istruzione e formazione professionale e anche dell’università tocchi ai Länder, si crera una certa differenziazione locale relativamente all’organizzazione del sistema duale: la legge del 1969 ha l’obiettivo quindi di aumentare il grado di coordinamento nazionale, creando un Istituto Federale per la formazione professionale (Bundesinstitut für Berufliche Bildung, BiBB), a cui spetta la definizione dei percorsi formativi e dei diplomi previsti dal sistema, mentre ai Länder spetta la definizione del raccordo tra sistema duale e scuola.

43 «Das gesamte Schulwesen steht unter der Aufsicht des Staates», art. 7, comma 1 della Costituzione

della Repubblica Federale tedesca, www.istruzioneer.it/eu/doc/Il-sistema-scolastico-tedesco-Paola-Gnani.pdf.

44 K. Hoeckel, R. Schwartz, Learning for Jobs. OECD Reviews ok Vocational Education and Training, Germany, p. 10.

45 T. Lakies, A. Malottke, BBiG – Berufsbildungsgesetz. Kommentar für die Praxis, Bund Verlag, Frankfurt am Main, 2011.

(33)

26 Inoltre la BBiG ha lo scopo di permettere a tutti, indipendentemente dalla provenienza sociale o geografica, l’accesso alla formazione professionale,

nonché garantirne la qualità e l’autonomia46.

- La legge sull’artigianato, l’Handwerksordnung47, emanata il 28 dicembre

1965 e modificata nel 2005 nell’ambito della riforma della formazione professionale. Essa regola il rapporto contrattuale e formativo che si instaura tra il giovane e l’azienda che offre un posto di apprendistato per la

formazione.Da tener presente che nel sistema duale l’apprendista è a tutti

gli effetti un dipendente dell’azienda, e che la partecipazione delle aziende a tale sistema è interamente volontaria.

- Legge sulla promozione dell’istruzione e della formazione professionale (Berufsbildungsförderungsgesetz – BerBIFG) del 23 dicembre 1981,

modificata nel 200148.

2.2.1. Sistema tedesco di istruzione primaria

I bambini da 3 a 6 anni possono frequentare, in maniera facoltativa, la scuola materna (Kindergarten), una struttura generalmente non statale e solitamente a carattere confessionale, gestita da Chiese o da associazioni socio-assistenziali, a cui contribuiscono anche i genitori, nonostante siano previsti cospicui sussidi pubblici. In Germania l’istruzione obbligatoria è gratuita, inizia a 6 anni e l’intera durata è modificata a seconda della normativa dei singoli Länder.

All’età di 6 anni i bambini iniziano la loro istruzione primaria e sono ammessi alla scuola elementare (Grundschule), la quale dura quattro anni, cioè fino ai dieci anni

del bambino49. Nella scuola elementare vengono insegnate diverse discipline, quali

tedesco, matematica, scienze della terra, scienze della natura, arte, musica, educazione fisica, religione; a partire dalla terza classe, ma in alcune regioni anche

46 U. Hippach, Schneider, K. A. Hensen, VET in Europe – Country Report Germany, 9th edition,

November 2011, Cedefop Refernet, BIBB, Bonn, 2012, p. 34.

47 G. Honig, M. Knörr, Handwerksordnung (HwO), Kommentar. Mit Berufsbildungsrecht, Beck

Juristischer Verlag, München, 2008.

48 Eurydice Italia, Il sistema scuola – lavoro in Germania, Firenze, 2012, p.2.

49 Eccetto che nei Länder di Berlino e Brandeburgo, dove dura due anni in più. Si veda: Eurydice

Italia, Sistemi scolastici europei, Bollettino di informazione internazionale, Roma, marzo 2012, p. 22.

(34)

27 dalla prima, viene impartito anche lo studio di una lingua straniera, solitamente l’inglese.

Al termine della scuola elementare non sono previsti esami, ma sulla base delle capacità e delle competenze dimostrate durante il primo ciclo, sarà lo stesso sistema scolastico tedesco, in accordo con i genitori, ad indirizzare ciascun allievo al tipo di scuola successivo. Ciò non toglie che l’alunno, o meglio la famiglia, possa scegliere un indirizzo differente o addirittura di ordine superiore rispetto a quanto consigliato, ma in tal caso lo studente è obbligato a sostenere e a superare un esame

di ammissione alla nuova scuola50.

2.2.2. Sistema tedesco di istruzione secondaria, inferiore e superiore

Come appena detto, la scelta sull’indirizzo scolastico da intraprendere viene compiuta in età molto precoce, essa però è modificabile fino all’età di 12 anni, perché il primo biennio della scuola secondaria è uguale per tutti gli indirizzi e ha

una funzione prettamente orientativa51, in cui le differenze tra i diversi tipi di scuole

sono ancora ridotte e serve quindi per aiutare gli studenti a trovare la strada giusta. Tra le scuole secondarie di primo grado si può scegliere tra la Hauptschule, la

Realschule e il Gymnasium, più la scuola comprensiva Gesamtschule, esaminiamole nel dettaglio:

- La Hauptschule dura cinque anni (o sei anni a seconda dei vari Länder) ed è una scuola media ad orientamento professionale, che si pone l’obiettivo di stimolare l’apprendimento teorico, ma soprattutto le abilità pratiche degli alunni. Al termine di tale percorso gli studenti conseguono il cosiddetto

Hauptschulabschluss, che permette loro di entrare nella formazione

secondaria superiore, Berufsschule. La Berufsschule, come vedremo meglio più avanti, è dunque una scuola di perfezionamento professionale, svolta per 3 anni in alternanza. Lo scopo di questo percorso è l’effettivo insegnamento di un mestiere lavorando e studiando, attraverso un apprendistato (Lehre). Questi tre anni si sviluppano dunque alternando orizzontalmente la frequenza della scuola (generalmente per due giorni alla settimana) al lavoro

50 Le modalità di cambiamento dei percorsi scolastici degli allievi presentano varianti regionali, a

seconda delle diverse normative presenti nei vari Länder.

(35)

28 presso aziende/imprese/officine (nei restanti giorni), dove sono seguiti da

tutor che operano in collegamento con le scuole52.

Queste attività, che sono sia pratiche che formative, prevedono che gli studenti percepiscano, oltre la copertura assicurativa e contributiva, anche una retribuzione, anche se sensibilmente inferiore a quella dei dipendenti non apprendisti. Il periodo di apprendistato termina con un esame (Ausbildungsabschlußprüfung), strutturato secondo standard generali validi a livello nazionale, che permette allo studente di acquisire il titolo di “operaio o artigiano specializzato” (nell’industria o nell’artigianato) o di

“assistente commerciale” (nel commercio)53.

- La Realschule dura sei anni e prevede che alla formazione teorica tradizionale si aggiungano gli insegnamenti professionali, oltre che una buona conoscenza delle lingue straniere, poiché è previsto anche lo studio di una seconda lingua straniera. L’esame conclusivo della Realschule è chiamato Mittlere Reife, è una sorta di maturità intermedia, alla quale segue, ed è necessaria per terminare il periodo di obbligo scolastico, la

Fachoberschule, una scuola tecnica superiore della durata di due anni. Essa,

come si dirà più nel dettaglio in seguito, prevede un periodo di specializzazione tecnica verso una determinata attività professionale, in cui è possibile acquisire competenze spendibili sul mercato del lavoro in ambito tecnologico, economico, amministrativo, delle scienze dell’alimentazione o delle scienze sociali. Ciò però, al contrario di quanto avviene nella

Berufsschule, è reso possibile non tramite il contratto di apprendistato, ma

attraverso dei tirocini curriculari.

- Il Gymnasium, che corrisponde ai licei italiani, dura otto o nove anni a seconda dei vari Länder. I primi sei anni fanno parte della scuola secondaria

52 Quando la scuola non riesce ad ottenere una disponibilità di posti di lavoro/formazione in

apprendistato per tutti gli studenti, allora è possibile frequentare la Berufsschule a tempo pieno. Per rendere più formativa questa ipotesi, nel 2005 il Land Nordrhein-Westfalen ha strutturato il progetto «Werkstattjahr» destinato ai giovani che non seguono un percorso di apprendistato, i quali per due giorni alla settimana frequentano il proprio istituto professionale; altri due giorni li trascorrono in un laboratorio di formazione del settore artigianale, industriale o delle camere di commercio; l’ultimo giorno è caratterizzato dal tirocinio in azienda. Si veda: Indire, Alternanza in Germania.

Dibattiti in corso, www.indire.it.

53 Questo sistema, che intreccia per un lungo periodo la formazione teorica e la formazione pratica

e gode di notevole apprezzamento anche al di fuori della Germania, viene chiamato “Sistema duale”,

Il sistema scolastico tedesco,

Riferimenti

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