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Il contratto di appalto: un esempio

Un esempio concreto di come la predominanza di questo orientamento giurisprudenziale avrebbe dunque contribuito a determinare34 un clima concettuale favorevole alla elaborazione di discipline contrattuali in cui il solo esercizio del potere direttivo sarebbe da solo in grado di fondare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza di tutti gli altri criteri che tradizionalmente legano un soggetto al suo datore di lavoro, si rinviene nell’analisi dell’appalto di servizi disciplinato dall'art. 29 d.lgs 276/03.

La norma in parola, al primo comma, prevede infatti che l'appalto si caratterizzi "per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può

anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa".

Poniamo quindi il caso di un lavoratore assunto da un'impresa appaltatrice: egli viene inviato presso l'azienda committente per eseguire il servizio oggetto dell'appalto e, secondo il legislatore del 2003, affinché l'appalto sia lecito basta, al limite, solo che detto lavoratore sia sottoposto al potere direttivo ed organizzativo dell'appaltatore.

Il d.lgs. in pratica equipara la presenza di un dato materiale (l'organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore) all'esercizio di un potere giuridico. In questo modo legittima le forme di appalto in cui i lavoratori sono inseriti in una struttura ove utilizzano macchinari, impianti e strumenti di lavoro del committente, rispettano verosimilmente gli orari ed il codice disciplinare della struttura ove sono inseriti, lavorano magari fianco a fianco con i

dipendenti del committente, e contribuiscono alla realizzazione del prodotto di ques’ultimo ma, il solo fatto di ricevere, magari una sola volta, una generica direttiva sullo svolgimento del loro lavoro, impedisce di catalogare gli appaltati come dipendenti del committente. Si ha, quindi, una chiara scissione del dato formale da quello sostanziale, al limite suscettibile di realizzare la c.d. “impresa senza dipendenti”.

Emerge dal tenore di queste parole una connotazione valutativa negativa del fenomeno descritto: la dissociazione tra il dato sostanziale e quello formale è sridente; il solo sercizio di un potere giuridico viene equiparato alla organizzazione di mezzi da parted ell’imprenditore.

Inoltre, nel caso dell'appalto di servizio disciplinato dall’ordinamento italiano, ai lavoratori appaltati è applicato il CCNL dell'impresa appaltatrice, e non quello in vigore presso il committente, essendo formalmente questi lavoratori dipendenti dell'appaltatore. Questo, per quanto riguarda l'ordinamento Italiano è causa di discriminazione tra lavoratori che, pure contribuendo di fatto all'attività della medesima azienda, si vedono applicare trattamenti normativi e retributivi nettamente diversi (per non dire inferiori) rispetto a quelli in vigore per i dipendenti interni all'azienda committente. Oltretutto nella pratica si verificano35

35 Sul punto si veda per esempio l'indagine condotta dalla trasmissione giornalistica di approfondimento RAI "Report". Nel 2006 è stata condotta dalla testata un'inchiesta sul fenomeno del ricorso a pratiche di esternalizzazione di lavoratori presso alcuni ospedali romani e italiani in genere, "cioè di appaltare a cooperative e ditte l’acquisto di ore di lavoro per sopperire a carenze di personale assunto direttamente dalla azienda stessa. Questo fenomeno comporta la precarizzazione del lavoro e dei lavoratori (buste paghe più basse rispetto ai lavoratori cosiddetti strutturati, contributi pagati per metà nel caso di lavoratori di cooperative, ridotte tutele, ecc.). Questa tesi, contestata allora dall’assessore alla Sanità della Regione Lazio, viene oggi – 2009 – acquisita come valida dall’Amministrazione Regionale. L’aggiornamento fa il punto della situazione a distanza di 3 anni" e descrive come a seguito di proteste sindacali e ricorsi giudiziali, l'azienda sanitaria coinvolta abbia finalmente riscontrato l'illegittimità dell'appalto intercorso per la somministrazione degli infermieri, la maggiore onerosità degli appalti rispetto all'assunzione in proprio del personale, (con profili penali di abuso d'ufficio e corruzione da parte degli assessori regionali coinvolti) e

normalmente situazioni in cui, di fatto, il potere direttivo, ovvero l'unica àncora di liceità dell'appalto, viene in concreto esercitato dalla committente proprio per il fatto che, come detto sopra, un lavoratore che per contratto si trova inserito in tutto e per tutto in un contesto aziendale alieno non può essere verosimilmente estraneo all'ambiente che lo circonda. Non è verosimilmente pensabile infatti che il lavoratore appaltato sia immune da ingerenze dell'utilizzatore.

La forma quindi segue la sostanza in tutti gli aspetti del rapporto, tranne che per quello più rilevante per il lavoratore, ovvero la stabilizzazione del rapporto presso l'effettivo utilizzatore.

Ci si chiede, a questo punto, se sussiste quindi un legame tra l'avvento di questa giurisprudenza dell'etero-direzione e l'incremento delle forme di appalto?

Prima del d.lgs 276/03, la giurisprudenza non aveva, invero, spunti di differente avviso36: anche in passato, sussisteva la subordinazione del lavoratore abbia quindi siglato un protocollo d'intesa per l'assunzione diretta degli infermieri senza più ricorrere all'appalto -http://www.report.rai.it/R2_popup_articolofoglia/0,7246,243%255E1086818,00.html.

36 Cassazione civile, sez. lav., 07 settembre 1993, n. 9398: "Ai fini di valutare la legittimità dell'appalto di manodopera il giudice può tener conto - oltre che dell'utilizzazione di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante - anche delle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa che manifestino la sussistenza di un rapporto di subordinazione diretta con il committente"; Tribunale Roma, 04 marzo 1996:"Sono indici rivelatori di un appalto di mere prestazioni di lavoro, vietato dall'art. 1 l. 23 ottobre 1960 n. 1369, lo svolgimento delle mansioni secondo modalità rivelatrici di un vincolo di subordinazione diretta tra prestatore e appaltante, nonché l'eccedenza delle prestazioni lavorative rispetto a quelle dedotte nel contratto di appalto e l'intraneità delle prime al ciclo produttivo dell'impresa appaltante, nell'ambito di un rapporto di intromissione stretta e necessaria."; Pretura Bergamo, 23 maggio 1995: "Va esclusa la configurazione di un contratto di appalto e va, invece, ritenuto sussistente un rapporto di lavoro subordinato quando, unitamente ad altri prevalenti elementi indiziari in tal senso (coincidenza dell'iscrizione nell'albo artigiani con l'inizio del rapporto "de quo"; emissione di fatture solo a nome di quel contraente il quale forniva anche materiali, macchinari e attrezzature diverse; sottoposizione a controllo con le stesse modalità previste per gli altri lavoratori), l'affidamento delle mansioni ha permesso all'imprenditore di dislocare in altre attività operai che, diversamente, sarebbero stati impegnati anche all'espletamento delle suddette mansioni; con ciò realizzando un inserimento organico del lavoratore nell'impresa."

all’appaltatore, l’appalto era genuino. Se invece vi era etero-direzione da parte del committente sui lavoratori appaltati, allora l’appalto era fraudolento.

Si avanzano pertanto dubbi sulla imputabilità del mutato orientamento giurisprudenziale al novero dei fattori che hanno determinato l'incremento delle esternalizzazioni: in effetti, può anche sostenersi che le teorie giurisprudenziali non abbiano facilitato il fenomeno, ma si siano limitate a descrivere una mutata realtà di fatto, interpretando le intervenute modifiche legislative senza comunque discostarsi dai tradizionali sentieri percorsi per identificare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Anche prima della legge Biagi l’elemento cardine della presenza di un rapporto di lavoro subordinato era la sussistenza del potere direttivo.

E’ pero’ vero che, con la legge Biagi, il legislatore ha inteso donare a questo potere una importanza tale da superare, nella scala dei valori, la valenza di tutti gli altri indici della subordinazione, rendendo questo unico criterio l’elemento idoneo e sufficiente a fondare la sussistenza della subordinazione, anche in presenza di elementi materiali che depongono magari in senso contrario.

L’appalto potrà essere legittimo, quindi, anche nel caso in cui il lavoratore sia inserito nell’azienda del committente, osservi l’orario di lavoro di questa, utilizzi i suoi macchinari e i suoi mezzi: basta solo che vi sia un soggetto riferibile all’appaltante che diriga questo lavoratore.

Però, è forse auspicabile che vi sia una revisione di questo atteggiamento, revisione che consideri fattori diversi per la ricognizione della subordinazione e la sussistenza di un rapporto di lavoro, come previsto per esempio dalla R. 198/2006 ILO (vedi capitolo 5).

Valorizzare meccanismi di tal genere potrebbe portare a valutare differentemente le situazioni sopra richiamante, in modo da conferire la possibilità a lavoratori appaltati, che di fatto hanno diritto a determinate prerogative, di goderne effettivamente e non esserne privati per considerazioni meramente formali.

Trattare situazioni sostanzialmente uguali in modo differente viola infatti il principio di eguaglianza stabilito dall’articolo 3 della Costituzione Italiana: il lavoratore appaltato che di fatto svolge un ruolo speculare a quello interno all’azienda non gode dell’applicazione del medesimo contratto collettivo del committente, e ciò solo per la presenza di un potere di etero-direzione esercitato nei suoi confronti da parte dell’appaltatore.