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LA RICERCA EMPIRICA

4.2.4 RETI SOCIALI

4.2.5.2 IL CONTRATTO DI LAVORO

Parlare di contratto di lavoro significa parlare di diritti e i doveri. Carotti, a proposito di diritti, fa alcune critiche al tipo di contratto applicato alla categoria “badanti” (di cui abbiamo già parlato nel capitolo precedente) dicendo: “[…] gli hanno applicato il contratto del commercio e delle colf… io penso che le persone che fanno le pulizie facciano qualcosa di diverso da colui che accudisce una persona, credo che siano due cose totalmente diverse, per responsabilità, per fatica, non solo fisica, ma psicologica […] la paga di queste donne che il contratto prevede di 647 euro mensili lordi, perché loro alla fine dell’anno devono pagare le

tasse (una fetta di contributi che sono extra vanno pagati da loro), alla fine sono, netti, 600 euro scarsi, per un orario settimanale che è di 54 ore”42.

Oltre a ciò si aggiunge l’esistenza di un forte divario di potere contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro, soprattutto agli inizi. A questo proposito Toniolo Piva dice: “è forte la demarcazione tra lavoratori retribuiti e curanti informali, tanto più evidente quando i curanti informali sono anche datori di lavoro di quelli retribuiti”43. All’interno della casa esiste una reale difficoltà a rapportarsi gli uni agli altri, non solo da un punto di vista relazionale, ma prima di tutto di definizione di competenze, ruoli, orari di lavoro. Questo emerge da alcune dichiarazioni delle lavoratrici. Sarah, cingalese, dice:

[…] quando ho imparato l’italiano io dicevo “So la legge, e come è s critto nel contratto io non lavoro (durante le feste); se voi volete tenermi, tenetemi, sennò io vado via”. Invece nei primi tempi no, ho lavorato anche a Natale […].

L’esperienza di Sarah è segnata da un prima e un dopo: un prima quando non conosceva la lingua, i propri diritti e i propri doveri, e un dopo in cui, potendo esprimersi e conoscendo le leggi, ha potuto far valere i propri diritti di lavoratrice. Lei stessa afferma:

Prima non conoscevo quello che dovevo fare, non conoscevo la lingua, non sapevo come erano le leggi. Adesso so quello che devo fare, ti spiegano quello che devi fare, sai le leggi, conosci le cose, se c’è qualcosa che non va bene lo dici, se non va bene così dico che me ne vado via.

Il fatto di aver costruito un buon rapporto col datore di lavoro e provare soddisfazione per l’attività svolta, ha portato Sarah a migliorare:

Sono sempre migliorata, ho imparato a lavorare, come sono le persone… se hai voglia di lavorare, buona volontà, ti trovi bene. Io quello che non va lo dico subito.

Simile è il racconto di Natascia, moldava:

Adesso ho un po’ più di coraggio e quando vado a cercare lavoro mi sento più libera e dico: “Se mi volete prendere a queste condizioni, bene, se no io vado da un’altra parte” ma una volta non era così. All’in izio, quando non sapevo parlare l’italiano, facevo tutto quello che volevano. Adesso per me non è più così, ma tante altre persone sono sottomesse, fanno tutto quello che vogliono, le sfruttano, se sono donne che vengono qui da sole. Non conoscono i loro diritti, il contratto, se sono clandestine devono lavorare di continuo e non possono dire niente perché sennò gli dicono: “Vai via che tanto ne troviamo subito un’altra”. E allora cosa fai? Non puoi fare niente, perché hai bisogno di lavorare. Se sono come me ti ribelli, ma ce ne sono poche come me, la maggior parte stanno zitte, magari non hanno il coraggio di parlare, o sono timide. Io ho il coraggio anche perché adesso conosco la lingua e sono qua con mio marito, ma quelle da sole non possono. Cosa fanno?

42 Vicenza, 2003.

Bimbi a questo proposito ricorda che queste donne sono in grado di pretendere un salario come un proprio diritto, molto di più rispetto alle balie in passato44.

Se il diritto a un salario adeguato è il primo diritto che esse chiedono, in seguito esigono anche “diritti di cittadinanza e non benevolenza”, ciò che certamente non avveniva per le nostre balie. Bimbi continua dicendo che “è difficile pensare, oggi, che la cittadinanza valga solo per noi; la cittadinanza intesa come diritti sociali, per esempio il salario, la dignità della lavoratrice e del lavoratore riguarda anche chi non ha la cittadinanza politica”. Questo però è forse ciò che le politiche migratorie contemporanee non hanno ben compreso, considerando l’immigrato prima di tutto come lavoratore, e poi come cittadino.

La conoscenza della lingua, l’acquisizione di competenze attraverso l’esperienza, la pratica di regolarizzazione in corso, la possibilità di avere i familiari con sé, danno più potere contrattuale alla donna che va alla ricerca di un lavoro come assistente. D’altra parte la clandestinità e l’ignoranza della cultura locale sono gli ingredienti per una situazione di sfruttamento.

4.2.5.3 L’INCONTRO DOMANDA -OFFERTA DI LAVORO

Finora abbiamo parlato del percorso lavorativo, e del contenuto del lavoro di cura, ma non si è trattato di come queste signore trovino il lavoro. I canali sono generalmente informali, passano attraverso conoscenti, amici, associazioni, e così via. Decisivo è il ruolo assunto in questa circostanza dal “capitale soc iale” che la persona ha, cioè la “rete di relazioni personali direttamente mobilitabili”45. Questa “rete di relazioni” non è altro che un insieme di potenziali risorse che l’individuo può utilizzare per i propri scopi, nel nostro caso per la ricerca di lavoro. Le reti di relazioni, nel senso più ampio, sono usate come intermediarie tra famiglie che ricercano personale di assistenza e aspiranti lavoratrici. Gori parla di tre canali preferenziali per fare questo: il primo è costituito da parenti, amici, conoscenti, mobilitabili sia da parte della famiglia italiana che da quella della lavoratrice46. Anastasia, ucraina, afferma:

[…] le prime persone che sono arrivate e che conoscevo un poco mi hanno promesso che quando si sistemavano mi aiutavano a venire.

Josephina, peruviana, dice a questo proposito dei suoi zii:

[…] se non ci fossero stati loro sarei tornata a casa. Sì, sì, mi hanno aiutato loro, senno veramente me ne andavo a casa.

44 Vicenza, 2003.

45 Bordieu, 1980.

Il secondo canale preferenziale è costituito da associazioni di volontariato e parrocchie. Io stessa ho assistito all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro: ragazze straniere, molto giovani, davano la propria disponibilità a lavorare come assistenti ad anziani a due signore che stavano cercando qualcuno che si occupasse di due loro parenti. Natascia, moldava, dice:

Ci sono solo questi posti della Caritas (l’intervista è effettuata all’opera San

Vincenzo), così…che ti aiutano.

Constance, Marocchina, afferma:

[…] sono andata alla Davas perché la signora è un’amica di mio cugino, e lì ho trovato lavoro […].

Gori parla di un terzo canale preferenziale di cui noi abbiamo già parlato, che consiste nella rete di conoscenze che i lavoratori di cura hanno, perché soprattutto nel caso in cui un caregiver sostituisce un altro è probabile che i due già si conoscano, che esista un passaparola. Non bisogna dimenticare che esistono anche intermediari illeciti, che si fanno pagare profumatamente per cercare lavoro a queste donne appena arrivate in Italia ed è in queste situazioni che si verificano casi di sfruttamento e di forte indebitamento.

Ecco le testimonianze riguardanti la ricerca di lavoro di Magdalena, polacca:

[…] quando al lavoro c’è qualche famiglia che ha bisogno (l’agenzia polacca) chiama […],

e Irina, ucraina:

Un’agenzia italian a mi ha trovato lavoro in Sicilia come badante in una famiglia […] ho dovuto pagare i soldi all’agenzia perché mi ha trovato il lavoro.

Il problema, secondo Toniolo Piva, è dato dal fatto che la figura della collaboratrice domestica, e possiamo dire dell’ assistente familiare, non sono tra i profili lavorativi che possono passare attraverso le agenzie interinali, che dovrebbero appunto fare da intermediarie tra domanda e offerta. Di qui emerge la necessità di trovare altri canali che si pongano come punto di incontro tra le richieste delle lavoratrici e dei datori di lavoro, anche se a questo punto sorge il problema di chi e quanto far pagare per l’intermediazione. Ho incontrato personalmente molte donne alla ricerca di lavoro presso Caritas e San Vincenzo, i cui operatori sono volontari. Ho incontrato poi, come accennato in precedenza, i responsabili della Davas di Verona, i cui associati versano una quota associativa ogni anno, e della Nuova Fides di Verona, che richiede un contributo al datore di lavoro. Questi sono solo alcuni degli enti che, in modi diversi, svolgono attività di intermediazione e ai quali si sono rivolte alcune delle assistenti intervistate. Le altre sono passate invece attraverso canali più informali, attraverso amiche o parenti che lavoravano già qui (ne abbiamo parlato analizzando i percorsi di arrivo). Anastasia, ucraina, racconta:

[…] una mia amica che si era già spostata qua verso Vicenza, mi ha trovato un posto di lavoro in questa famiglia.

Shashila, cingalese, dice:

Sono venuta qua, c’era una mia amica qua a Verona, e qua sono stata tanto bene, più della Sicilia.

Magdalena, polacca, afferma:

[…] la mia amica lavorava in quella famiglia, tre mesi, a casa, e dopo sono venuta io.

Rita Mazzi, assistente sociale, interpellata a tale proposito, parla di tam tam tra donne che, soprattutto per le europee, sembra funzionare molto bene perché si stabiliscono delle vere e proprie catene migratorie47.

4.2.6 SOLUZIONE ABITATIVA

Risolvere il problema della casa, avere cioè un posto dove andare a dormire la sera, è il primo bisogno fondamentale che una persona deve soddisfare dopo quello di nutrirsi. Come già accennato nel primo capitolo, una soluzione a questo problema, per una donna che giunge sola in Italia, può essere quella di trovare un lavoro che le offra vitto e alloggio. Il lavoro di badante sembra soddisfare in pieno questa esigenza, almeno per il primo periodo di permanenza nel nostro Paese. Questo è ciò che emerge dai racconti delle intervistate. Mirela, rumena, dice:

Per me è difficile adesso trovarmi una casa, con le spese che ho poi anche per il bambino, per la scuola (vive col figlio e la signora che assiste)…non potrei andare subito a vivere da sola…non si può.

Shashila, cingalese, afferma:

Ho abitato sempre lì con mio marito (in casa della signora che assisteva) […] Io ho lavorato cinque anni senza affitto perché pagava la signora, allora la bolletta la pagava la signora, il telefono lo pagava la signora, anche i figli portavano sempre il latte fresco […].

L’opportunità di vivere in casa con l’assistito, almeno per un certo periodo, costituisce un notevole risparmio, soprattutto se le condizioni economiche dello straniero sono precarie, a causa per esempio delle spese di viaggio o dei debiti da saldare. Adisha, cingalese, infatti dice:

[…] se i miei figli fossero stati al mio Paese, io sarei potuta stare qua e risparmiare e stare in una famiglia, così non dovevo pagare l’affitto e potevo mandare giù i soldi per i miei figli […];

ma ha dovuto rinunciare a questa possibilità:

[…] ho pensato che io sono senza marito, e che i miei figli hanno bisogno dell’amore, senza l’amore di papà e di mamma come fanno se poi quando diventano grandi sono senza amore...loro sono la mia vita, quindi ho pensato che è importante che vivano con me.

Infatti, per le donne che lasciano il proprio Paese per andare a lavorare all’estero diventa difficile gestire la famiglia, soprattutto se questa rimane in patria. Per alcune di loro c’è l’opportunità, come ad esempio per Mirela o Shashila, di vivere con i pro pri congiunti in casa della persona assistita, anche se questo avviene in pochi casi, soprattutto se si hanno solo i figli con sé. Altrimenti, se sono fortunate ad avere parenti in Italia, possono vivere con loro, risparmiando sulle spese fisse, in considerazione del fatto che comunque trascorrono la maggior parte della loro giornata fuori casa per lavoro. Ghita, cingalese, dice:

[…] noi abbiamo il lavoro qua, ma bisogna pagare l’affitto, il mangiare…sono necessari tanti soldi […].

Carmen, peruviana, abita con l’anziana che assiste ma nei fine settimana, durante il suo turno di riposo, va a casa della sorella. Adesso però vuol far venire il figlio in Italia e per questo sta cercando casa e un nuovo lavoro a ore che le permetta di conciliare i tempi del lavoro coi tempi per la famiglia:

[…] sei più libero, allora io (per esempio) lavoro quattro ore, poi guardavo mio figlio, poi la sera me ne andavo a lavorare, lasciavo mio figlio, per quello io cercavo appartamento. Se io cerco appartamento allora sto tranquilla, allora lo metto con due persone che mi fido […] se non trovo un affitto qua devo andarmene a Torino, a Torino c’è mio fratello, penso che devo andare in quel posto perché devo portare mio figlio, devo andare per forza ad abitare a Torino.

Tra le assistenti familiari c’è chi riesce comunque a sostenere le spese di una casa in affitto. Constance, marocchina, ci racconta:

[…] avevo il mio appartamento, pagavo l’affitto e tutto, avevo la mia roba, tornavo quando volevo, altrimenti no…vivere in giro senza casa, no, perché non si sa mai…per sentirsi indipendenti, altrimenti uno non ce la fa. Se io so che ho la mia casa vado a lavorare volentieri, anzi mi fa piacere il lavoro anche 24 ore su 24 […] però alla fine so che ho la mia casa, anch’io ho un punto di riferimento, posso stare tranquillamente senza che mi disturbi nessuno.

Della stessa opinione è anche Donna, filippina:

[…] io abitavo là con lui. Poi però avevo sempre un’altra casa, un altro appartamento. Io ho sempre una casa a parte, perché, qualsiasi problema, qualsiasi cosa, puoi tornare a casa.

Ed è proprio questo punto di riferimento, questa privacy che la persona straniera cerca appena ne ha la possibilità. Infatti la ricerca di un impiego a ore, o di un lavoro che comunque offra del tempo libero che non si limiti ad un giorno e mezzo a settimana, è un passaggio quasi automatico per chi ha prospettive migratorie di medio-lunga durata o prevede la possibilità di

un ricongiungimento familiare, per il quale bisogna garantire di avere una casa propria, oltre ad un reddito adeguato.

Oltre ad essere uno dei bisogni fondamentali dell’uomo, per una persona lontana dal proprio Paese avere una casa, uno spazio personale significa anche qualcosa di più, vuol dire avere un luogo in cui si può ritornare ad essere se stessi, ricostruendo un po’ del proprio mondo perduto, avere un punto di riferimento, qualcosa di proprio, senza doversi sentire sempre ospiti nella casa in cui si lavora, oltre alla reale difficoltà che c’è sul luogo di lavoro di distinguere tempi e spazi per sé e per l’anziano. Da Roit e Gori sostengono infatti che “la casa è una grande opportunità ma anche un vincolo pressante poiché il lavoro continuativo nell’abitazione della persona anziana comporta l’assorbimento totale del proprio tempo; nega generalmente la disponibilità di uno spazio privato e comporta la totale coincidenza tra lavoro e vita quotidiana”48. Sentirsi o meno a proprio agio nella casa in cui si lavora dipende poi, ovviamente, dal tipo di rapporto che si instaura con l’anziano e co n la famiglia, e dallo spazio personale riservato, oltre che dalla gestione degli spazi comuni e della casa più in generale (viveri, elettrodomestici, spese…).

Se “casa” coincide con “lavoro”, nel momento in cui il lavoro viene meno (il caso più frequente è la morte dell’anziano) si ripresenta il problema di dove andare a dormire. Luana, ucraina, dice:

La mia signora adesso è morta […] Ho ancora due giorni da stare lì. E poi dove vado? La figlia della signora ha tre figli. Non ha posto per me. Io però ho bisogno per dormire.

Marika, moldava, è stata invece più fortunata:

[…] ho fatto la badante, e dopo è morta la signora, e così sono già due mesi che non trovo lavoro […] loro (i familiari) mi aiutano, anche loro mi cercano lavoro. Sono ancora con loro, abito ancora con loro.

Molto toccante è la storia di Natascia, moldava, che ci racconta dei suoi espedienti per dormire:

[…] io e mio marito all’inizio abbiamo dormito per due settimane sulla strada…non è proprio bello…poi siamo stati in centri d’accoglienza per dormire […] Noi per un periodo abbiamo dormito in una mercedes bianca con le portiere rotte, si vede che prima di noi c’era stato qualcun altro. Mio marito aveva coperto i sedili che erano pieni di vetri rotti con dei cartoni. Io mi sdraiavo sopra e lui che è più grosso mi riscaldava un po’. Mi ricordo che era la fine di novembre, faceva freddo e pioveva sempre…

Irina, ucraina, ci racconta dei primi giorni dopo il suo arrivo in Italia:

Dormivo dove capitava…o in un vecchio treno con altre persone, ucra ine o polacche e moldave. Per me era troppo difficile vivere così, per me questa non era vita.

48 In Gori, 2002b, p. 85.

Alla luce di quanto appena riportato, bisogna dunque ritenere fortunate coloro che, insieme al lavoro, trovano anche un alloggio sicuro e gratuito. A questo proposito è intervenuta la nuova legge sull’immigrazione n. 189/2002 stabilendo, all’art. 6, che il datore di lavoro deve fornire al lavoratore un alloggio adeguato, che rientri cioè nei parametri minimi stabiliti per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

4.2.7 RELAZIONI CON I LOCALI

Dei rapporti che le assistenti familiari, come categoria sociale, intrattengono con i locali, sostanzialmente con gli italiani, abbiamo in parte già parlato analizzando le reti sociali, soprattutto per quanto riguarda le reti di conoscenze che esse hanno costruito qui in Italia. Le relazioni con i locali coinvolgono più persone con le quali le badanti vengono in contatto, dai datori di lavoro, all’anziano assistito, alla famiglia ospitante, ma anche ai vicini di casa, gli amici, la gente del luogo, le autorità e le istituzioni, per arrivare fino alla società civile. Partiremo dal riportare le considerazioni di studiosi ed esperti su tale argomento; confronteremo poi queste opinioni, raccolte attraverso studi teorici e analisi di lavori fatti sul campo, con le opinioni delle donne intervistate, cercando di capire se tali considerazioni possono essere generalizzate all’intera categoria “badanti”.

Da parte dell’anziano non autosufficiente in primo luogo, e poi della famiglia, esiste “il bisogno di continuità assistenziale e di stabilire relazioni di fiducia con il caregiver retribuito”49. Emerge cioè l’esigenza di poter contare su un’unica persona che si prenda cura del proprio congiunto; Toniolo Piva a questo proposito dice: “i l lavoro di cura ha bisogno di una grande quantità di fattore fiducia. Non una generica accettazione del diverso ma una fiducia calda, coinvolgente, aperta all’intimità della casa, del corpo, dei sentimenti nei confronti della vita e della morte”50. D’altra parte esiste “una certa difficoltà a consolidare rapporti stabili con organizzazioni che forniscono servizi di cura inviando continuamente personale diverso”51. Si può aggiungere a questo anche il fatto che solitamente la persona non autosufficiente ha bisogno di assistenza 24 ore su 24, cosa che non può essere soddisfatta da servizi domiciliari ad ore.

Secondo Cotesta, le opportunità per lo straniero di integrarsi nel nuovo contesto sono realizzabili maggiormente da un punto di vista economico, cioè lavorativo52. Se consideriamo infatti quanto appena detto, vediamo che esiste una duplice dipendenza: da una parte

49 Cfr. Da Roit e Gori in Gori, 2002b, p. 80.

50 Cfr. Comune di Venezia, 2001, p. 19.

51 Ibidem.

l’anziano non autosufficiente e la famiglia più in generale, hanno bisogno di una persona che si prenda cura di loro, che dedichi interamente il proprio tempo al lavoro di assistenza; dall’altra, c’è una donna straniera, il più delle volte appena arrivata in Italia, che cerca qualcuno che le offra un lavoro ed una casa. Il rapporto di lavoro che deriva dal soddisfacimento di questi due bisogni determina l’inserimento della persona immigrata in un nuovo contesto sociale. Tra l’inserimento lavorativo, ovvero l’integrazione dal punto di vista

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