• Non ci sono risultati.

IL MERCATO DI CURA PRIVATO

3.3 GLI INCENTIVI AL MERCATO REGOLARE

3.4.1 LA PRESENZA IN ITALIA

Nei precedenti capitoli abbiamo presentato l’attività di care svolta in famiglia e abbiamo appurato che le reti informali, sottoposte a forti pressioni sociali, riescono a rispondere sempre più difficilmente con i propri mezzi ai bisogni dei soggetti più deboli. Le istituzioni pubbliche, d’altra parte, pur impegnandosi per assicurare un’assistenza adeguata alle persone in difficoltà, spesso non vi sono riuscite per motivi economici, organizzativi e culturali. Di conseguenza la risposta più diffusa al bisogno di assistenza espresso dalla popolazione anziana è stata quella di rivolgersi al mercato privato dei lavoratori individuali, il cui profilo professionale sta assumendo in questi anni connotati peculiari.

Centrale nei lavori domestici è infatti il ruolo dei lavoratori extracomunitari, la cui presenza in Italia è divenuta notevole durante gli anni ‘90. Alla fine dell’anno 2001, dice il XII° Rapporto sull’immigrazione della Caritas31, gli extracomunitari presenti in Italia erano circa 1.600.000, con un’incidenza sulla popolazione residente del 2,8%32. Tra i soggetti stranieri che, secondo il rapporto, appartengono alla forza lavoro (1.360.000, il 3% del totale della forza lavoro), il 38,8% svolge un lavoro nell’ambito dell’assistenza sanitaria e domiciliare 33.

L’attività di assistenza agli anziani e più in generale quella di servizio alle famiglie si è rivelata essere notevolmente diffusa tra i lavoratori stranieri provenienti da Paesi al di fuori dell’Unione europea, in particolare tra le donne: “nel 1998 approssimativamente il 16% delle donne regolarmente immigrate ed il 4% degli uomini svolgevano servizi presso famiglie”34. Essere impiegati come lavoratori presso famiglie significa occuparsi della cura della casa o dei

31 2002.

32 Il termine “extracomunitario”, pur molto in uso nel nostro linguaggio comune, ha un significato velatamente negativo, in quanto identifica la persona come soggetto che sta al di fuori di un’entità, in questo caso la Comunità europea; quindi si tratterebbe di una definizione per negazione. In questo testo il vocabolo verrà usato ugualmente cercando di non attribuirvi alcuna accezione negativa.

33 Il significato semantico della parola “straniero” nella nostra lingua sottintende “estraneità”, ma anche “stranezza”, dice Sartori (in Morini, 2001, p. 161). Il risultato che ne deriv a sarebbe dunque che “l’immigrato dispiega […] un sovrappiù di diversità” (ibidem). Ovviamente nell’uso comune non si dà molta importanza al fattore “distanza” che da ciò consegue, però può accadere che alcuni individui lo utilizzino in maniera dispregiativa, soprattutto nei confronti della persona che proviene da un Paese al di fuori dell’Unione europea.

suoi componenti, in particolare dei bambini o degli anziani, ma non sempre esistono confini definiti nella divisione dei compiti di cura tra chi si occupa principalmente della gestione della casa e chi invece si occupa della cura della persone al suo interno.

Svolgere un lavoro “domestico”, nel senso di lavoro che si esplica all’interno delle mura domestiche, assume dei connotati peculiari nel momento in cui il lavoratore è straniero. Questo avviene perché il processo migratorio, soprattutto nel caso delle donne, è strettamente legato all’attività lavorativa che si svolge nel Paese d’emigrazione, esiste cioè una correlazione tra genere, etnia35, lavoro apparsa fin dagli inizi degli anni ’70, anni in cui sono cominciati i flussi migratori femminili verso l’Europa del sud ed in particolare l’Italia, “proprio per la specificità della domanda di lavoro insoddisfatta dalla manodopera italiana (basso terziario, lavoro domestico)”36.

Tipologia e regolazione dei flussi migratori, e strutturazione del mercato del lavoro interno hanno contribuito nel corso degli anni a creare delle “nicchie lavorative” all’interno delle quali si sono inserite, senza troppa difficoltà, le donne che giungevano in Italia per cercare un po’ di fortuna. Questa nuova configurazione del mercato del lavoro, che tuttora affida quasi esclusivamente agli stranieri lavori a bassa qualifica, e alle donne straniere in particolare attività lavorative nell’ambito domestico, è s tata sostenuta in Italia da politiche sociali che nel tempo hanno aumentato invece di diminuire i compiti di cura affidati alle famiglie, in cui sempre più frequentemente entrambi i coniugi lavorano e con fatica riescono ad occuparsi di bambini ed anziani.

Il risultato è che oggi la maggior parte del lavoro domestico, soprattutto quello di cura dei membri più deboli della famiglia, viene affidato ad immigrati, perché i lavoratori italiani non svolgono più questo tipo di lavoro, dal momento che è faticoso ed il compenso, in proporzione, basso; ad donne immigrate, perché ritenute essere per natura più adatte degli uomini alle attività di care; ad donne immigrate filippine, o peruviane, piuttosto che ghanesi, o marocchine e così via, perché secondo il datore di lavoro un determinato gruppo etnico-nazionale possiederebbe qualità innate che le renderebbe più idoneo degli altri ad occuparsi della casa, dei bambini o degli anziani, al punto che oggi, per esempio, si sente dire comunemente “la filippina” per indicar e “la colf”, oppure “la polacca” per indicare “la badante”.

35 L’utilizzo del termine “etnia” è molto controverso, in quanto può essere usato in modo dispregia tivo per contrapporre l’immigrato proveniente dal un Paese del Terzo mondo al soggetto autoctono considerato invece cittadino di una nazione (anche se bisogna ricordare che in molte Nazioni del Terzo mondo esistono etnie che si ritengono diverse per caratteri linguistici, culturali, ecc. dal resto della popolazione) (cfr. Campani in Vicarelli 1994, nota n. 3 p. 182). In questo lavoro l’uso del vocabolo non ha alcuna accezione spregiativa; si consideri pertanto tale termine come sinonimo di “gruppo nazionale ”.

Wallerstein spiega, secondo il suo punto di vista, i concetti di “razzismo” e “sessismo”, partendo dai processi produttivi che egli riconosce essere all’origine della società di classe37. Per l’au tore infatti il razzismo e il sessismo sarebbero funzionali all’attuale struttura economica capitalista; egli si spinge oltre dicendo che razzismo significa anche “etnicizzazione” della forza-lavoro, nel senso che una parte della forza-lavoro è condannata a svolgere mansioni umili e mal pagate poiché il solo criterio di merito non potrebbe giustificare il fatto di offrire tali lavori come unica opportunità di impiego ad un elevato numero di lavoratori38. A questo proposito anche Zanfrini parla di forte rischio di “etnicizzazione” di alcuni mestieri, che va a colpire soprattutto le fasce più deboli dei lavoratori39.

Wallerstein, oltre a ribadire quanto rilevato in precedenza, ovvero che c’è una relazione tra genere, etnia e lavoro, ne evidenzia l’esistenza aggi ungendo il fattore “gerarchizzazione”, che presuppone una rigida divisione del mercato del lavoro e riserva a determinati gruppi etnici posizioni specifiche all’interno della piramide sociale (cosiddetta “divisione in classi”) creando discriminazioni nei confronti di etnie che si specializzano in alcuni settori lavorativi snobbati da altri gruppi sociali. All’interno dei gruppi etnici le relazioni di genere incidono sull’inserimento lavorativo delle donne e creano percorsi di inserimento lavorativo diversificati, ovvero una sorta di “specializzazione” per settore, particolarmente evidente per il genere femminile che si trova condizionato nelle proprie scelte professionali da percorsi già stabiliti a priori40. L’inserimento e la posizione professionale nel mon do del lavoro delle donne immigrate dipende anche dal “rapporto” che esse instaurano con il mondo femminile autoctono, come sentiremo dire dalle loro stesse voci.

Tienda e Booth affermano che bisogna evitare di pensare, secondo una deformazione mentale eurocentrica, che il fenomeno migratorio femminile abbia come risultato un miglioramento sicuro della condizione di vita precedente41. Gli autori citano diversi fattori che possono condurre sia a un miglioramento che a un deterioramento dello status femminile di migrante: “obbligazioni rispetto alla famiglia e al marito, ruoli produttivi nella comunità di origine e di destinazione, ragioni per la migrazione, tipi di migrazione, tipo di inserimento professionale, modelli culturali che danno un significato concreto ai processi sociali che le donne vivono”42. 371990. 38 Op. cit. 39 2002. 40 1990. 41 1991. 42 Ibidem.

Il progetto migratorio di una donna, e con esso il suo successo, risulta in qualsiasi caso più difficoltoso rispetto a quello di un uomo, perché generalmente sono più complicate le relazioni sociali che una donna stabilisce nella società di partenza e in quella di arrivo. Non dobbiamo dimenticare infatti che la colf o la badante che lavora in modo quasi invisibile nelle nostre case, è una donna, straniera, spesso madre, moglie, magari ex insegnante o ex ingegnere, con una vita già vissuta alle spalle e che deve in molti casi ricominciarne una completamente nuova nel nostro Paese.

Le politiche migratorie, sociali e del lavoro sono coinvolte in questo progetto di vita, in quanto hanno il compito di regolare l’ins erimento della lavoratrice nella nuova comunità; verificheremo in quale misura questo avviene. Delle politiche sociali a sostegno del lavoratore del settore terziario cui abbiamo accennato, in modo indiretto, nel precedente capitolo, parleremo più ampiamente nel quarto capitolo. Ora ci occupiamo delle politiche migratorie e della regolazione dei flussi migratori, e poi delle politiche del lavoro, tenendo in considerazione gli effetti che esse hanno sulla comunità autoctona.

Documenti correlati