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IL MERCATO DI CURA PRIVATO

3.3 GLI INCENTIVI AL MERCATO REGOLARE

3.4.2 I FLUSSI MIGRATORI

Affinché delle persone straniere, o più precisamente extracomunitarie, entrino nel nostro Paese per lavoro, ci devono essere le condizioni favorevoli, ossia che il mercato del lavoro italiano necessiti di manodopera in settori specifici. Compito delle istituzioni, sia nazionali che sovranazionali, è quello di gestire e regolare i flussi di stranieri dentro e fuori i confini degli Stati. “Le strategie di controllo degli Stati -è opinione di Sciortino- interagiscono con quelle dei migranti in modo non banale”43; infatti la moderna sociologia delle migrazioni ha sviluppato negli anni più recenti studi scientifici sul fenomeno migratorio, in quanto le politiche migratorie di un Paese non possono essere considerate effetti necessari della situazione demografica e lavorativa contingente44.

I risultati delle politiche migratorie non possono essere quindi considerati la semplice somma di una serie di eventi indipendenti ma il frutto di scelte mirate ed eventi concatenati in molteplici sfere della vita pubblica. Come dire che dietro alle singole decisioni esiste una intelligence che programma le politiche pubbliche convogliando forze dagli interessi opposti: attori privati, centri di potere, lobbies, partiti politici, rapporti tra Stati, andamenti economici, andamenti demografici, e così via. L’interazione di questi ed altri fattori a livello nazionale e sovranazionale contribuisce a stabilire differenti flussi di persone oltre che di merci a seconda del momento storico e del Paese che prendiamo in considerazione.

43 2000, p. 90.

L’Italia è in teressata da flussi migratori da oltre due decenni, anche se, afferma Scidà, “presenta ancora quote di stranieri, in relazione agli autoctoni, assai più basse di quelle dei nostri partner europei”, che hanno conosciuto il fenomeno dell’immigrazione già dal primo dopoguerra45. Nelle politiche migratorie italiane esiste un problema: il fenomeno è sempre stato trattato in modo frammentario e scoordinato, considerando ogni evento a sé, senza la lungimiranza di inquadrarlo in un piano di programmazione e gestione dei flussi più ampio. La conseguenza è, nell’opinione di Sgroi, che i policy makers sono costretti a trattare ogni evento in questo ambito come “emergenza” e ricorrere sistematicamente all’uso di strumenti, come per esempio le sanatorie, che dovrebbero invece costituire interventi “eccezionali”46.

Il Testo Unico D. L.vo n. 286/1998 è il primo vero tentativo fatto dal legislatore italiano di sistemare in un corpo organico quanto stabilito in materia di immigrazione fino a quel momento. La successiva legge n. 189/2002 ne ha modificato alcuni articoli introducendo delle novità che sostanzialmente sottintendono una regolazione dei flussi migratori e della posizione dell’immigrato rispetto allo Stato italiano in funzione delle esigenze del mercato del lavoro interno47. La concessione di diritti è dunque legata al tempo di permanenza in Italia. Tale legge stabilisce infatti uno stretto legame tra soggiorno in Italia e condizione lavorativa in quanto viene introdotto un nuovo documento, il contratto di soggiorno, che funge da contratto di lavoro, obbligatorio per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. Viene sancito inoltre per il datore di lavoro l’onere di garantire all’immigrato un alloggio e il pagamento delle spese per il rimpatrio. Il permesso di soggiorno, concesso a chi ha già un contratto di lavoro, ha la durata di due anni per chi ha un contratto di lavoro subordinato, un anno in meno rispetto a quanto previsto dalla precedente normativa, ed è rinnovabile per una durata non superiore a quella stabilita col rilascio iniziale.

Per quanto riguarda il collegamento domanda-offerta di lavoro, la soppressione della figura dello sponsor nel caso dei lavori di assistenza agli anziani e di collaborazione domestica crea qualche difficoltà, a cui si aggiunge il fatto che la famiglia, e d’altra parte la badante, non sanno a priori se il rapporto di lavoro sarà soddisfacente per entrambe le parti48.

Se da un lato la legge n. 189/2002 ha voluto riconoscere l’importanza dei lavoratori stranieri per l’economia italiana, in considerazione anche delle pressioni giunte da vari gruppi d’interesse affinché il numero di stranieri che possono entrare nel nostro Paese per lavoro fosse aumentato, dall’altro ha limitato la concessione di diritti a quelle stesse persone che sono

45 2000, p. 15.

46 1999.

47 Cfr.Il Sole 24 ore, 2002; i siti: www.unionefemminile.it; www.repubblica.it.

chiamate in Italia a lavorare, abbreviando la durata del permesso di soggiorno ed associandolo all’attività lavorativa. Non vi è alcun dubbio che l’intento di stabilire restrizioni rigide sia stato posto anche in vista di una lotta alla clandestinità e alla criminalità organizzata, ma probabilmente i mezzi scelti non sono i più appropriati per tale scopo, quanto piuttosto per una propaganda politica che faccia breccia sull’opinione pubblica. Dalla coniugazione di interessi economici e politici talvolta contrapposti è scaturito nel nostro Paese un modello migratorio a integrazione limitata, vincolata alla posizione lavorativa e alle politiche attuate a livello locale. A questo proposito Garson afferma che “le politiche migratorie a livello europeo si sono orientate nel corso degli ultimi anni in senso sempre più restrittivo, facendo propri tre obiettivi: ridurre gli incentivi all’immigrazione, scoraggiando i crescenti flussi di lavoratori stranieri; ridimensionare la consistenza numerica dei flussi e contrastare l’immigrazione irregolare; mantenere il carattere di temporaneità delle migrazioni, siano esse di lavoratori o di rifugiati”49.

La relazione che si instaura tra immigrato e comunità autoctona è per molti aspetti ambivalente. Alessandrini parla addirittura di “schizofrenia” tra l’apprezzamento dell’attività lavorativa che gli extracomunitari svolgono nel nostro Paese e l’ostilità diffusa nei confronti del fenomeno immigratorio50. Al riconoscere l’importanza del lavoro svolto dagli stranie ri è contrapposto un forte freno nella concessione di diritti che permettono un’integrazione politica e sociale: sostanzialmente l’immigrato “è buono solo se è bravo e ubbidiente lavoratore” 51.

La difficoltà esistita per lungo tempo a riconoscere l’Italia c ome Paese destinatario di flussi migratori, abituati com’eravamo ad essere noi ad emigrare all’estero fino a tutti gli anni ’60, ha creato nel nostro Paese, secondo Pollini e Scidà, un modello “implicito” per l’integrazione degli immigrati52. Secondo questo modello, l’immigrazione è concepita come se ufficialmente non fosse necessaria, ma in realtà utilizzata sia in forme regolari che irregolari (come abbiamo già avuto modo di vedere); da questa concezione più generale, si evincono quella della cittadinanza, l’ottenimento della quale risulta essere arduo, quella del rapporto tra popolazione locale e immigrati, ambivalente tra accoglienza e intolleranza, quella delle politiche del lavoro, che prevedono la parità di salario nel lavoro regolare, pur accettando ampiamente il lavoro irregolare, e la presenza di attività promozionali attuate in modo frammentario e a livello locale; infine quella delle politiche sociali che risultano essere poco sviluppate, con carattere volontaristico e in gran parte lasciate all’in iziativa di enti locali e terzo settore53. In questo quadro nulla sembra essere definito ma tutto basato su rapporti di precarietà

49 In Baronio e Carbone, 2002, p. 26.

50 Op. cit.

51 Cfr. Cotesta, 2002, p. 93.

52 1998.

e su normative transitorie. Risulta perciò difficile in primo luogo per il soggetto nuovo arrivato programmare la propria vita nel nuovo ambiente, e poi per la comunità che lo accoglie porsi in relazione con un individuo ritenuto sempre un “ospite” o “di passaggio”.

Ambrosini riconosce l’esistenza di altri tre modelli di integrazione degli immigrati (non in tutti i casi si tratta di piena integrazione, ma di “parziale” o “a tempo determinato”) che divide già la stessa Unione europea in aree molto differenti tra loro: il modello dell’“immigrazione temporanea”, che ritroviamo in Germania, in cui per lungo tempo l’immigrato è stato c onsiderato ospite temporaneo chiamato a lavorare “per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro” per poi tornare a casa (cosa che accade oggi per alcuni versi in Italia, con un permesso di soggiorno legato all’attività lavorativa); il modello “ass imilativo”, che ritroviamo in Francia, in cui è forte la spinta all’assimilazione anche culturale degli immigrati, che in questo modo perdono però i contatti con le proprie origini; infine il modello della “società multiculturale”, presente in misure diver se negli Stati Uniti, in Olanda, Svezia e per certi versi in Gran Bretagna, dove i gruppi etnici e le associazioni di immigrati sono sostenuti dalla comunità locale (almeno teoricamente)54.

Baldwin-Edwards critica il modello sud europeo nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo entrerebbero immigrati di numerose nazionalità, con livelli di istruzione differenti, per i quali le condizioni di ingresso, soggiorno e lavoro sono generalmente irregolari, con pochi diritti sociali e legali, e d’altra parte la pr esenza di norme internazionali che in questi casi prevedono l’espulsione55.

Zincone riconosce come Ambrosini che i diritti dello straniero sono incerti e comunque vincolati a misure prese a livello locale grazie alla sensibilità e discrezionalità di funzionari pubblici, operatori sociali, rappresentanti sindacali e associazioni volontarie, che hanno un ruolo importante nel sopperire alle carenze nel settore pubblico56. Le testimonianze raccolte durante la ricerca su persone che operano all’interno del terzo s ettore, in special modo nel volontariato, e le affermazioni delle stesse lavoratrici intervistate confermano l’importanza che ha per le persone straniere il sostegno da parte di enti di volontariato, come ad esempio Caritas o San Vincenzo.

3.4.3 LA FIGURA DEL MIGRANTE

La posizione sociale dello straniero che si può ricavare dalla presentazione dei precedenti modelli teorici è piuttosto complessa e variabile da Paese a Paese, ma anche

54 2000, p. 128.

55 In Baldwin-Edwards e Arango, 1999.

all’interno dello stesso Paese da un periodo storico all’altro. Alcuni co ntributi ci aiutano a capire la condizione dello straniero considerata indipendentemente dal luogo o dal periodo storico.

Secondo Sombart l’individuo che decide di migrare appartiene, o meglio apparteneva agli inizi dei fenomeni migratori più consistenti, ad una categoria di personalità molto attive, molto audaci, calcolatrici e razionali57. La teoria di Sombart riconosce nell’agire razionale, derivato dall’estraneità gli uni dagli altri, la fortuna del capitalismo moderno, e quindi dello sviluppo economico. Dunque l’estraneità, l’indifferenza e la marginalità proprie dello straniero sarebbero le condizioni favorevoli all’attività lavorativa e all’arricchimento non solo del singolo ma dell’intera società capitalista58. Il lavoro, verso il quale l’immigrato in dirizza tutte le sue energie, è l’unico elemento che lo lega al nuovo Paese, soprattutto se è partito da solo.

La peculiarità delle migrazioni moderne, nell’opinione di Park, è che l’individuo migrante è svincolato sia dalla comunità di partenza che dalla comunità di arrivo, perciò si ritrova isolato, con un “io diviso” tra il passato e il presente, tra il vecchio e il nuovo, che d’altra parte lo rende libero da vincoli e gli offre una visione disincantata del mondo59. Questa interpretazione abbastanza distaccata della realtà e la considerazione del proprio lavoro come di un mezzo di risalita sociale, che possono dare l’impressione di una certa freddezza e di calcolo razionale, sono rintracciabili in più di una intervista. Le signore intervistate non risparmiano lucide critiche alla società che le ospita per il tipo di rapporto, spesso impersonale, che viene instaurato con lo straniero e svelano problemi e conflitti anche interni alla nostra società, di cui un autoctono non si rende conto, o almeno non con una sufficiente razionalità.

Merton considera debole la posizione dello straniero, in quanto la sua entrata nel nuovo gruppo dipende soprattutto dalla volontà del gruppo stesso60. Il successo del processo di integrazione sembra dipendere dalla discrezionalità della comunità ospitante; non viene considerato il fatto che lo straniero possa decidere liberamente di non integrarsi, o di integrarsi in modo parziale nella nuova comunità perché ad esempio appartiene già a una comunità straniera forte presente sul territorio o perché il suo progetto migratorio è di breve periodo.

Secondo quanto dice Simmel il nuovo arrivato è la figura debole di chi si trova dentro e fuori il gruppo, perché da un lato desidera diventarne membro ma dall’altra non ne conosce

57 1902.

58 Le parole di Sombart sembrano molto vicine a quelle di Weber, che in L’etica protestante e lo spirito del

capitalismo utilizza un simile ragionamento per spiegare come la marginalità sociale abbia contribuito alla nascita del capitalismo moderno.

59 1950.

ancora i caratteri essenziali61. L’immagine di un individuo incerto e un po’ titubante, sospeso tra vecchio e nuovo, che emerge dalle considerazioni di Simmel è presente anche in Schutz, per il quale lo straniero è un uomo che appartiene a molteplici “mondi”, almeno a d ue, quello d’origine e quello di arrivo62. Nella condizione dello straniero esiste sempre una duplicità perché qualcosa viene perduto e qualcosa viene conquistato: nessuno infatti taglia completamente i legami con il passato e nessuno può rimanervi assolutamente legato nel momento in cui si trasferisce in un nuovo contesto. Questo è un elemento presente in tutte le interviste anche se in misure diverse a seconda delle storie personali e gli studiosi, soprattutto psicologi e psichiatri, lo ritrovano nelle personalità degli stranieri che giungono nel nostro Paese per lavoro (ma potremmo allargare le considerazioni alla dimensione universale del migrante).

Chi parte per una nuova terra si costruisce nella propria mente un’idea del luogo che l’accoglierà, delle p ersone che troverà, della vita che lo attenderà in relazione alle esperienze fatte in precedenza. Quest’idea può essere confermata nel momento in cui la persona giunge nella nuova “patria” o purtroppo smentita, con la conseguenza di creare molti disagi, a livello mentale perché diventa necessario un riadattamento completo dei propri schemi conoscitivi alla luce delle nuove informazioni, e a livello pratico perché è indispensabile una riorganizzazione delle proprie competenze e abilità.

Quanto detto vale in modo particolare per la persona che emigra per motivi di lavoro, in quanto già il partire perché spinti dal bisogno rende il distacco più doloroso; poi, se la vita che il nuovo contesto riserva non corrisponde alle proprie aspettative, come accade in molti casi per coloro che in patria ricoprivano ruoli importanti sebbene pagati poco, e qui da noi svolgono lavori certo ben pagati secondo i loro termini di raffronto ma con un basso riconoscimento sociale, la frustrazione e il disagio aumentano.

Brunori e Tombolini riassumono bene i concetti finora espressi nel momento in cui spiegano il significato di “emigrare”, indipendentemente dai motivi o dal contesto in cui ciò avviene: “emigrare significa essenzialmente perdere luoghi, odori, suoni, contatti originari che costituiscono una sorta di involucro acquisito con la nascita” attraverso una continua interazione tra gli elementi sensoriali e l’ambiente che crea la struttura psichica e l’identità culturale dell’individuo63. “Quando l’involucro culturale viene abba ndonato, o disintegrato, e si crea una separazione fra il sé ed il contenitore- continuano Brunori e Tombolini- la persona rischia di non sapere più dove depositare, né a cosa legare, l’identità soggettiva e la capacità di

61 1908.

62 1971.

un corretto funzionamento mentale”64. Come rilevano le autrici c’è il rischio di arrivare addirittura alla “depersonalizzazione” e ad “esiti patologici” nel momento in cui il cambiamento di cultura, linguaggio, valori è considerevole e dunque non riconosciuto dalla propria identità psichica e culturale.

Anche secondo D’Agostini esiste una relazione tra cultura d’origine e disturbo di personalità, in quanto l’aumento dei disagi psichici tra gli stranieri non turisti negli ultimi anni sarebbe dovuto anche a “diversità culturali nella manifes tazione di affetti, di modi di vivere, del ruolo maschile e femminile e anche dell’aggressività”65. Il risultato è dunque che la probabilità dello straniero di essere ricoverato in una struttura psichiatrica è maggiore rispetto a quella che ha un autoctono66.

Il dottor Piazza67 riferisce che la predisposizione ad avere disturbi di personalità presente in alcuni soggetti più che in altri, “si slatentizza” in situazioni di particolare stress in cui un problema, che esisteva magari inconsapevolmente già prima, diventa visibile. Probabilmente una situazione lavorativa precaria trovata in Italia esaspera in alcuni stranieri un disagio preesistente. Abbiamo parlato di “alcuni stranieri” perché sono ancora poche le persone che si rivolgono alle istituzioni per essere curate a causa di una certa diffidenza e non conoscenza dei sistemi di cura locali. In questo senso è difficile pensare in che modo la psicologia possa essere utile per risolvere i disagi mentali68.

La conoscenza della lingua aiuta molto chi si vuole inserire in una nuova cultura, perché, oltre a consentire la comunicazione, conferisce un senso di identità all’individuo che entra nella nuova comunità, e soprattutto un potere contrattuale al lavoratore extracomunitario che vuole far sentire la propria voce e si batte per far rispettare i propri diritti69. Se pensiamo a quanto detto sulla diffidenza nei confronti dei sistemi di cura del Paese ospitante, comprendiamo che questa può diminuire se l’individuo conosce la lingua autoctona ed è quindi nelle condizioni di poter chiedere aiuto.

La riuscita del progetto migratorio di un individuo dipende dunque, oltre che dalla capacità di entrare in contatto con la cultura e l’identità della comunità ospitante, da una buona conoscenza della lingua, dalla presenza relazioni personali e reti di amicizie, dall’avere un lavoro che permette di soddisfare i propri bisogni e soprattutto di vivere dignitosamente la propria permanenza nel nuovo Paese, ecc.

64 Ibidem.

65 In Bonuzzi, 1999, p. 30.

66 Cfr. D’ Agostini, op. cit.

67 Psichiatra incontrato al Cesaim (Centro salute immigrati) di Verona.

68 Cfr. Brunori e Tombolini, 2001.

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