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LA CONVENZIONE DI MORATORIA

4. GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE CON INTERMEDIARI FINANZIAR

4.2. LA CONVENZIONE DI MORATORIA

Il quinto ed il sesto comma dell’articolo 182 septies L.F. introducono un nuovo istituto, anch’esso applicabile in relazione a debiti verso banche ed intermediari finanziari.

L’articolo infatti prevede al suo interno ciò che avveniva già comunemente nella prassi: era infatti ricorrente che un impresa con difficoltà anche semplicemente di liquidità cercasse di ottenere una dilazione di pagamento rispetto ad alcuni dei propri creditori. Questa parte dell’articolo offre quindi un nuova possibilità all’imprenditore in stato di crisi: cioè di raggiungere un accordo il cui oggetto, piuttosto che riguardare la                                                                                                                

112 C

ALÒ U.,op. cit., p.4.

113 in linea con quanto disposto per il nuovo accordo di ristrutturazione dei debiti e per il concordato preventivo.

114 I

NZITARI B.,op. cit. 9.

115 V

ristrutturazione del debito, possa consistere in una dilazione del debito, un “moratoria”

appunto, con i creditori che a tale accordo aderiscono116, creditori che però devono

essere banche o intermediari finanziari.

I creditori hanno la possibilità di proporre opposizione ai sensi del comma sei il quale dispone che: “Nel caso previsto dal comma precedente, le banche e gli intermediari

finanziari non aderenti alla convenzione possono proporre opposizione entro trenta giorni dalla comunicazione della convenzione stipulata, accompagnata dalla relazione del professionista designato a norma dell'articolo 67, terzo comma, lettera d). La comunicazione deve essere effettuata, alternativamente, mediante lettera raccomandata o posta elettronica certificata. Con l'opposizione, la banca o l'intermediario finanziario può chiedere che la convenzione non produca effetti nei suoi confronti. Il tribunale, con decreto motivato, decide sulle opposizioni, verificando la sussistenza delle condizioni di cui al comma quarto, terzo periodo. Nel termine di quindici giorni dalla comunicazione, il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello, ai sensi dell'articolo 183.”

Anche in questa fattispecie come è facilmente individuabile la norma deroga dagli articoli 1372 e 1411 del c.c., prevendendo che l’accordo raggiunto possa produrre effetti anche nei confronti della banche e intermediari finanziari che all’accordo non abbiamo aderito.

Sul piano della disciplina, questo accordo è e rimane governato in generale dalle regole del diritto comune perché la fase giurisdizionale di controllo dell’operato avviene esclusivamente in caso di opposizione dei creditori non aderenti.

Questo significa che qualora non vi siano opposizioni, la convenzione di moratoria non è soggetta ad alcun controllo da parte dell’autorità giudiziaria, nemmeno di tipo

omologatorio117.

Analogamente a quanto si è visto per gli accordi di ristrutturazione, la disciplina scatta nel momento in cui si concretizzano e vi è la concomitanza di tutti i presupposti

                                                                                                               

116 “..era infatti ricorrente la fattispecie in cui l’impresa priva di liquidità sufficiente ma che

abbia risultati economici positivi concordi con i propri creditori una dilazione dei pagamenti dei crediti, stipulando un accordo di moratoria.” Così CALÒ U.,op. cit., p.5.

117 Varotti L. “Articolo 182 septies. "Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e

necessari che la disciplina stessa prevede118 con una efficacia particolare e specifici effetti, diversamente la convenzione di moratoria è un accordo negoziale di diritto privato.

La disposizione risulta lacunosa nel disciplinare la fase processuale, nonchè su quale sia il procedimento applicabile per l’opposizione, ed è possibile dire che l’estensione operi automaticamente, senza la necessità di un intervento da parte del giudice o di un qualsivoglia decreto di “omologazione”, dovendo il Tribunale intervenire soltanto nel caso di opposizione da parte di creditori non aderenti ed esprimersi con decreto reclamabile di fronte alla corte d’appello entro quindici giorni.

Quanto invece al profilo delle condizioni, si rientra nella valutazione e verifica della omogeneità di posizione giuridica ed interessi economica fra i creditori aderenti.

Nella convenzione di moratoria questa valutazione spetta all’esperto attestatore ma non è escluso, anzi è probabile, anche secondo quanto disposto dal sesto comma, che in caso di opposizioni e quindi di intervento da parte del Tribunale, questo debba anche analizzare la sussistenza dei presupposti.

                                                                                                               

118 Nigro A., “gli accordo di ristrutturazione con “intermediari finanziari” e le convenzioni di

5. CONCLUSIONI

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono stati introdotti dal legislatore nel 2005 con l’idea di poter fornire un valido strumento per far fronte a specifiche situazioni di crisi. La novella del 2005 introduceva un istituto nuovo che nasceva con lo spirito di dare luogo ad un procedimento che potesse superare sia le lacune degli accordi stragiudiziali che le rigidità delle procedure concorsuali, al fine di fornire una efficiente alternativa per tutti quegli imprenditori che in quell’anno, in un periodo nel quale la crisi economica sia italiana che internazionale cominciava a portare effetti reali sul mercato, avevano la necessità di un meccanismo nuovo e più pratico per la gestione della crisi. Il legislatore però al contrario aveva realizzato esclusivamente lo “scheletro” di una procedura, con una disciplina su più argomenti lacunosa, che faceva luce esclusivamente sugli aspetti principali della struttura ideata e lasciava numerosi dubbi ed incertezze applicative.

L’art. 182 bis L.F. infatti mancava originariamente di specifiche molto importanti circa ad esempio il soggetto legittimato a proporre un ricorso al Tribunale, il soggetto c.d. “esperto” al quale spettava il compito di attestare e verificare l’attendibilità del piano proposto, ed inoltre non individuava un procedimento chiaro, ben scandito, attraverso il quale si sarebbe dovuti arrivare alla eventuale omologazione da parte del Tribunale. Il nuovo istituto venne accolto quindi con grande scetticismo e, parlare di “fallimento” nelle intenzioni iniziali del legislatore sarebbe forse eccessivo ma è innegabile come fin da subito si siano resi necessari importanti integrazioni e correzioni alla normativa di cui all’articolo 182 bis L.F., e si pensi al fatto che, a causa dei numerosi ostacoli che la procedura presentava, stando ai dati reperibili sui siti internet delle Camere di Commercio, al 2007 i ricorsi presentati ai Tribunali su tutto il territorio italiano per l’omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti erano stati appena una decina.

Dal 2007 quindi si sono susseguite la serie di riforme già viste nel corpo della tesi che hanno cercato passo dopo passo, a parere dello scrivente in modo confusionario e troppo centellinato, di rendere più chiaro il testo della norma e più efficace l’istituto stesso. In primo luogo il legislatore ha operato con il c.d. Decreto Correttivo che, come recitavano anche le parole stesse della relazione illustrativa a questo allegata si prefiggeva proprio come fine una maggiore diffusione del ricorso all’istituto, tra le varie operazioni sostituiva il termine “debitore” con “imprenditore”, individuava le caratteristiche professionali che il soggetto “esperto” doveva avere, introduceva un primo schermo protettivo al patrimonio dell’imprenditore dalle azioni cautelari ed esecutive, ed inoltre prevedeva che il meccanismo della transazione fiscale di cui all’art. 182 ter L.F. fosse applicabile nell’ambito degli accordi di ristrutturazione oltre che nel concordato preventivo.

Queste modifiche però non raggiunsero appieno le intenzioni prefissate nella relazione illustrativa, continuando l’istituto a rimanere poco appetibile agli occhi di un imprenditore che si trovava a dover scegliere la migliore strada per la gestione della crisi della propria impresa, lasciando ancora troppo incerte le sorti dei creditori aderenti, soprattutto in caso di un successivo fallimento, e non prevendendo alcuna forma di tutela per la finanza sorta in funzione della procedura rendendo nella sostanza difficilmente accessibile qualsiasi nuovo credito.

Così rimase l’istituto sino al 2010, anno nel quale il legislatore in modo più ingerente riuscì a sopperire ad alcune importanti mancanze che l’istituto presentava ampliando il divieto di azioni esecutive e cautelari anche alla fase delle trattative, ed inserendo all’interno della Legge Fallimentare l’art. 182 quater relativo alla prededucibilità di alcune categorie di crediti e l’art. 217 bis relativo alla esenzione dai reati di bancarotta per gli atti compiuti nell’esecuzione di un accordo.

Queste modifiche, alle quali vanno aggiunte quelle precedentemente viste, che apportavano almeno in teoria evidenti migliorie all’usufruibilità dell’istituto, hanno portato anche l’attenzione a mio parere su come con il tempo si sia inevitabilmente persa parzialmente la natura stragiudiziale dell’accordo e quella flessibilità iniziale che, seppur ancora presente ed ancora caratteristica peculiare dell’istituto, rappresentava più un limite, anzichè un vantaggio come nell’idea del legislatore, e portava ad inefficienze

e lacune su più punti, in particolare sull’argomento della tutela del patrimonio dell’imprenditore.

Il legislatore con l’intervento del 2005 era sembrato in qualche modo voler cucire un abito agli accordi stragiudiziali, costruire intorno a loro una sorta di cornice, ma, con gli interventi degli anni successivi, appare evidente un cambio di direzione attraverso una ingerenza maggiore come risposta all’insuccesso del primo schema, con la conseguenza che la natura stessa dell’accordo ha subito nel corso del tempo una inevitabile mutazione.

A parere dello scrivente infatti, a causa dei continui interventi, l’istituto ex art. 182 bis L.F., è arrivato sempre più a vestire gli abiti di una procedura concorsuale, soprattutto con l’introduzione del divieto di azioni esecutive e cautelari e con la previsione della prededuzione per i crediti; interventi forti che ben si differenziano rispetto allo schema portato nel 2005, conferendo all’istituto una sorta di rigidità che nell’intenzioni originali il legilslatore sembrava voler cercare di evitare ma, soprattutto nel 2010, si credeva necessaria ai fini del maggiore ricorso all’istituto.

Le novità introdotte nel 2010 hanno portato un piccolo incremento dell’utilizzo dell’istituto rispetto ai primi cinque anni, durante i quali, secondo i dati reperibili nei siti internet delle Camere di Commercio erano stati presentati soltanto un totale di 198 ricorsi, molti dei quali non avevano raggiunto la omologazione, divisi su un totale di 54 Tribunali, cioè un terzo dei Tribunali italiani, con particolare riferimento ai Tribunali di Milano, Roma e Bolzano, mentre contestualmente tutti gli altri Tribunali non avevano ricevuto alcun ricorso per l’omologazione di accordi di ristrutturazione, rappresentando ciò una evidente incompleta applicazione dell’istituto.

Inoltre è interessante a mio parere rilevare, quanto ai soggetti che avevano ed hanno fino ad oggi fatto ricorso all’istituto, che anche in questo caso si è andati in controtendenza rispetto all’idea iniziale del legislatore poiché, mentre accordi di ristrutturazione aventi ad oggetto importi limitati sono stati in numero ridotto, più numerosi al contrario sono stati quelli con passività importanti, portati avanti da società o gruppi di società con una esposizione debitoria molto consistente, basti pensare agli accordi di ristrutturazione presentati nel 2009 presso il Tribunale di Milano dal gruppo “Gabetti”.

La Gabetti Property Solutions spa infatti , che ha raggiunto l’omologazione nel 2009 di uno dei più importanti accordi di ristrutturazione stipulati dall’introduzione dell’istituto,

aveva presentato un piano che coinvolgeva non solo la società sopracitata che aveva presentato il ricorso ma l’intero gruppo Gabetti composto da dodici società diverse che articolavano le loro attività tra intermediazione immobiliare, intermediazione di prodotti creditizi e brokeraggio assicurativo, servizi valutativi ed attività di investimento, e presentava un indebitamento complessivo alla chiusura dell’esercizio del 2008 per 231 milioni di euro .

La capogruppo ricorrente in particolare presentava un indebitamento verso le banche di 94,6 milioni di euro, ed era riuscita a raggiungere un accordo con il 93% dei propri creditori in un accordo di ristrutturazione dei debiti sottoscritto il 24 di aprile del 2009 ed omologato il 17 giugno successivo che prevedeva un piano industriale di grandissime dimensioni da realizzare tra il 2009 ed il 2011.

Il sopracitato è soltanto uno degli esempi che si potrebbero fare circa società di grandi dimensioni che hanno fatto ricorso all’istituto (si pensi anche al gruppo “Risorgimento” sempre nel 2009 presso il Tribunale di Milano), e ciò porta a ritenere che sia proprio nell’ambito di società di grandi dimensioni che è possibile trarre maggiore vantaggio dalla libertà contrattuale concessa dall’istituto, potendo questi tipo di società, grazie ai mezzi superiori rispetto ad una piccola o media impresa, elaborare piani di ristrutturazione più articolati e adatti anche a soddisfare al meglio la pretese dei creditori. Negli anni successivi però, nonostante gli ulteriori continui interventi modificativi e nonostante anche l’istituto sia uno strumento già ampiamente diffuso da tempo nella prassi della altre legislazioni straniere, questo ha goduto di una scarsa applicazione, in accordo anche con quanto detto dalla Circolare 4 del 2012 riportata da Assonime, la quale enunciava che :“Gli accordi di ristrutturazione dei debiti rappresentano uno

strumento fondamentale per risolvere in tempi rapidi una situazione di crisi reversibile, in vista del pieno recupero della redditività dell’impresa. Nella prassi, tuttavia, vengono scarsamente utilizzati sia per l’assenza di misure fiscali di favore, sia per la difficoltà per l’imprenditore di accedere a nuovi finanziamenti necessari durante la fase delle trattative con i creditori e nella fase dell’esecuzione dell’accordo”119.

Ad oggi è possibile dire che l’accordo ex art. 182 bis L.F. continua ad essere uno strumento poco utilizzato dagli imprenditori e poco “sponsorizzato” dai consulenti, che                                                                                                                

nella maggior parte dei casi se non nella quasi totalità, preferiscono ricorrere alle tradizionali procedure concorsuali e, a testimonianza di questo, si pensi che dall’entrata in vigore dell’istituto alla fine del 2016 (secondo una ricerca dell’Università di Bologna) si contavano solamente 675 accordi di questo tipo, numeri molto bassi se confrontati alle migliaia di procedure concorsuali che si presentano ogni anno.

La soluzione in oggetto presenta indubbi vantaggi già evidenziati ma ad oggi sembrano nella maggior parte dei casi spesso più forti i problemi connessi al raggiungimento della soglia minima del 60% e alla soddisfazione integrale dei creditori non aderenti che necessita inevitabilmente della presenza in taluni casi di importanti risorse finanziarie, ed in ciò sarebbe rinvenibile la motivazione della scarsa applicazione dell’istituto.

L’introduzione quindi anche dell’art. 182 septies L.F. costituisce una sorta di reazione ai “fallimenti” ed alla confusione generata dalle riforme precedenti con un importante atto, quasi di “forza” da parte del legislatore, quello di prevedere la deroga ai principi istituzionali in materia di contratti al fine di poter rendere gli accordi vincolanti anche per i creditori non aderenti.

Il fine ultimo del legislatore risulta sempre quello di incentivare l’accesso a soluzioni differenti dal fallimento (nonostante i trend al ribasso dal 2014 ad oggi, anche nel 2016 in Italia sono fallite più di 10.000 società) e quindi impedire che l’opposizione di un creditore rilevante vanifichi gli sforzi dell’imprenditore.

L’estensione degli accordi a soggetti che non vi hanno aderito non sarebbe però possibile se non si derogasse agli articolo 1372 e 1411 del codice civile e ciò contraddice dallo spirito che aveva mosso la riforma che tendeva a privilegiare soluzioni di tipo privatistico, e, a parere dello scrivente, è corretto chiedersi se sia giustificato subordinare tali principi all’obiettivo del risanamento dell’impresa e quindi in un certo senso fin dove la legge possa “derogare a se stessa”.

Non è in dubbio che la legge possa sempre derogare a se stessa e che l’impresa in crisi debba essere sorretta e conservata ogni qualvolta il risanamento sia possibile, ma lo scrivente comprende e condivide le posizioni di chi in dottrina (in particolare N. Nisivoccia) considera una forzatura imporre ad un creditore i contenuti di un accordo cui lui stesso non ha inteso aderire, arrivando persino taluni a parlare di un “abuso del potere” di cui il legislatore gode.

Tenuto conto di quanto detto spetterà adesso soltanto al futuro mostrare se nella prassi troveranno consenso e concreta applicazione le novità apportate dal legislatore e se questa “forzata” possa portare ad un maggior ricorso alla disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

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