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GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT CORSO DI LAUREA IN

CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE

Tesi di Laurea Magistrale

GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI

Relatore: Prof. Francesco Poddighe Candidato:

Simone Giannecchini

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Ai miei genitori,

a mia sorella,

Grazie.

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1. PREMESSA

1.1. Accordi di ristrutturazione : evoluzione legislativa 1.2. Natura giuridica degli accordi

2. STRUTTURA E CONTENUTO DEGLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE 2.1. Presupposti soggettivi

2.2. Presupposti oggettivi e stato di crisi 2.3. Iter procedimentale

2.3.1. Formazione dell’accordo e della maggioranza 2.3.2. Pubblicazione nel Registro delle Imprese 2.3.3. Ruolo e poteri del Tribunale

2.4. Relazione del professionista e profili di responsabilità 3. EFFETTI DEGLI ACCORDI

3.1. Efficacia negoziale degli accordi 3.2. Effetti dell’omologazione

3.2.1 Effetti legali

3.2.2. Esenzione da revocatoria

3.2.3. L’art. 182 – quinquies e la c.d. “finanza – ponte”

4. ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE CON INTERMEDIARI FINANZIARI 4.1. La disciplina dell’art. 182 – septies L.F.

4.2. La convenzione moratoria  

 

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1. PREMESSA

Nel sistema normativo fallimentare, l’art. 182 bis L.F. disciplina, come noto, l’istituto dell’Accordo di ristrutturazione dei debiti.

Questa possibilità, insieme all’istituto del Concordato Preventivo disciplinato dagli artt. 160 L.F. e ss., è diretta ad evitare il fallimento, valorizzando l’autonomia privata come strumento di regolamentazione della crisi d’impresa.

La Legge Fallimentare, infatti, nell’ultimo decennio, come espone Randazzo: “..ha

assunto un nuovo punto di vista in tema di impresa e di crisi d’impresa, ponendo la prima al centro di un sistema normativo finalizzato quanto più a conservarne e salvaguardarne il valore e a tutelare gli interessi della collettività, con particolare riguardo a quelli dei creditori sociali” ed è proprio in questo nuovo modo di guardare

alla crisi delle attività d’impresa che acquista primaria importanza il serio tentativo di recupero dell’ impresa in stato di crisi, spostando ed in qualche modo superando la finalità liquidatoria che rimane eventuale, ma solo in una seconda fase, possibile ma comunque non esclusiva, e subordinata alla previa verifica di una possibile

recuperabilità1.

L’articolo 182 bis dispone:

“I. L’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di

cui all'articolo 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, terzo comma, lettera d) sulla veridicità dei dati aziendali e sull'attuabilità dell'accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini:

a) entro centoventi gironi dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data;

                                                                                                                1 S.R

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b) entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione.

II. L'accordo è pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione.

III. Dalla data della pubblicazione e per sessanta giorni i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, né acquisire titoli di prelazione se non concordati.. Si applica l'art.168 secondo comma.

IV. Entro trenta giorni dalla pubblicazione i creditori e ogni altro interessato possono proporre opposizione. Il tribunale, decise le opposizioni, procede all'omologazione in camera di consiglio con decreto motivato.

V. Il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello ai sensi dell’ articolo 183, in quanto applicabile, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese.

VI. Il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive di cui al terzo comma può essere richiesto dall'imprenditore anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell'accordo di cui al presente articolo, depositando presso il tribunale competente ai sensi dell'articolo 9 la documentazione di cui all'articolo

161, primo e secondo comma, lettere a), b), c), e d), e una proposta di accordo corredata da una dichiarazione dell'imprenditore, avente valore di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare. L'istanza di sospensione di cui al presente comma è pubblicata nel registro delle imprese e produce l'effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione, se non concordati, dalla pubblicazione.

VII. Il tribunale, verificata la completezza della documentazione depositata, fissa con decreto l'udienza entro il termine di trenta giorni dal deposito dell'istanza di cui al sesto comma, disponendo la comunicazione ai creditori della documentazione stessa.

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Nel corso dell'udienza, riscontrata la sussistenza dei presupposti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze di cui al primo comma e delle condizioni per l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare, dispone con decreto motivato il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione se non concordati assegnando il termine di non oltre sessanta giorni per il deposito dell'accordo di ristrutturazione e della relazione redatta dal professionista a norma del primo comma. Il decreto del precedente periodo è reclamabile a norma del quinto comma in quanto applicabile.

VIII. A seguito del deposito di un accordo di ristrutturazione dei debiti nei termini assegnati dal tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui al secondo, terzo, quarto e quinto comma. Se nel medesimo termine è depositata una domanda di concordato preventivo, si conservano gli effetti di cui ai commi sesto e settimo.”

L’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti disciplinato dal nostro ordinamento risulta quindi essere una procedura che si potrebbe definire come “preconcorsuale” di gestione della crisi d’impresa, alla quale può ricorrere l’imprenditore che si trova in uno stato di crisi, per tentare, stipulando un accordo con tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti, di arginare le difficoltà della propria impresa e determinare il risanamento della propria esposizione debitoria.

Questo accordo deve poggiare su di un piano attestato da un professionista indipendente al quale spetta il compito di garantire l’attuabilità e la veridicità dei dati in esso presenti. Le soluzioni negoziali della crisi e dell’insolvenza possono infatti realmente prevalere sulla liquidazione fallimentare ed essere concesse all’imprenditore in stato di crisi quando si fondino su di un progetto di riorganizzazione o di liquidazione concretamente realizzabili e rispettino dati requisiti legali, incontrando al contempo il favore della

maggioranza dei creditori2.

Per quanto attiene ai contenuti degli accordi di ristrutturazione non vi è la possibilità di inquadrare uno schema tipico ovvero definire accordi standardizzati, ma, al contrario,

                                                                                                               

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grazie all’abbondante libertà lasciata dal legislatore, l’imprenditore ha la possibilità di elaborare un piano strutturalmente ampio e flessibile.

Il contenuto degli accordi ex art. 182 bis L.F. può infatti interessare le articolazioni più diverse del piano che si intende porre in essere e delle necessità dei creditori che a tale piano partecipano, con l’obiettivo di poter anche garantire il regolare soddisfacimento dei crediti riferiti ai creditori non aderenti o dissenzienti all’accordo proposto.

All’imprenditore viene lasciata la facoltà di prevedere svariate misure di intervento, potendo egli assumere accordi con le forme e le modalità che ritiene più opportune in base al contesto societario, la natura del mercato in cui si opera, alla struttura finanziaria e manageriale della società coinvolta nonché in base alle dinamiche esistenti con le varie classi di creditori ed in particolare gli istituti di credito.

Questa libertà è stata lasciata dal legislatore con l’idea che sia l’imprenditore stesso a ricercare un equilibrio tra la propria esigenza di risanamento della crisi che coinvolge l’impresa e la proposizione alla massa dei creditori di un appropriato piano che offra loro un soddisfacimento del credito concretamente più vantaggioso rispetto alla soddisfazione che gli stessi potrebbero trovare in uno scenario di fallimento o anche più semplicemente in relazione ad un concordato preventivo.

Trovare questo punto di equilibro non è certo semplice poiché in una crisi d’impresa vanno ad intrecciarsi due tipi di interessi contrapposti: quello dell’imprenditore, che cerca di risolvere lo stato di crisi e quello dei creditori sociali che potrebbero subire gravi danni economici dal mancato soddisfacimento dei loro diritti.

È utile sottolineare come però lo scopo principe dell’istituto sia la ristrutturazione dei debiti, tutelando al meglio gli interessi dei creditori, garantendo infatti a coloro che non intendono partecipare all’operazione una soddisfazione integrale, senza alcune espresse volontà da parte del legislatore di perseguire prospettive di risanamento dell’impresa. L’intento del legislatore, infatti, con l’introduzione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, è stato chiaramente quello di favorire una soluzione all’insolvenza che avvicinasse in qualche modo i due interessi contrapposti, con un intervento pubblico terzo di lieve entità, consentendo a quegli “attori del mercato” di regolamentare direttamente i propri diritti e rimodellarli alla luce delle singole situazioni di crisi, lasciando loro la libertà di stipulare accordi stragiudiziali nell’ambito della crisi

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d’impresa ed affidando la risoluzione degli interessi dei creditori completamente alla individuale disponibilità delle parti.

Così, nell’intento di favorire l’autonomia privata e snellire le procedure di soluzione della crisi si è prevista all’interno dell’ordinamento fallimentare la disciplina dell’art. 182 bis L.F.

L’art. 182 bis L.F. traccia le linee guida di una procedura particolarmente scarna, che si limita nella sostanza ad indicare meramente le modalità, i tempi e le forme generali di una sequenza procedimentale, volutamente non indicando né un contenuto minimo degli accordi, né i suoi possibili effetti tipici, ponendo forte fiducia nella capacità dell’imprenditore in primis di proporre un piano realmente congruo e, secondariamente, nella volontà delle parti di raggiungere un’intesa con parziale beneficio di tutti, pur garantendo gli interessi di quei creditori che potrebbero non aderire alle soluzioni proposte.

Da una parte è ai più evidente la volontà di promuovere gli accordi stragiudiziali

attraverso l’art. 67 lettera d) L.F.3, esentando ogni atto da possibili azioni esecutive e

dall’altra quella di fornire all’accordo fra creditori e debitore tutta l’assistenza possibile, attraverso il blocco della moratoria dei pagamenti, consentendo il blocco del decorso

degli interessi, ecc4.

L’imprenditore può in tale senso, infatti, presentare al foro competente, nel corso delle trattative, un’apposita “istanza di sospensione”, al fine di evitare che l’esercizio di pretese di taluni creditori, durante la fase preliminare di formazione dell’accordo, possa pregiudicare gli interessi di altri creditori ed ostacolare o persino viziare in modo sostanziale il tentativo di risanamento dell’impresa e di regolazione negoziale dell’insolvenza.

Tale procedura cautelativa, ex c. 6 e 7 dell’art. 182 bis L.F., è stata prevista dal legislatore ed è indirizzata ad inibire le azioni di quei creditori cui non è in corso alcuna negoziazione con l’intento di tutelare gli interessi degli altri.

Questo modus operandi del legislatore è stato da più parti visto come in linea con il filo conduttore dell’impostazione ideologica di fondo delle ultime riforme della Legge                                                                                                                

3 l'art. 67, terzo comma, lett. d, L.F. elenca tra le esenzioni dalla revocatoria, gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione del piano.

4 A. P

ALUCHOWSKI, “Accordi di ristrutturazione del debito 5 anni dopo”, p.4, reperibile in

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Fallimentare, cioè una corretta espressione della mutata filosofia del sistema concorsuale volto ad una maggiore tutela dei valori aziendali e alla tempestiva

emersione delle situazioni di crisi dell’impresa5, e gli accordi di ristrutturazione dei

debiti, così come delineati dall’art. 182 bis L.F., si sono posti come una meno incerta e rischiosa alternativa rispetto ai concordati stragiudiziali e divenuti in questo modo uno strumento di soluzione della crisi di natura “parzialmente giudiziale”, cioè un anello di congiunzione fra due realtà e due scelte politiche precise.

1.1. ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE: EVOLUZIONE LEGISLATIVA

Per molto tempo, e soprattutto dagli anni ’90, creditori e debitori erano soliti ricorrere al concordato stragiudiziale per definire appropriatamente i loro rapporti onde superare lo stato di insolvenza.

Questi accordi presentavano, rispetto a qualsiasi altra soluzione giudiziale, il sicuro vantaggio di una maggiore flessibilità, duttilità e riservatezza nel risolvere anche la crisi dei gruppi d’impresa (fenomeno ignorato dal legislatore), rappresentando una massima espressione dell’autonomia privata.

Questi accordi stragiudiziali, inoltre, proprio poiché conseguiti al di fuori del controllo di un Tribunale o del giudice, risultavano particolarmente idonei al fine del superamento dello stato di insolvenza quando grazie all’intesa con i creditori aderenti si riusciva a

reperire risorse per il soddisfacimento dei creditori non aderenti6.

Contestualmente però questi accordi che venivano raggiunti tra i debitori e i creditori presentavano non pochi problemi, realizzandosi questi nella prassi comune senza alcuna                                                                                                                

5 AA.VV. “Commentario breve legge fallimentare Maffei Alberti”, p. 1250. 6 F

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reale regolamentazione o certezza giuridica che potesse in qualche modo tutelare i diritti di entrambe le parti in causa.

Si discuteva, infatti, se questi accordi potessero essere considerati leciti e si dubitava

della loro meritevolezza sociale ai fini della validità del contratto ex art. 1322 c.c.7,

esponendo così a profili di rischio sia da una parte l’imprenditore, il quale poteva nell'ipotesi, successiva ed eventuale, di dichiarazione di fallimento, essere esposto ad una contestazione per bancarotta preferenziale ex art. 216 L.F., sia dall’altra i creditori, che potevano essere chiamati in giudizio con azioni revocatorie dalla curatela fallimentare oppure, nel caso di apporto di c.d. nuova finanza, poteva essere loro

contestata la concessione abusiva di un credito8.

Le convenzioni stragiudiziali presentavano quindi non poche problematicità e si confrontavano con una pluralità di ostacoli che non consentiva loro di conseguire un risultato sicuro.

Il legislatore, quindi, recepita l’esigenza di aiutare con un istituto ad hoc l’imprenditore insolvente cercò una sorta di “terza via” fra il concordato “stragiudiziale” ed il concordato preventivo: uno strumento di composizione concordata della crisi, fino a quel momento mancante all’interno del nostro ordinamento, da un parte cercando di mantenere alcuni aspetti positivi dell’esperienza degli accordi stragiudiziali e dall’altra volendo andare ad istituzionalizzare e in qualche modo regolare e procedimentalizzare una soluzione negoziale con l’idea di prevedere un controllo, una sorta di giudizio di

“conformità”, da parte del Tribunale fallimentare competente in sede di omologazione9,

cercando di renderla così più sicura e concretamente più praticabile.

Il primo progetto complessivo di riforma della L.F., fu il disegno di legge delega n. C-7458, recante “Delega al Governo per la riforma delle procedure relative alle imprese

in crisi”, presentato agli organi legislativi il 24 novembre del 200010, che come M. Panucci e M. Bianchini delineano “..conteneva una proposta di legge delega di

iniziativa governativa, che mirava a riordinare e riformare le procedure concorsuali, predisponendo una procedura unitaria di crisi di carattere anticipatorio ed una di

                                                                                                               

7 Fabiani M.,“Diritto fallimentare. Principi e regole” , p.1.

8 A. Guido,“Accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F”. , in www.marioguido.it 9 Fabiani M.,op.cit. , p.2.

10 M. Panucci – M. Bianchini, “La riforma della disciplina della crisi d’impresa”, reperibile su www.federexport.confindustria.it

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insolvenza, eventuale e successiva, che sostituivano quelle di fallimento, concordato preventivo, amministrazione controllata, liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi..”

Questo progetto quindi presentava un mezzo per la soluzione della crisi d’impresa proponendo una procedura che poteva essere avviata su istanza di parte del debitore nel momento in cui si ravvedevano chiari segnali di squilibrio patrimoniale, economico o finanziario che avrebbero potuto sfociare nell’insolvenza.

Questa procedura, che si caratterizzava per la conservazione della gestione dell’impresa da parte del debitore ma sotto un continuo intervento di merito da parte del commissario giudiziale e del Giudice delegato, prevedeva che il debitore stesso presentasse un piano di estinzione dei debiti e che prevedesse un orizzonte temporale, cioè una data, entro la quale questo doveva essere attuato (solitamente due anni).

Questi accordi potevano prevedere una forma di ristrutturazione “parziale” del debito,

se coinvolta una sola classe di creditori11, oppure ricomprendere l’intera massa dei

creditori, i c.d. “accordi di composizione negoziale della crisi”, accordi omologati dall’autorità giudiziaria, che si ispiravano a soluzioni già vigenti in altri ordinamenti, in particolare a quello americano.

Altro aspetto interessante del disegno di legge C-7497 era che questo da una parte proponeva le suddette procedure che, al contrario della disciplina attuale dell’art. 182 bis L.F., presentavano connotati tipici di una procedura concorsuale come la previsione di un’adunanza dei creditori chiamati ad esprimere il voto sul piano e l’adozione di criteri di maggioranza per l’approvazione del piano vincolanti anche per i creditori dissenzienti; dall’altra, allo stesso tempo, il disegno di legge si prometteva di offrire misure di incentivazione all’adozione tempestiva di accordi stragiudiziali, sotto forma di una normativa fiscale di favore per i creditori e per il debitore, di dilazioni di pagamento di tributi e contributi previdenziali, o ancora di diminuzione di sanzioni per il mancato pagamento di debiti tributari e contributivi.

Nonostante questa apparente completezza ed elaborata articolazione, le suddette proposte di legge non ebbero seguito e non furono approvate nell’ambito della Riforma, e questo portò nel 2001 all’istituzione di una Commissione ad hoc ( la c.d.                                                                                                                

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“Commissione Trevisanato” ) alla quale fu affidato il compito di elaborare un autonomo progetto di Legge Delega da presentare in Parlamento.

Nel luglio del 2003 questa Commissione presentò due testi di disegni di legge che furono presentati al vaglio del Ministro di Giustizia, alternativi, sul tema delle procedure di composizione concordata della crisi.

I testi, importanti da analizzare ed ancora studiati in dottrina per le somiglianze con la disciplina degli attuali accordi di ristrutturazione dei debiti e per le soluzioni che presentavano alcune problematicità che anche l’attuale normativa porta con sé, prevedevano in particolare che il Tribunale nominasse, a seguito dell’omologa del piano, un commissario giudiziale, un giudice delegato ed un consiglio dei creditori, ai quali venivano affidati compiti di controllo sull’amministrazione del patrimonio dell’imprenditore, compiti di sorveglianza e poteri consultivi.

All’organo giudiziale veniva assegnato inoltre il diritto di disporre in ogni momento, anche d’ufficio, la risoluzione della procedura per gravi inadempimenti delle obbligazione derivanti dagli accordi ( “….allorché emergano atti di frode o risultino

insussistenti o siano venuti meno i presupposti per la sua prosecuzione…” recita lo

schema) o l’annullamento per una fraudolenta composizione della maggioranza, entro due anni dalla chiusura della procedura di crisi, disciplinando, pertanto, la fase patologica degli accordi.

La relazione illustrativa stessa dei progetti di legge commentava come la nuova disciplina fosse orientata a proporre una cornice giuridica alla prassi comune, all’esperienze, volta a privilegiare l’individuazione negoziale tra i principali creditori ed

il debitore delle migliori forme di soluzione stragiudiziale alla crisi nell’impresa12.

L’analogia tra gli accordi ex art. 182 bis L.F. e quelli proposti dalla Commissione “Trevisanato” si palesava anche in riferimento ai presupposti necessari per accedere a tale procedura: in questi ultimi, infatti, l’accordo di ristrutturazione del debito aveva come presupposto necessario per la sua realizzazione il raggiungimento di una percentuale minima di adesioni, rappresentato dal 75% dei crediti ovvero il 70% dei crediti qualora per due terzi fossero riferibili a banche o altri intermediari finanziari, nonché era disciplinata la presentazione di una relazione sottoscritta da un professionista                                                                                                                

12 Art. 1 del disegno di legge recante “Delega al governo per la riforma organica della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza”

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abilitato sulla reale fattibilità del piano e la sua conformità ad un soddisfacimento

immediato ed integrale dei creditori estranei13.

Una interessante novità, invece, che era stata introdotta da questo disegno di Legge, era la previsione di meccanismi di allerta e prevenzione della crisi, disciplinati all’art. 3, che prevedevano l’attribuzione alle pubbliche amministrazioni del dovere di evidenziare, attraverso l’iscrizione in un apposito registro, i mancati pagamenti di crediti pubblici e i crediti iscritti a ruolo dagli enti previdenziali e l’obbligo a carico degli organi di controllo dell’impresa di individuare le situazioni di difficoltà e di segnalarle all’autorità

giudiziaria14.

Il progetto di Legge Delega non ebbe però seguito ed il legislatore preferì percorrere la strada della modifica della legge fallimentare preesistente, con successivi e numerosi interventi correttivi.

Difatti con la legge del 14 maggio 2005, n. 80, di conversione del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, cosiddetto “decreto sulla competitività”, all’articolo 2, il legislatore ha apportato significative modifiche agli istituti della revocatoria fallimentare e del concordato preventivo ed ha introdotto, spinto anche delle Associazioni dei creditori istituzionali (dell’A.B.I., Banca d’Italia e Confindustria in particolare), un istituto del tutto nuovo per

il nostro ordinamento: l’Accordo di Ristrutturazione dei debiti15.

L’attuale testo, che è stato più volte oggetto di modifica, prevede che l’imprenditore in stato di crisi abbia la possibilità di domandare, depositando la documentazione di cui all’art. 161 L.F., l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti.

La prima formulazione dell’articolo introduceva quella che ad oggi potrebbe essere definita come la struttura portante dell'istituto: veniva infatti offerta al debitore la possibilità di perseguire una ristrutturazione della propria posizione debitoria mediante la stipula di accordi con i propri creditori andando a modificare i diritti stessi delle parti

                                                                                                               

13 Art. 4 del disegno di legge recante “Delega al governo per la riforma organica della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza”

14 Art. 4 , op.cit. “…L’eventualità di questo intervento del magistrato costituisce una delle novità della riforma proposta nel Testo, che fa assegnamento su un nuovo ruolo del giudice particolarmente delicato in un contesto (la situazione di crisi che non sia ancora degenerata in vera e propria insolvenza) esso stesso delicato, ove occorrono competenza, fermezza, ma anche discrezione. “

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prima dell’istaurazione di un procedimento giudiziario regolato dal Tribunale e senza dover rispettare il principio della par condicio creditorum.

Era inoltre prevista la medesima soglia minima dei creditori aderenti agli accordi che rappresentassero almeno il 60% del passivo ed erano previsti oneri di pubblicazione nel registro delle imprese, di un integrale soddisfacimento dei creditori estranei, della predisposizione di un procedimento di omologa avanti al Tribunale ed infine di predisposizione di una relazione di un esperto attestante la fattibilità dell'accordo ed idoneità ad assicurare il citato soddisfacimento dei creditori estranei.

Il D.L. 35/2005 di cui sopra, in vigore dal 17/03/2005, convertito con L. 80/2005 e il D.lgs. 5 del 2006, entrato in vigore il 17/07/2006, risultarono però in una certa misura deludenti nella loro formulazione, presentando secondo la dottrina una disciplina eccessivamente lacunosa ed inadatta a soddisfare le esigenze di un imprenditore in stato di crisi.

Per questo i sopracitati interventi sono stati oggetto di modifiche allo scopo di innalzare il grado di interesse per l’istituto, in prima istanza con la L. 169/2007, con cui il legislatore ha recepito l’esigenza di proteggere, seppur per un limitato periodo di tempo, il patrimonio del debitore dalle azioni esecutive dei creditori durante la fase della omologazione dell’accordo (c.d. automatic stay).

Il legislatore ha poi successivamente ancora toccato la disciplina con vari interventi di riforma, di impatto decisamente maggiore e rispondenti ad alcune esigenze iniziali non ancora soddisfatte, che da una parte hanno interessato, attraverso adeguate procedure, la fase preliminare di preparazione all’accordo e dall’altra hanno ampliato gli effetti esterni e futuribili degli accordi, con finalità di agevolazione e salvaguardia del risanamento dell’impresa rafforzati dal collegamento con la procedura di concordato

preventivo16.

Infatti, con il D.L. del 2010 (D.L. 78/2010 pubblicato in G.U. n. 176 del 30/7/2010, convertito con la L. 122/2010) e con il D.L. 83/2012 il legislatore ha introdotto il blocco delle azioni esecutive sin dalla fase delle trattative avviate con i creditori, cercando di aumentare le misure protettive del patrimonio del debitore, e la prededucibilità dei finanziamenti concessi da intermediari finanziari in funzione e/o in esecuzione degli                                                                                                                

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accordi e l’inapplicabilità di norme penali fallimentari alle operazioni compiute in esecuzione dell’accordo.

L’innesto del divieto di iniziare o proseguire dazioni cautelari ed esecutive (che si trova ora al comma 3 dell’art. 182 bis L.F.), era difatti una necessità, seppur per una durata complessiva di solo sessanta giorni e soltanto limitatamente alla fase delle trattative, per consentire che, a causa della possibili more del giudizio di omologazione, l’imprenditore non vedesse vanificarsi il suo tentativo di risolvere la crisi d’impresa attraverso gli accordi di ristrutturazione.

Infine con la Legge 134/2012 il legislatore ha aumentato il livello di funzionalità dell’istituto apportando ulteriori rilevanti modifiche sul piano della moratoria concessa nei confronti dei creditori estranei, introducendo un termine entro il quale pagare integralmente gli stessi, stabilito in centoventi giorni dalla omologazione dell’accordo nel caso di crediti già scaduti e centoventi giorni dalla scadenza nel caso che questa ricada in un periodo successivo all’omologa, portando l’articolo all’ultima formulazione attuale.

L’istituto disciplinato dall’art. 182 bis L.F. risulta ad oggi riservato agli imprenditori commerciali non esclusi dal fallimento o dall’amministrazione straordinaria e gli accordi da esso previsti devono essere stipulati con tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dell’ammontare dei crediti, e presentati unitamente ad una relazione redatta da un professionista, designato dal debitore stesso.

Il professionista, secondo quanto disposto dall’articolo stesso, deve essere in possesso dei requisiti di cui all’art. 67 L.F., c.3, l. d), ed assume un ruolo che risulta di cruciale importanza all’interno della procedura, dovendo egli, con la sua relazione, garantire sulla veridicità dei dati aziendali e sulla fattibilità dell’accordo stesso, ponendo particolare attenzione alla sua idoneità ad assicurare un pagamento integrale dei diritti

vantati dai creditori c.d. “estranei”, in quanto non aderenti all’accordo proposto17.

La ristrutturazione infatti, non riguarda necessariamente tutti i debiti dell’imprenditore, ma è sufficiente una percentuale minima del 60%, ed i debiti residui, non considerati

                                                                                                               

17 In questo aspetto gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis L.F. ricalcano completamente i sopracitati accordi di ristrutturazione dei debiti precedentemente proposti dalla c.d. “Commissione Trevisanato”

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dall’accordo, devono essere soddisfatti integralmente secondo le modalità previste nel titolo costitutivo dell’obbligazione, ovvero, in mancanza, dalla legge.

La denominazione “ristrutturazione dei debiti”, sta ad indicare, quindi, non la reale estinzione del debito pregresso, ma una “modifica” della struttura dei debiti

dell’impresa, in termini di ammontare, scadenza, interessi e garanzie18; una modifica

sostanziale che viene apportata ai diritti che i creditori vantano nei confronti dell’imprenditore che versa in stato di crisi.

Aderendo, infatti, ad un accordo di ristrutturazione dei debiti si può decidere un’estinzione totale o parziale delle obbligazioni, una modifica alla scadenza, è possibile la creazione di nuove obbligazioni alla luce di finanziamenti atti per estinguere le precedenti obbligazioni, la creazione di garanzie ad hoc od anche l’impegno a stipulare negozi attuativi.

Queste possibilità danno quindi risalto chiaramente all’essenziale profilo di “flessibilità”, in relazione alle modalità ed ai tempi, che la soluzione negoziale prevista dell’art. 182 bis L.F. offre per il soddisfacimento dei creditori, lasciando la possibilità alle parti di rimodulare liberamente i contratti esistenti, senza vincoli derivanti dalla par

condicio creditorum e lontana dalla “concorsualità” che si realizza in forme molte

diverse nel fallimento.

È utile quindi evidenziare come gli accordi di ristrutturazione dei debiti, da considerarsi secondo la dottrina maggioritaria come strumento privatistico tanto in una fase pre-giudiziale sia nella fase di esecuzione dello stesso, nonostante come già precedentemente detto nasca come ulteriore soluzione di salvaguardia del complesso produttivo e di continuità d’impresa a disposizione del debitore, possano assumere nella pratica differenti configurazioni a seconda della diversa applicazione del principio di liquidità.

Possono infatti manifestarsi accordi di ristrutturazione dei debiti con recupero totale dell’impresa e conseguente continuazione totale dell’esercizio della propria attività da parte del debitore, accordi di ristrutturazione dei debiti con un parziale recupero dell’impresa e conseguente liquidazione parziale dei beni non strategici al fine del

                                                                                                                18 AA.VV., op. cit., p.2.

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soddisfacimento della massa creditizia, ed infine, poco usuali, accordi di ristrutturazione dei debiti integralmente liquidatori.

Il tema della continuità assume grande delicatezza per le imprese in crisi e soprattutto per le imprese che per fronteggiare l’insolvenza valutano la possibilità di predisporre piani di ristrutturazione tramite lo strumento degli accordi ex art. 182 bis L.F.

Perseguire la strada dell’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti può portare all’imprenditore la possibilità di avere un procedimento snello e meno oneroso del concordato preventivo, la possibilità di modellare il contenuto del piano sulla base delle proprie esigenze e necessità senza alcune vincolo legato a contenuti tipizzati dal legislatore con l’unico limite della meritevolezza della causa; inoltre vi è la possibilità di garantire la prededucibilità per la c.d. finanza ponte ed in esecuzione, quindi di una tutela in ogni periodo dell’accordo per quei finanziamenti spesso essenziali per la buona riuscita della procedura; la non vigenza della par condicio creditorum; il blocco della azioni esecutive; l’esenzione da azioni revocatorie, una ingerenza limitata del tribunale. L’imprenditore infatti può godere del vantaggio di rimanere nella propria completa facoltà di continuare a gestire l’impresa, in quanto l’accordo non determina alcuna forma di spossessamento, neppure parziale, mentre il tribunale, al quale non sono dati poteri durante la fase esecutiva dell’accordo, è dato esclusivamente il dovere di omologare l’accordo dopo aver verificato la serietà del piano e la sua idoneità a garantire il regolare pagamento dei creditori estranei all’accordo.

Tra gli svantaggi vi è sicuramente la difficoltà di trovare un accordo con tutti i creditori, l’obbligatorietà della soddisfazione integrale dei creditori non aderenti o dissenzienti e soprattutto la mancata possibilità di cristallizzare l’esposizione debitoria dell’imprenditore (salvo per determinati debiti su accordo specifico dei creditori aderenti) ai fini di consentire la prosecuzione dell’attività dell’impresa, possibilità che,

secondo la dottrina, potrebbe aiutare a ritardare la dichiarazione di insolvenza19.

       

                                                                                                               

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1.2. NATURA GIURIDICA DEGLI ACCORDI

Per quanto attiene alla natura giuridica degli accordi in oggetto presentati dal legislatore la dottrina ha approfondito la problematica guardando alla questione soprattutto dal punto di vista delle categorie civilistiche.

Il tema risulta importante soprattutto per i molteplici risvolti pratici che porta con sé: riconoscere o meno una natura concorsuale agli accordi di ristrutturazione dei debiti può comportare importanti conseguenze sia per l’imprenditore che per i creditori, soprattutto

in caso di risoluzione o annullamento di un accordo20.

La problematica non presenta quindi un valore meramente teorico e dottrinale, ma può comportare degli effetti subito individuabili durante la procedura (seppur come già detto questa sia allo stato non ben definita) : l’applicazione del Regolamento (CE) 1346/2000

relativo ad alcuni aspetti delle procedure di insolvenza21 e la possibilità che per i crediti

che sorgono durante il procedimento in oggetto di rientrare nel rango della prededuzione. Due sono sostanzialmente le possibili interpretazioni dell’istituto: la prima, inizialmente maggioritaria, poggia sulla tesi che porterebbe a riconoscere agli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F. una natura di tipo privatistico, evidenziando un generalizzato orientamento tendente a ricondurre gli accordi di ristrutturazione nell’ambito privatistico ed arrivando a definirli un “normale contratto di diritto

privato”22, che, qualora soddisfi determinate caratteristiche, può godere di determinate

tutele.

                                                                                                                20 AA.VV.,op.cit., p. 66.

21 Il Regolamento ora citato ha per oggetto le procedure concorsuali con implicazioni transfrontaliere:

(i) fondate sull’insolvenza del debitore, sia esso una persona fisica o giuridica, commerciante o non commerciante;

(ii) che comportano lo spossessamento parziale o totale del debitore e la designazione di un curatore;

(iii) che richiedono l'intervento di un'autorità giudiziaria ovvero di persone o organi legittimati dalla legge nazionale ad aprire procedure di insolvenza ufficialmente riconosciute, e dotate di efficacia giuridica, nello Stato membro in cui la procedura è stata aperta o a prendere decisioni nel corso di questa.

22 M

(22)

La seconda interpretazione invece, inizialmente minoritaria, inquadra gli accordi di ristrutturazione dei debiti come accordi, sì raggiunti tra soggetti privati, ma che qualora si concludano nell’ottemperanza di determinate regole e limiti procedimentali, producono specifici effetti previsti dalla legge e riscontrabili anche in altre procedure concorsuali, che lascerebbero pensare ad un possibile inserimento dell’istituto in esame nell’ambito dei procedimenti concorsuali.

Svariate sono le ragioni su cui poggia la prima interpretazione: i generali rilievi pongono l’attenzione sull’estrema snellezza della procedura e sulla mancanza di una organizzazione del voto in adunanza per il raggiungimento di una maggioranza

qualificata23, ma, in particolare, è da sottolineare come a differenza delle altre procedure

concorsuali non sia previsto un iter ben definito ed un provvedimento vero e proprio di

apertura24 della procedura.

La stipulazione di accordi di ristrutturazione dei debiti o anche semplicemente l’inizio di una qualsivoglia fase di trattative tra imprenditore e creditori non determina in alcun modo l’apertura di un concorso dei creditori sul patrimonio dell’impresa, non vi è l’obbligatorietà di rispettare la par condicio creditorum (potendo l’imprenditore negoziare liberamente con i singoli creditori) ed, ancora, non è prevista la nomina di alcun organo terzo della procedura (come il commissario, il giudice delegato ed il comitato dei creditori) a tutela e rappresentanza della massa dei creditori.

È inoltre importante come, a differenza di ogni altra procedura concorsuale, l’imprenditore, facendo ricorso all’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti, rimanga il dominus della propria impresa, non venendone in alcun modo spossessato e continuando a svolgere la propria attività senza che alcuno dei suoi atti sia in qualche modo soggetto al vaglio o in qualche misura al controllo di un organo terzo di vigilanza. Secondo una parte della dottrina quindi, soprattutto inizialmente, alla luce di questi aspetti caratterizzanti l’istituto, l’accordo ex art. 182 bis L.F. sarebbe da considerarsi eccessivamente deficitario in relazione ad alcuni aspetti tipici delle procedure concorsuali e che quindi fosse inevitabile guardare a questo seguendo la linea della tesi privatistica.

                                                                                                                23 M

AFFEI ALBERTI A., op. cit.,p. 1231.

(23)

La seconda tesi invece, di orientamento opposto, riconosce agli accordi di ristrutturazione dei debiti una peculiare posizione nell’ambito dei procedimenti concorsuali ed era portata inizialmente a considerare l’istituto una sorta di Concordato Preventivo “minore” o “semplificato”, adducendo come anche la collocazione stessa della norma, all’interno della Legge Fallimentare tra le disposizioni relative al Concordato Preventivo, potesse indurre a questa valutazione.

Il fatto che la disposizione di cui all’art. 182 bis L.F. sia inserita all’interno delle norme che regolano il Concordato Preventivo può effettivamente indirizzare un’interpretazione

verso la “suggestione”25 che questo istituto non debba essere considerato un reale

istituto autonomo, ma più una sorta di Concordato Preventivo “minore”, una variante di quest’ultimo.

A fare parzialmente luce sulla questione, indirizzando la lettura dell’art. 182 bis L.F. e portando la dottrina a considerare gli accordi di ristrutturazione dei debiti come un istituto autonomo e distinto da quello del concordato preventivo è stato inizialmente il Tribunale di Milano che, con la sentenza n. 701 del 23 gennaio del 2007, stabiliva che:

“Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (…) non costituiscono una forma di concordato preventivo semplificato, ma integrano un autonomo istituto giuridico assimilabile ad un “pactum de non petendo” e, per la pluralità di parti, ad un negozio di diritto privato qualificabile come contratto bilaterale plurisoggettivo a causa unitaria”.

Il Tribunale di Milano, con questa sentenza, sembrava porre un grande punto fermo quantomeno sulla possibilità o meno di rappresentare da parte dell’istituto di cui all’art. 182 bis L.F. le veci di una sorta di concordato preventivo “minore” escludendo perentoriamente questa tesi.

In dottrina però, seppur consolidatasi alla luce delle sopracitate osservazioni, l’idea degli accordi di ristrutturazione come di un istituto autonomo rispetto al concordato preventivo, è continuato il dibattito sulla natura concorsuale o meno di questi.

Il discrimen26 della controversia, stando soprattutto all’opinione degli studiosi

favorevoli alla collocazione degli accordi in oggetto in ambito concorsuale, era e sarebbe tuttora da riconoscere nelle finalità pubblicistiche, più o meno individuabili                                                                                                                

25 Fabiani M., op. cit. p.3 26 M

(24)

all’interno dell’istituto, che a loro volta tipicamente caratterizzano le altre procedure concorsuali.

Queste finalità pubblicistiche sarebbero testimoniate sia dalla necessità che gli accordi si concludano nel rispetto del principio di concorsualità sia che questi debbano essere sottoposti al vaglio dell’autorità giudiziaria per l’omologazione.

Su questo ultimo punto di intervento la Legge Fallimentare risulta chiara e non lascia spazio all’interpretazione, mentre più opinabile e discutibile risulta invece la presenza o meno del principio di concorsualità, dovendosi primariamente inquadrare i limiti stessi di questo principio.

Con il correttivo del 2007 e la Legge 122 del 2010, che hanno introdotto con il sesto comma il c.d. automatic stay, estendendo il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore alla fase delle trattative per un termine di sessanta giorni ed hanno allargato al rango di prededuzione ex art. 111 L.F. i finanziamenti ricevuti in esecuzione o in funzione degli accordi, la tesi a favore della natura concorsuale della procedura degli accordi di ristrutturazione ha riscosso ancora maggior seguito.

L’orientamento su cui si poggia questa tesi ha infatti assunto, ancora con maggior forza, l’idea che quel “principio di concorsualità” di cui sopra, sia da ricercare non nel fatto che una pluralità di creditori possano concorrere ad una distribuzione dei valori dell’imprenditore, bensì nel fatto che le iniziative dei singoli creditori vengano impedite, o sospese, per un certo lasso di tempo, al fine di favorire il perseguimento di un interesse collettivo.

La dottrina, quindi, ad oggi sarebbe portata a collocare la disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti nell’ambito delle procedure concorsuali, in quanto orientata a rinvenire all’interno di questo istituto un principio di concorsualità di tipo “negoziale”, differente da quello tradizionale di tipo “satisfattivo”, individuandolo nel divieto dell’esercizio di azioni cautelari o esecutive individuali da parte dei creditori poiché è proprio attraverso quelle azioni che si potrebbero vedere compromessi gli interessi della collettività dei creditori e verrebbe a mancare il fine pubblicistico.

   

(25)

2. STRUTTURA E CONTENUTO DEGLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE

Guardando alla struttura che devono presentare gli accordi di ristrutturazione dei debiti, sulla quale il Legislatore non si è espresso, questi vengono inquadrati dalla giurisprudenza come “contratti atipici”, ma l’assenza, all’interno della Legge Fallimentare, di una qualsiasi indicazione sul contenuto che gli accordi debbano avere, ha fatto sorgere non poche controversie anche circa la loro qualificazione.

La questio principale, sulla quale la dottrina sembrava in più occasioni focalizzare l’attenzione per cercare di dare un’interpretazione univoca, si incentrava sulla possibilità che gli accordi di ristrutturazione dei debiti che l’imprenditore instaura con ciascuno dei creditori, potessero avere o una loro natura e causa unitaria prevendendo per il debitore l’ipotesi di stipulare un’intesa unitaria plurilaterale, oppure che costituissero la sommatoria di singoli negozi con il fine di un soddisfacimento economico come comune denominatore od ancora che fossero dotati ciascuno di una propria specifica causa, lasciando ancora più larga autonomia all’imprenditore insolvente per raggiungere

specifiche e differenti intese con ciascuno dei creditori ( o gruppi di essi )27.

L’interpretazione che si può dare presenta numerose implicazioni a livello pratico e talvolta può portare anche ad una responsabilità per l’imprenditore in casi come lo scioglimento o l’invalidità di un contratto, od ancor più nella eventualità di una successiva dichiarazione di fallimento (si pensi alla possibilità che l’imprenditore incorra in reati come la “bancarotta preferenziale”).

Per questo la dottrina si è a lungo interrogata sulla questione ed è possibile in primo luogo analizzare la tesi che un parte di questa sosteneva e sostiene tutt’ora, cioè che la ricostruzione più corretta sia quella che vedrebbe gli accordi di ristrutturazione come un unico atto a struttura plurilaterale, avallando l’ipotesi di un contratto a struttura

                                                                                                                27 P

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bilaterale, cioè un unico grande accordo che richiamerebbe la disciplina del “contratto

plurilaterale con comunione di scopo”28.

In particolare la dottrina, che in questa interpretazione segue un modello che viene definito “unitario”, si è espressa ragionando su come, allorquando il Tribunale omologhi un accordo articolato in più contratti, anche se tutti aventi una loro propria causa specifica, autonomi e separati, pur sempre questi vengono valutati nel loro insieme come un fascio di contratti, idoneo o meno a superare lo stato di crisi e ad ottemperare all’integrale soddisfacimento dei creditori rimasti estranei.

Nonostante quindi questi possano essere individuati come una serie di atti negoziali autonomi, vengono raccolti ed hanno il valore di un singolo ed unico contratto, definibile come il sopracitato c.d. “contratto plurilaterale con comunione di scopo”, in quanto soltanto nel loro incontro di volontà e nella loro concomitanza ed unione può

realizzarsi la rimozione dello stato di crisi29.

Tra le varie altre interpretazioni molto accreditato è anche l’orientamento giurisprudenziale che si pone invece sulla linea di definire gli accordi di ristrutturazione come “contratto bilaterale plurisoggettivo con causa unitaria” , negando la possibilità che questi possano avere ognuno una loro specifica causa.

Questa tesi poggia, (si pensi anche che citare il termine “accordi” anziché parlare di un singolo “accordo” unico sarebbe, ricorrendo a questo istituto, errato) sul fatto che al Tribunale debba essere presentato per l’omologa un singolo accordo di ristrutturazione dei debiti, un piano articolato se si vuole in più contratti, ma pur sempre singolo con una singola causa che è quella che porta ad adottare il procedimento ex art. 182 bis L.F. Proprio in virtù del fatto che questi contratti vengano assunti tra le parti secondo specifiche regole e limiti dell’istituto in oggetto, allora non sarebbe rilevante guardare alle singole ragioni che muove ogni singolo creditore ad accettare la proposta che viene loro fatta dall’imprenditore, ma più corretto è individuare una singola causa unitaria che è la stessa da cui parte il ricorso all’istituto.

Taluni in dottrina hanno ritenuto di poter definire ed individuare all’interno di un accordo presentato da un imprenditore una prima causa, c.d. di primo grado, che sarebbe quella insita in ciascuno dei singoli contratti e che spinge i creditori a dei sacrifici in                                                                                                                

28 M

AFFEI ALBERTI A.,op. cit., p. 1240.

29 M

(27)

termini di modificazione dei loro diritti e poi, secondariamente, una causa c.d. di secondo grado, che come già indicato consiste nel superamento della crisi o nell’eliminazione dell’insolvenza, che accomuna dal punto di vista giuridico i singoli contratti conducendoli alla unitarietà.

Indipendentemente dallo schema strutturale adottato, è universalmente riconosciuto nella prassi che l’imprenditore aderente all’istituto in oggetto, pur giovandosi delle libertà contenutistiche fornite dalla Legge Fallimentare, è opportuno che prenda durante la fase preliminare delle trattative determinati accorgimenti che possono aiutano a prevenire l’insorgere di non pochi problemi.

Infatti l’imprenditore, pur nel silenzio della legge che nulla dispone al riguardo, precauzionalmente è solito nella prassi assumere un dovere di informativa verso tutti i creditori aderenti all’accordo delle condizioni specifiche riservate ad ognuno di essi al fine di non incorrere in controversie od addirittura nella commissione di possibili reati. Si ritiene allo stesso tempo che non vi sia una necessità che questi accorgimenti debbano essere in qualche modo resi pubblici proprio perché l’omologazione finale dell’accordo non produce effetti nei confronti di terzi estranei mantenendo intatti i loro diritti e le loro individualità avendo diritto ad una soddisfazione totale del loro credito, e quindi non è necessario che questi vengano informati sul contenuto dei singoli contratti. Quanto più specificatamente al contenuto, il testo dell’art. 182 bis L.F. non fornisce alcuna indicazione specifica sulla formulazione che gli accordi in oggetto devono avere e questo dato non è da considerarsi frutto di negligenze od omissioni ma è stata una scelta consapevole del legislatore indirizzata a valorizzare la natura privatistica già analizzata che sta alla base dell’istituto e che si rimette alla piena autonomia delle parti. Il legislatore non indica nel testo come gli accordi debbano essere composti e questo secondo la dottrina starebbe ad indicare che quel principio di meritevolezza dei contratti di cui all’art. 1322 c.c. (già chiamato in causa nel primo capitolo), è in qualche modo assecondato in via presuntiva, poiché, descrivendo il legislatore il procedimento stesso di omologazione, si presuppone che gli accordi siano in sé leciti.

Quanto detto porta a concludere che la “causa” dei contratti che compongono un singolo accordo di ristrutturazione dei debiti sia una causa tipica, individuabile nella ristrutturazione del debito, e che per raggiungerla il legislatore abbia autorizzato le parti a perseguire “ogni mezzo”, (pur rimanendo l’obbligo di una corretta condotta), come

(28)

anche la stessa lesione della par condicio creditorum, legittima quando attuata con la consapevolezza da parte di ogni creditore e dell’imprenditore dei sacrifici ai quali sono chiamati, ed è da sottolineare come anche i creditori privilegiati nell’aderire all’accordo, possono acconsentire ad una decurtazione delle proprie pretese, in quanto anch’essi, alla pari dei chirografari, dispongono volontariamente del proprio diritto di credito.

I contenuti degli accordi possono essere i più vari e prevedere combinazioni fra le varie fattispecie; gli accordi sono di regola volti a consentire il ripristino dell’equilibrio gestionale e a risanare l’impresa, ma possono anche prevedere la liquidazione dell’intero patrimonio (o di parti di esso) per il soddisfacimento dei crediti.

Per cui il piano di ristrutturazione può articolarsi al suo interno sia in modifiche delle singole ragioni di credito attraverso il disegno di differenti operazioni come dilazioni di pagamento, remissioni totali o parziali dei debiti, rimodulazioni degli interessi, transazioni, conversioni del credito in obbligazioni o capitale di rischio, costituzioni di patrimoni destinati, etc.. sia in cessione di beni, cessione dell’azienda o di rami della stessa, od altre operazioni sul capitale sociale atte a soddisfare le pretese della massa dei creditori.

Ad ogni accordo possono essere inoltre apposte singole e specifiche condizioni, sia sospensive che risolutive, e/o limiti temporali compatibili con le operazioni concordate dalle parti, (specificità che risultano poi nella prassi soggette alla facoltà di informativa sopracitata da parte dell’imprenditore) e nella pratica è comune sia da parte dell’imprenditore sia da parte dei debitori cautelarsi disciplinando la sorte futura del rapporto giuridico in relazione al raggiungimento o meno della percentuale minima di adesione all’accordo del 60%, al rispetto delle scadenze e all’esito del giudizio di omologa da parte del Tribunale, ad una eventuale dichiarazione di fallimento così come allo stesso modo sempre da contratto può essere validamente pattuita la facoltà di

recesso da parte di entrambe le parti30.

                                                                                                                30 A

BATE F., “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, p. 27, consultabile su

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2.1. PRESUPPOSTI SOGGETTIVI

L’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti è stato introdotto nell’ordinamento Fallimentare e ciò sembrava, in origine, ad una prima lettura del testo dell’articolo in oggetto, già di per se sufficiente per poter sostenere come dell’istituto potessero servirsi tutti gli imprenditori che all’interno della Legge Fallimentare trovavano una loro disciplina.

Nella realtà dei fatti, invece, per la dottrina, quantomeno inizialmente, la soluzione non si presentava così lineare ed il dibattito è stato notevolmente acceso.

Certamente si è ritenuto quasi fin da subito fosse da escludere che alla procedura di cui all’art.182 bis L.F. potesse ricorrere l’insolvente c.d. “civile” in quanto è stata subito superata con il D.Lgs. 169/2007 l’originaria formulazione che indicava il soggetto legittimato con il termine “il debitore”.

Infatti, venendo confermato quanto già previsto dalla dottrina, con questo decreto correttivo veniva meno ogni dubbio circa l’ammissibilità o meno di una proposta

proveniente dal debitore civile31 e l’espressione generica “debitore” veniva sostituita

con “imprenditore in stato di crisi”, cioè quel soggetto sia insolvente sia in difficoltà (anche temporaneamente) per uno squilibrio economico e finanziario.

Con il citato D.L. n. 98/2011 conv. L. n. 111/2011 la legittimazione a servirsi dell’istituto è stata estesa anche al c.d. “imprenditore agricolo”, a prescindere dalle dimensioni, e tale estensione ha indotto parte della dottrina a porsi un interrogativo sulla possibilità che questa potesse applicarsi anche all’imprenditore c.d. “sottosoglia”, cioè non rientrante nei requisiti dimensionali previsti dall’art. 1 L.F., ma l’orientamento assolutamente prevalente in dottrina ha portato fino da subito ad escludere questa

eventualità32.

La disposizione della Legge Fallimentare in realtà si limita ad indicare che gli accordi in oggetto possono essere “mezzo” dell’imprenditore, senza nessuna ulteriore precisazione, nulla dicendo circa le qualità che questo “imprenditore” debba presentare, al contrario                                                                                                                

31 M

AFFEI ALBERTI A.,op. cit., p. 1235.

32 A

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di quanto viene disposto dall’art. 1 della Legge Fallimentare, e ciò porta ad interpretare l’istituto traendo la conclusione che questo possa essere proposto da qualsiasi imprenditore sia esso imprenditore individuale persona fisica, società o diverso ente,

equiparando l’istituto in esame a quello del concordato preventivo33.

È possibile evidenziare come, inoltre, con la già citata modifica ad opera della legge n.3/2012, le procedure di composizione della Crisi da Sovraindebitamento, cioè Accordi e Piani del Consumatore, e le procedure di liquidazione del patrimonio, tutte destinate al debitore non assoggettabile alle procedure concorsuali, siano state inserite all’interno dell’ordinamento “…spezzando il legame della disciplina concorsuale italiana con la

figura dell’imprenditore commerciale quale presupposto soggettivo delle procedure concorsuali…34”; questo ampliamento ulteriore darebbe secondo la dottrina conferma

alla conclusione che l’intenzione del legislatore sia quella di riservare l’istituto ex art. 182 bis L.F. agli imprenditori commerciali assoggettabili al fallimento, alle forme di amministrazione straordinaria o alla liquidazione coatta amministrativa, nonché agli

imprenditori agricoli”35.

Ci si pone inoltre in dottrina l’interrogativo se si possano giovare della procedura degli accordi di ristrutturazione dei debiti gli imprenditori commerciali non iscritti al Registro delle Imprese, cioè le c.d. “società irregolari”.

Per cercare di dare una soluzione a questo quesito ci si poggia sulla prassi, che porta a considerare che ciò che realmente rileva (anche ai fini della dichiarazione di fallimento) è che un soggetto svolga, in concreto, l’attività di impresa.

Alla luce di questa considerazione è logicamente rilevabile che, si naturalmente l’accordo debba ex lege essere pubblicato (depositato) nel Registro delle Imprese, ma allo stesso tempo sia realizzabile la c.d. “iscrizione d’ufficio” al momento del deposito od ancora come la società stessa abbia la facoltà di regolarizzarsi prima di intraprendere l’inter procedimentale dell’istituto senza incorrere in problematiche di alcun rilievo.

                                                                                                                33 M

AFFEI ALBERTI A., op.cit, p. 1234.

34 M

AFFEI ALBERTI A., op.cit, p. 1234.

35 A

BATE F., op.cit. ,p. 29.

Si può sottolineare come per gli imprenditori agricoli sia prevista la possibilità di scegliere tra gli accordi di ristrutturazione e gli strumenti di cui alle Legge n. 3/2012.

(31)

La dottrina ha poi posto l’accento sulla eventualità che possano ricorrere agli accordi di ristrutturazione gli istituti di credito, le compagnie di assicurazione, le Sim, le società di gestione del risparmio e le Sicav.

In questo caso la controversia risulta alquanto complessa poiché le normative esistenti che disciplinano quel “gruppo” di particolari soggetti, non prevedono l’assoggettabilità a procedure concorsuali diverse da quelle speciali a loro riservate.

La questione quindi rimane tutt’ora incerta36 in quanto rimanda alla possibilità tutt’altro

che chiara (vedi capitolo 1) di inserire gli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F. nella platea delle procedure concorsuali, eventualità non “ufficialmente” risolta, dalla quale deriverebbe il legittimo ricorso all’istituto anche da parte dei soggetti citati.

Quanto invece ai gruppi di imprese, anche per l’ammissione all’istituto degli accordi di ristrutturazione, vale l’obbligo di una analisi circa le singole posizioni di ogni singola società: è necessario (non è una facoltà) instaurare tanti procedimenti quanti il numero dei soggetti che intendono ricorrere all’istituto e per ciascuno va allegata una relazione che lo riguardi.

È importante sottolineare come ad esempio l’appartenenza ad un gruppo di imprese è rilevante, nel merito, per le reciproche influenze nelle varie situazioni attive e passive e per le operazioni infragruppo che potrebbero aver influito sul dissesto economico ma non incide sulla competenza di merito del Tribunale: non essendo infatti prevista una norma di deroga agli ordinari criteri per la competenza previsti dalla L.F., questa appartiene, ai sensi dell’art. 9 L.F., per ciascuna delle società coinvolte, al Tribunale nella cui circoscrizione si trova la sede e nella eventualità che non vi sia una coincidenza, la posizione della sede effettiva prevale sulla sede legale.

Per concludere, in considerazione di quanto finora esposto si può riassumere che un’impresa, quindi, per poter accedere alla procedura ex art. 182 bis L.F., debba rispondere ad una delle seguenti caratteristiche:

- debba essere un’impresa agricola di grande, media o piccola dimensione (art. 23 c.43 D.L. 98/2011 conv. In L. 111/2011);

                                                                                                                36 A

(32)

- debba esercitare un’attività commerciale (art. 2195 c.c.): in questo caso, l’impresa deve superare almeno una delle soglie previste per l’assoggettamento alla dichiarazione di fallimento (il rispetto di questo requisito è ritenuto necessario da una parte della dottrina, in quanto la Legge Fallimentare prevede espressamente, tra i presupposti necessari affinché l’accordo venga omologato, la possibilità di assicurare protezione agli atti di risanamento nella eventualità di una successiva dichiarazione di fallimento della impresa).

Sono incluse, inoltre, logicamente alla luce di quanto precedentemente esposto, tutte le imprese di rilevanti dimensioni, le quali possono accedere sia all’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti sia alle procedure di amministrazione straordinaria per le

grandi imprese37.

2.1. PRESUPPOSTI OGGETTIVI E STATO DI CRISI

Una volta stabilito quali sono i soggetti che hanno la facoltà di presentare un accordo di ristrutturazione dei debiti occorre verificare quando questo sia possibile.

Per presentare il ricorso ex art. 182 bis L.F. l’imprenditore, così come sopra individuato, deve trovarsi in “stato di crisi”.

Lo “stato di crisi” è un concetto che si reputa debba intendersi nel senso precisato dall’art. 160 c.3 L.F.: per stato di crisi infatti si ritiene si debba considerare ai fini dell’istituto anche lo stato di insolvenza.

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