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La Cooperazione edile nel Lughese dal 1945 alla nascita della RES Coop

di Tito Menzani

1. Uno sguardo d’insieme

Attualmente la cooperativa ITER è una grande impresa edile di livello nazionale che fattura 125 milioni di euro1. Essa è nata da una serie di

fusioni tra coop minori, che hanno determinato in primo luogo, nel 1975, la creazione di RES Coop e CRC, e poi nel 1989 l’attuale confi- gurazione societaria2.

In questa ricerca abbiamo esaminato una fase cruciale di questo processo, quella che porta una decina di piccole e medie cooperative edili della provincia di Ravenna alla confluenza nella RES Coop du- rante gli anni che vanno dal 1945 al 1975. Attraverso una lunga gesta- zione, che passa per i rapporti tra organizzazioni partitiche e sindacali, istituzioni di coordinamento cooperativo e consorziale, questo percor- so coincide con le diverse fasi del passaggio dalla cultura di lotta alla cultura d’impresa, dalla democrazia diretta e assembleare alla gestione delegata3.

Abbreviazioni: AI, Archivio ITER; s./ss., scaffale/i; f./ff., fascicolo/i; v./vv., ver- bale/i.

1Pari a 242 miliardi di lire; cfr. Rapporto sociale 2001, in «Costruire oggi», 17, 2001, n. 3, p. 10.

2Cfr. F. LANDI, Un secolo di cooperazione edile: i muratori del ravennate dagli

albori del ’900 alla nascita della ITER, Ravenna 1999.

3Cfr. M. DEGL’INNOCENTI, Dalla cultura di lotta alla cultura di mercato: il caso

italiano, in ID. (ed), Il movimento cooperativo nella storia d’Europa, Milano 1988;

R. ZANGHERI - G. GALASSO- V. CASTRONOVO, Storia del movimento cooperativo in

Italia. La Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue (1886-1986), Torino 1987, pp.

2. Entusiasmo e indigenza nel dopoguerra

L’area del Lughese, attraversata dal fiume Senio sul quale per alcuni mesi stazionò il fronte, fu una delle più danneggiate dalla catastrofe bellica. Le impellenti necessità della ricostruzione materiale si salda- rono con la grande tradizione cooperativa risalente alla fine dell’Ot- tocento, nient’affatto sradicata dalla dittatura fascista4. Nel volgere di

pochi mesi si concretarono le aspirazioni di quei muratori che non volevano lavorare «sotto padrone»: in molti comuni e frazioni venne- ro fondate società cooperative che, rifacendosi ai modelli socialista e repubblicano d’inizio secolo, rifiutarono radicalmente le chiusure corporative e privatistiche che il fascismo aveva imposto5. La consi-

stente attività mutualistica, oltretutto in un periodo di consistenti ri- strettezze economiche, è una delle componenti di maggiore spicco. I beneficiari delle elargizioni non erano solo le fasce deboli della so- cietà (orfani, vedove, invalidi, senzatetto, ecc.) ma anche strutture politiche nelle quali il movimento cooperativo che faceva riferimento alla Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue vedeva riflessi parte dei propri valori: i Comitati per la Pace, i partiti di sinistra, le asso- ciazioni sindacali6.

In questa maniera un consistente flusso di risorse finanziarie era convogliato al di fuori della cooperativa, senza aspettative di ritorno economico. La sostanziale avversità al capitalismo relegava in secon- do piano la necessità di conseguire un profitto, adeguato non solo alla remunerazione dei soci, ma anche all’acquisto di materiali e attrezzi per i cantieri. Quando l’ingente mole di lavori urgenti venne meno, e quando soprattutto cominciò a farsi più agguerrita la concorrenza, le esigenze di bilancio non poterono più essere considerate con sufficien- za. A cavallo tra anni quaranta e cinquanta diverse coop rischiarono il fallimento, presentando bilanci estremamente modesti o addirittura in rosso7.

4Cfr. A. BERSELLI(ed), Dam una man. Un’esperienza di democrazia sociale: mu-

tualismo e solidarietà nella Bassa Romagna, Imola 1990; C. CASADIO- G. VALENTI-

NOTTI, La nostra storia. 1884-1975, Castelbolognese 1981, senza indicazione di pagina.

5Cfr. F. LANDI, Un secolo di cooperazione edile, cit. 6Cfr. AI, Cda, vv. anni ’50, ss. 1018-1042, f. 05. 7Cfr. AI, Bilanci, ss. 1018-1041, ff. 02 e 11.

La motivazione di carattere strutturale di tale insuccesso economico è da ricercarsi nella disponibilità ad accettare indiscriminatamente ogni domanda di ingresso; questa politica della “porta aperta” era l’a- spetto più spiccatamente estraneo alla logica di mercato. Era sufficien- te essere un poco esperti nel mestiere di muratore per essere assunti in cooperativa ed ottenere di lì a poco lo status di socio. Data la crescente disoccupazione, il numero di iscritti nelle varie cooperative edili tese ad aumentare esponenzialmente; ad esempio la Cooperativa Edili e Affini di Lugo (CEAL), fondata nel ’45 da 15 soci, si ritrovava cinque anni più tardi ad averne 1348. Pur essendo quest’ultimo un caso limite,

non era raro che i membri delle imprese autogestite fossero triplicati o quadruplicati nel volgere dei primi anni del dopoguerra. La politica della porta aperta assunse una connotazione particolarmente negativa allorché appunto il mercato cominciò a saturarsi; il decremento delle commesse in ambito edile e l’infoltirsi della concorrenza avrebbero dovuto comportare un taglio della manodopera, giacché questa diven- tava sovradimensionata rispetto alle diminuite esigenze aziendali. In- vece avveniva l’esatto contrario, cioè venivano assorbiti i lavoratori che per motivi analoghi erano licenziati dai privati. Si tratta di quel fe- nomeno che lo storico Giulio Sapelli ha definito «effetto spugna», e che mette in luce una differenza dell’epoca tra impresa privata e co- operativa: la prima utilizzava il lavoro per creare un utile, la seconda spendeva l’utile per creare lavoro9. In pratica si riteneva che lo scopo

fondamentale della cooperativa fosse quello di fornire, tutelare e valo- rizzare il lavoro: il profitto non era altro che il mezzo per realizzare questo obiettivo10. Va da sé che un simile atteggiamento fosse, alla lun-

ga, economicamente fallimentare, perché incapace di ottimizzare le ri- sorse e promuovere cospicui investimenti; e infatti in molti frangenti le coop, pur di impegnare tutte le maestranze, si trovavano a dover assu- mere dei lavori che si sapeva già che si sarebbero conclusi con una perdita. Quella del “lavorare rimettendoci” era una strada senza uscita, una sorta di circolo vizioso che avrebbe trascinato la cooperativa verso la bancarotta, anche perché, a causa dell’azzeramento dei guadagni, la

8AI, Libro soci CEAL, s. 1037, f. 03.

9G. SAPELLI, Storia economica dell’Italia contemporanea, Milano 1997, p. 37.

10S. ZAN, La cooperazione in Italia: strategie e sviluppo della Lega Nazionale

principale alternativa al reperimento della liquidità era il progressivo indebitamento bancario.

Non poche coop, per natura sottocapitalizzate, dovettero ricorrere agli ordinari istituti di credito per ottenere finanziamenti che permet- tessero loro di procurarsi i materiali, pagare i soci, e realizzare i primi piccoli investimenti, come costruire un magazzino per gli attrezzi, comperare un’impastatrice di malta, acquisire le quote di una società di laterizi11. Tuttavia, a partire dal ’48, la stretta creditizia e la caduta

della domanda, dovute alla politica governativa votata al miglioramen- to della bilancia dei pagamenti, resero più oneroso l’accesso al credito bancario12. Si rese dunque necessario utilizzare l’altro canale per il re-

perimento di fondi: quello dell’autofinanziamento. Si trattava natural- mente di una politica invisa a molti soci perché comportava numerosi sacrifici, come lavorare alcune ore gratuitamente, vedersi effettuare delle trattenute sullo stipendio, partecipare ad aumenti di capitali, ed essere assoggettati al turnover delle maestranze (una sorta di part- time). Inizialmente percepite come provvedimenti straordinari tipici di una congiuntura negativa imputata alla «linea Einaudi», queste forme di autofinanziamento saranno per molte coop una costante degli anni cinquanta e sessanta, costituendo in alcuni casi una vera e propria an- cora di salvezza.

Attorno a questi problemi cruciali ve n’era un altro apparentemente contingente, ma seriamente legato alla struttura dell’organizzazione cooperativa: la qualificazione delle maestranze e dei primi dirigenti. All’interno di un’ideologia basata sulla lotta di classe la cooperativa non poteva che avere una rigida identità operaia. Lo stesso Presidente e i membri del Consiglio di Amministrazione erano muratori un po’ più anziani ed esperti, che usavano fare stime e valutazioni “a occhio”, essendo digiuni di studi scolastici specifici. La diffidenza nei confronti del “geometra” o del “ragioniere”, in alcuni casi non ammessi in co- operativa perché tecnici e non operai13, comportava che persone non

11Cfr. AI, Cda, vv. anni ’45-‘52, ss. 1018-1042, f. 05.

12V. CASTRONOVO, L’industria italiana dall’ottocento a oggi, Milano 1980, pp.

255-256.

13R. ZANGHERI- G. GALASSO- V. CASTRONOVO, Storia del movimento, cit., pp.

qualificate gestissero gli affari aziendali, spesso compiendo grossolani errori di giudizio, per cui si finiva per subire perdite economiche ina- spettate. Tra i tanti casi vale la pena di riportare le lamentele di un Consigliere della Cooperativa Muratori di Fusignano che rimarcava che fino a quel momento si fossero «assunti lavori con troppa legge- rezza, senza dar troppa importanza alle clausole contrattuali»14, e la

delusione dei soci della coop di Massa Lombarda che al termine di un lavoro del lotto Ina-Casa si accorsero di aver riscosso un compenso in- feriore alle spese sostenute15. Solo verso la fine degli anni ’50, con la

fine della rigida identità operaia e l’elezione alle cariche sociali di pro- fessionisti e non di “praticoni”, poté ridimensionarsi il fenomeno delle perdite imputabili all’imperizia.

Se si è soliti porre l’accento sugli sforzi che i muratori compirono nel periodo della ricostruzione, e sugli intenti sociali delle coop, non dimentichiamo che proprio l’indigenza di quel momento storico con- dusse diversi soci a compiere atti al di fuori della legge e contro la co- operativa. Non dobbiamo avere una visione solo eroica dei cooperato- ri; non dobbiamo percepirli come un’insieme di lavoratori accomunati da analoghi intenti e valori, che dopo una vita fatta di sforzi, sacrifici e miseria, riescono ad emanciparsi dando vita ad un a valida organizza- zione economico-sociale.

In alcuni casi il socio era avulso dai principi cardine della coopera- zione, e tendeva a comportarsi in maniera egoistica o quantomeno su- perficiale. Al di là dei casi più gravi di furto o truffa, si verificarono episodi comunque allarmanti: abbandono e conseguente smarrimento di materiali e strumenti, insubordinazione nei confronti dei capi-can- tiere, reiterate lamentele a fronte dei sempre nuovi sacrifici economici. Da tutto ciò si evince che alcuni non percepivano la cooperativa come la maggioranza dei membri: gli attrezzi che si perdevano non erano “di tutti”, e quindi anche propri, ma dell’azienda, il Presidente e il Consiglio di Amministrazione non erano soci liberamente eletti dal- l’assemblea, ma i “padroni”. Contro questo atteggiamento le varie co- op delinearono due linee distinte e parallele: una propriamente educa- tiva, l’altra punitiva. Ad una pena, quasi sempre simbolica o mite, nei

14AI, Cda v. del 28/12/51, s. 1029, f. 05. 15AI, Cda v. del 4/1/51, s. 1030, f. 05.

confronti del trasgressore seguiva spesso una ramanzina del Presidente che, parlando a tutti i soci, rimarcava le finalità sociali; è il caso del Presidente della coop di Conselice: «chi non vede che il proprio gret- to, meschino e irrazionale privato egoismo … è l’antitesi del vero e cosciente cooperatore»16; ma anche di quello della coop di Fusignano:

«se ognuno di noi perde di vista lo scopo principale per cui decidem- mo di costruire la Cooperativa cesserebbe da quell’istante la ragione di farla vivere»17.

Al di fuori degli episodi di egoismo e slealtà, un certo tipo di critica da parte di alcuni muratori nei confronti del Presidente o del Consiglio di Amministrazione non può essere ritenuta altrettanto distruttiva. È infatti indice di una partecipazione diretta del socio alla vita dell’orga- nizzazione. In discussioni spesso concitate e confusionarie, che si te- nevano nelle ore serali dopo il lavoro, i vari muratori avevano l’oppor- tunità di dire la propria, sentendosi parte integrante dell’impresa e per- cependo come autentico il proprio diritto di decidere. Un modello di democrazia assembleare che apparirà inadatto con il passare degli an- ni, tanto da risultare sempre più svuotato di significato all’interno di meccanismi di delega18.

3. Dal «miracolo economico» agli anni sessanta

Con la metà degli anni cinquanta inizia in tutto il Ravennate, seppur con ritardo rispetto ad altre zone della penisola19, il vorticoso trend de-

stinato ad innalzare nel giro di poco più di un decennio il grado di be- nessere dei cittadini. Per le cooperative edili del Lughese non iniziava però una fase altrettanto felice. Oltre ai già considerati gap strutturali che in genere rendevano la coop meno competitiva dell’impresa priva- ta, cominciarono in questo periodo le discriminazioni nei confronti

16AI, Assemblea dei soci, v. del 29/12/45, s. 1025, f. 04. 17AI, Assemblea dei soci, v. del 21/7/49, s. 1029, f. 04.

18Cfr. M. DEGL’INNOCENTI, Dalla cultura di lotta, cit.; T. SAVI, Tecnostruttura e

controllo, in AA.VV., Cooperare e competere, II vol., Milano 1986, pp. 102-110.

19A. BELLETTINI, Aspetti dell’economia emiliana negli anni della ricostruzione e

del primo sviluppo, in P. P. D’ATTORRE(ed), La ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma 1980, p. 19.

delle organizzazioni “rosse”: sono gli anni di Mario Scelba e del “cen- trismo”.

Va subito precisato che il Ravennate non fu un teatro di eccessi e di provvedimenti illiberali come la provincia di Bologna20. Il mezzo prin-

cipale con cui le istituzioni cercavano di ostacolare le cooperative lu- ghesi aderenti alla Lega era il forte ritardo con cui erano saldati i paga- menti per l’esecuzione di opere pubbliche. In tal modo non solo le sin- gole aziende erano obbligate a rivolgersi agli istituti di credito o ai pro- pri soci per ottenere liquidità, ma vedevano anche erosa dall’inflazione una cospicua parte dei guadagni, allorché entravano di volta in volta in possesso di vecchi crediti. Furono invece più rari gli episodi di mancato invito e di esclusione delle cooperative alle pubbliche aste, un’altra tec- nica parecchio utilizzata nel Bolognese. In generale fu soprattutto la politica legislativa del governo, non in linea con l’art. 45 della Costitu- zione, a penalizzare il movimento, sovente con provvedimenti di natura fiscale volti ad equiparare le coop alle imprese private21.

Comunque i muratori del Lughese seppero far fronte alla situazione che si era venuta a creare. In questi frangenti inizia la fase di trasforma- zione e modernizzazione dell’istituto cooperativo che possiamo dichia- rare indicativamente conclusa con gli anni ’70. La necessità di attuare ri- forme per non soccombere, pur scontrandosi con notevoli e inusitate re- sistenze interne, portò molti Consigli di Amministrazione a rivedere le proprie politiche, spesso dettate più dall’ideologia che dalla razionalità economica. La prima “vittima eccellente” del nuovo corso fu la pratica della “porta aperta”, che rappresentava la più emblematica stonatura al- l’interno di una logica di mercato; temporaneamente sospesa a più ripre- se nei periodi più difficili, fu poi gradualmente integrata con clausole che prescrivevano per i nuovi soci diversi requisiti irrinunciabili. Paralle- lamente cessava di essere una prassi consolidata l’assunzione di lavori non redditizi, anche se motivazioni di carattere contingente costrinsero le dirigenze, specialmente quelle delle cooperative appenniniche, ad op- tare per tale soluzione almeno fino ai primissimi anni ’70.

20Cfr. FEDERAZIONE PROVINCIALE DELLE COOPERATIVE E MUTUE DI BOLOGNA,

L’attacco anticostituzionale alla cooperazione bolognese, Bologna 1955.

21Cfr. G. BONFANTE, La legislazione cooperativistica in Italia dall’Unità ad oggi, in G. SAPELLI(ed), Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, Torino 1981, pp. 191-253.

Ma al di là di tutto ciò occorrevano scelte coraggiose e innovative in materia di appalti, poiché bisognava sottrarsi alla forte concorrenza delle imprese artigiane, che utilizzavano il lavoro nero e il cottimismo22. Poi-

ché quest’ultimo fenomeno non riguardava l’intero Paese, ma solamente alcune aree tra le quali il Ravennate, le cooperative di maggiori dimen- sioni e relativamente più dotate di risorse optarono per i cosiddetti lavori “fuori zona”. In pratica si partecipava ad appalti importanti in zone dove la concorrenza era decisamente minore, specialmente se l’opera da rea- lizzarsi era minimamente complessa. Furono soprattutto le regioni del Mezzogiorno ad offrire opportunità del genere, ma anche le zone subur- bane delle grandi città del Nord in espansione. Il più grande problema di questa politica riguardava il disagio della trasferta: non solo era necessa- rio ottimizzare i costi perché questi non riducessero l’utile all’osso, ma bisognava spesso vincere le resistenze di quanti si rifiutavano di dover la- vorare per alcuni mesi lontano da casa. In questi casi quasi tutte le coope- rative, dopo un’opera di convincimento, mettevano i soci recalcitranti di fronte ad un aut aut: o accettavano la trasferta o sarebbero stati espulsi.

Nella quasi totalità dei casi il lavoro “fuori zona” fu una felice in- tuizione, permettendo guadagni anche consistenti. Inoltre si trattò di esperienze preziose per la crescita aziendale e anche un’apprezzabile fonte di prestigio. In questi tipi di appalti fu svolto un ruolo sicuramen- te decisivo dagli organismi consortili. Uno dei primi a costituirsi nel Ravennate fu l’Alleanza Cooperative Edili di Ravenna (ACER), un’or- ganizzazione nata nel ’50 in seno alla Federcoop e dotata di funzioni tecniche e di coordinamento. Ma è solo con l’entrata in scena dei Con- sorzi Provinciali delle Cooperative di Produzione e Lavoro che iniziò la “gestione associata” vera e propria, ossia il fulcro dello sviluppo de- gli appalti extralocali23. Il consorzio non faceva altro che acquisire un

appalto di grosse dimensioni, dividere l’opera in lotti, e assegnare con criteri razionali le varie quote alla coop associate, svolgendo unitamen- te un’attività di raccordo fra le diverse squadre di lavoro24. Il punto di

22Cfr. L. BORTOLOTTI, Storia della politica edilizia in Italia: proprietà, imprese

edili e lavori pubblici dal primo dopoguerra ad oggi. (1919-1970), Roma 1978.

23Cfr. A. CANOSANI, Ravenna: distretto cooperativo (II), in AA.VV., Cooperare e

competere, II vol., cit., pp. 6-17.

24Cfr. P. DECARLI, Gli anni dello sviluppo, in A. RAVAIOLI(ed), La cooperazione

forza di tale politica stava nel ridurre al minimo la concorrenza sia in- tercooperativa che non, poiché da questi grandi appalti erano giocofor- za tagliati fuori piccoli e medi imprenditori edili.

Tuttavia, nonostante la “gestione associata” permettesse in linea teorica anche alle coop di piccole dimensioni l’accesso a lavori remu- nerativi, furono quasi esclusivamente le grandi e medie imprese a gio- varsi di tale sistema. Erano soprattutto l’attrezzatura obsoleta e la mancanza di qualificazione professionale, ma anche una mentalità che portava i soci delle piccole coop a percepirsi più come artigiani che come imprenditori, a relegare ad un circuito quasi esclusivamente lo- cale le cooperative edili di Bagnara, S. Lorenzo e S. Bernardino. Solo con gli anni ’60 possiamo registrare i primi timidi tentativi di uscire dal Lughese da parte di queste imprese che contavano all’incirca venti membri ciascuna. Un discorso analogo può essere fatto per le coopera- tive dei muratori di Riolo e Villa Vezzano, situate a ridosso della zona appenninica, e penalizzate del fenomeno di spopolamento montano che sottraeva risorse e frenava lo sviluppo economico25. In questi casi

il lavoro “fuori zona” sarebbe stato alquanto salutare, ma, soprattutto per la mentalità poco imprenditrice delle dirigenze, si optò sempre per soluzioni differenti (autofinanziamento, lavori in perdita, ecc.) che portarono tali coop sull’orlo del fallimento. Fu necessario un interven- to esterno della Federcoop che, prendendo le redini della situazione, condusse energicamente tali società lontano dal rischio della bancarot- ta: furono in pratica gli unici casi in cui la centrale cooperativa impose d’autorità una propria linea economico-gestionale, giacché negli altri casi vi era un rapporto di semplice collaborazione o consulenza con i Consigli di Amministrazione26.

La ricerca di lavori al di fuori del Lughese e la “gestione associata” sono gli effetti principali del fenomeno macroscopico dell’ammoder- namento aziendale che, negli anni del «miracolo economico», fu intra- preso dalle singole cooperative in tempi diversi e con risultati altale- nanti. In generale possiamo affermare che le medie e grandi imprese della “bassa” furono più pronte a questo genere di cambiamenti, men-

25Cfr. S. MATTARELLI, Lo sviluppo agricolo del ravennate (1945-1965). Prime ri-

cerche, in A. RAVAIOLI(ed), La cooperazione ravennate, cit., pp. 95-124. 26Cfr. AI, Cda, vv. anni ’50, ss. 1019 e 1037, f. 05.

tre le società minori e quelle appenniniche decisero con più lentezza, e come detto a volte non in piena autonomia, di imboccare la via delle riforme.

Tra le novità che via via incontriamo in questi anni di transizione spiccano la managerializzazione del Consiglio di amministrazione e la qualificazione e specializzazione delle maestranze. Veniva meno l’idea egualitaristica che stava alla base delle cooperazione della prima metà