di Emanuele Guaraldi
Sicuramente l’età napoleonica rappresenta un nodo fondamentale della storia europea a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Varie e significative furono infatti le ripercussioni sul piano politico-sociale, economico e istituzionale che il di- segno egemonico dei francesi suscitò sulle nazioni europee del tempo, produ- cendo cambiamenti e generando nuovi assetti con i quali, anche in sede di ri- cerca, risulta impossibile non confrontarsi.
Nella letteratura sul periodo napoleonico occupano un posto di primo pia- no gli studi che indagano l’intreccio socio-politico-economico; nel campo delle ricerche sul versante della storia delle istituzioni la prevalenza riguarda gli aspetti amministrativi e le ricognizioni sull’evoluzione delle strutture sta- tuali.
Nell’impostare il mio itinerario di studio ho riscontrato una sostanziale assenza di analisi che riguardassero le istituzioni giudiziarie. Su di esse ho concentrato la mia attenzione e in relazione a tale versante ho provato a con- siderare non solo gli aspetti normativi e il configurarsi delle architetture isti- tuzionali, ma anche a mettere in risalto i particolari riflessi che tali istituzioni assumevano nell’interpretazione e nell’immagine che di esse davano i sog- getti (e le soggettività, le culture, le personalità) direttamente chiamati a tra- durle e incarnarle nel loro agire quotidiano e professionale.
* Dalla tesi discussa l’8 marzo 2002, presso il Dipartimento di Storia e Compara- zione degli ordinamenti giuridici e politici dell’Università di Messina, a conclusione del Dottorato di ricerca in Storia delle istituzioni politiche in età medievale e moder- na, XIV ciclo, La formazione del potere giudiziario. Giudici e tribunali a Modena in
età napoleonica, relatore prof. L. Antonielli. Per ragioni di spazio nel testo che si
La scelta dei buoni magistrati e di funzionari zelanti è la cosa, la più utile nella pubblica amministrazione, ma insieme la più difficile. A questo importante scopo chiamo, signore, il concorso de’ lumi vostri e la zelante vostra attenzione. Già da oltre due anni è in corso la nuova organizzazio- ne giudiziaria che le paterne sollecitudini di Sua Maestà imperiale e Re diedero all’Italia per assicurarne la retta amministrazione di giustizia. In questo tempo ho studiata costantemente la condotta de’ magistrati da me dipendenti, ma pur qualche cosa mi può essere sfuggita o può non essere pervenuta fino a me. Desidero di conoscere senza velo alcuno il contegno, le qualità morali ed intellettuali di tutti. A quest’effetto vi unisco una nota dei funzionari giudiziari di codesto dipartimento, sul conto dei quali bra- mo di essere informato con tutta la maggiore esattezza1.
Con questa lettera del 9 novembre 1809 il Ministro della Giustizia, ri- volgendosi al Primo Presidente della Corte di Giustizia civile e criminale di Modena, promuoveva un’ispezione sul personale dei tribunali al fine di verificarne la condotta professionale. È pressoché certo che tale dispo- sizione non fosse indirizzata specificatamente alla Corte di Giustizia di Modena, ma che rappresentasse piuttosto un provvedimento diretto a tut- te le sedi giudiziarie del Regno. Evidentemente, all’origine dell’indagine avviata dal Ministero erano alcuni elementi la cui importanza suggeriva una verifica e un controllo sulla stessa Corte di Giustizia di Modena. Quello che risulta palese è che da tali provvedimenti trapelava l’insoddi- sfazione dei vertici del potere giudiziario per il comportamento di certi giudici che, con ogni probabilità, non avevano corrisposto alle aspettati- ve di rinnovamento vagheggiate dal primo magistrato del Regno.
Nel paragrafo precedente abbiamo considerato gli sforzi del Mini- stero per edificare una nuova magistratura fondata sui principi dell’ef- ficienza, della competenza e della meritocrazia. Questo tipo di orienta- mento veniva ulteriormente ribadito dal Luosi negli anni successivi al- l’installazione dei tribunali avvenuta nel 1807. Tra i diversi interventi del Ministro modenese (che spaziavano, come già abbiamo visto, dalla promozione di un personale rinnovato alla sua qualificazione, dalla progettazione di migliori condizioni di lavoro – più adeguate e corri- spondenti alle nuove necessità procedurali –, allo sviluppo di uno spi- rito di servizio fondato sull’incentivo) meritano di essere ricordate al-
1Archivio di Stato di Modena (da ora in avanti ASMO), Giudiziario di Modena, Corte di Giustizia, busta 448.
tre disposizioni particolarmente indicative dell’innovazione con cui si voleva caratterizzare l’amministrazione della giustizia.
Considerando che l’amministrazione della giustizia non può corri- spondere pienamente all’oggetto della sua istituzione se i magistrati chia- mati ad esercitarla non siano circondati dalla considerazione e confidenza pubblica; che a raggiungere questo scopo è necessario moltiplicare i mez- zi di garanzia nella scelta degli aspiranti ad impieghi giudiziari, onde il santuario della giustizia non sia aperto che a uomini, i quali alla scienza delle leggi congiungano l’abitudine al travaglio, l’amore dell’ordine e una probità senza macchie,
il Gran Giudice Ministro della Giustizia elencava, il 24 dicembre 1809, i requisiti necessari per inoltrare le domande di impiego in magi- stratura. Ancora una volta emergeva la volontà di privilegiare l’intrapren- denza del singolo, scegliendo cioè di fondare il reclutamento sul merito individuale e di lasciare aperta la strada a una certa mobilità dal basso.
Il dato significativo è che gli interventi del Ministro modenese copri- vano a trecentosessanta gradi il sistema di gestione dell’amministrazio- ne della giustizia. Tra gli oggetti che Luosi considerava utile sviluppare, come espressione della modernizzazione che si voleva imprimere al nuovo ordinamento giudiziario, troviamo anche elementi a prima vista secondari, di dettaglio, ma in realtà estremamente importanti sul piano procedurale e dello sviluppo dell’iter processuale. Per esempio, con una circolare del 29 settembre 1810, il Gran Giudice si rivolgeva agli impie- gati più operosi delle corti per incoraggiare l’apprendimento della steno- grafia al fine di pervenire a una esatta verbalizzazione delle sedute dei tribunali. Il Regio Procuratore Muzzarelli, nel trasmettere tale direttiva alla Corte di Giustizia di Modena, dichiarava il 9 ottobre 1810:
È mosso il desiderio della prelodata Eccellenza [il Ministro della Giu- stizia, n.d.r.] dal riflesso che mediante la stenografia può essere nei pub- blici dibattiti redatto il discorso di qualunque rapido parlatore. Tutte pos- sono notarsi esattamente le interrogazioni e le risposte, talché leggendo la storia di un dibattimento sembra di udire le persone stesse dei giudici, dei testimoni, degli accusati, tanto sono conservate per mezzo della stenogra- fia le loro parole, il loro stile, le loro esclamazioni, e perfino le interruzio- ni e le pause2.
L’opera di ammodernamento della giustizia investiva quindi anche aspetti tecnici, soprattutto quando questi servivano a sviluppare una maggiore efficienza nell’operato degli impiegati, verso i quali il Mini- stro – valorizzando il coinvolgimento personale – ricorreva a una sorta di “seduzione”, il meccanismo dell’aspettativa, per cui – come si leg- geva nella lettera del Muzzarelli – «chiunque desse speranza di riusci- re stenografo potrà essere certo della superiore contemplazione per una promozione in siffatta guisa ben meritata».
Tuttavia, pur se gli sforzi del Luosi tesi a un rinnovamento della cultura giudiziaria erano condotti con grande energia, non è raro rinve- nire tra i documenti degli anni successivi alla riforma del 1807, nume- rose denunce che testimoniavano la condizione di arretratezza del per- sonale dei tribunali. Tali accuse risalivano all’autunno del 1807, perio- do in cui si completava la composizione delle corti, quando – per esempio – il Ministro era costretto a stigmatizzare forme di arbitrio nella designazione del personale di cancelleria.
Alcune corti ed alcuni tribunali nelle duple che mi hanno già trasmes- so per la nomina de’ loro cancellieri, all’intento probabilmente di stabilire sul primo dei proposti una assoluta opinione di preferenza, contemplaro- no per il secondo qualche soggetto che distando notabilmente dal primo in titoli per essere considerato, ne deriva che, o la nomina viene coartata al primo soggetto, o che, potendosi nominare il secondo, mal si corrispon- derebbe, con la di lui scelta, al servigio pubblico3.
La logica corporativa era dunque ancora presente in certi livelli del potere giudiziario come forma di reclutamento del personale.
Forse si può ipotizzare che, nella pratica quotidiana dei tribunali, la rottura con l’Antico Regime fu meno netta che nei discorsi, e l’adozio- ne delle nuove forme di legalità fu assai lenta, specialmente nei gradi inferiori delle sedi giudiziarie. Intendiamo pertanto interrogarci ora su quale fu il reale funzionamento dei tribunali durante gli anni del Re- gno d’Italia, su come agirono oggettivamente i nuovi giudici, su quale efficacia ebbe l’adozione delle procedure di stampo francese nel siste- ma giuridico italiano.
Prima di rispondere a tali quesiti occorre tuttavia precisare che, sul- la base delle fonti che ci sono rimaste, è difficile dare una valutazione
complessiva dell’attività dei magistrati. Quest’ultima peraltro richiede- rebbe apposite ricerche nel campo della produzione delle sentenze, che noi abbiamo volontariamente escluso dal nostro orizzonte di ricer- ca. Inoltre, nell’accingerci ad esaminare alcuni casi particolari, occorre domandarsi anche se questi possano effettivamente essere assunti co- me fenomeni rappresentativi dello spirito pubblico della maggioranza dei magistrati, cioè come espressione della loro identità. La carenza di informazioni a questo proposito (anche solamente dal punto di vista quantitativo) mostra uno stato delle ricerche appena abbozzato, mani- festando, in sostanza, come rimanga ancora molto lavoro da compiere. Una valutazione ponderata sui caratteri del personale giudiziario esi- gerebbe infatti indagini statistiche, tabelle comparative, elaborazioni di dati da effettuarsi su scala significativa. Interrogandoci pertanto sul successo del nuovo ordinamento giudiziario dobbiamo segnalare que- sto deficit di informazioni, e procedere con cautela nel tentativo di af- frontare questi argomenti.
Rispondendo al sopra-citato quesito del Gran Giudice sulle qualità del personale giudiziario modenese, il Presidente della Corte di Giusti- zia, Candrini, palesava sicurezza, e si rivolgeva al Luosi aggiungendo all’ottimismo con cui guardava ai propri magistrati forti tratti di adula- zione. Se tuttavia Candrini si mostrava soddisfatto dei propri giudici, in realtà i motivi di perplessità sul merito dei magistrati della Corte di Giustizia modenese sembravano essere tutt’altro che pochi. Indizi di inadempienze e di inefficienze erano infatti molto diffusi e rintraccia- bili su vari fronti dell’agire quotidiano dei magistrati; a tale proposito riportiamo sommariamente alcuni dei casi più citati: assenteismo pro- lungato dal lavoro, non ottemperanza dei regolamenti, episodi di vera e propria opposizione alle forme procedurali, insinuazioni di un coin- volgimento dei giudici nella protezione degli speculatori, protrarsi in- giustificato delle cause di vecchio metodo.
Tra le irregolarità commesse dai giudici modenesi vi era, per esem- pio, il modo di gestire l’assunzione dei patrocinatori, di quelle figure cioè che presso ogni tribunale avevano il compito specifico di assiste- re le parti in giudizio e di compiere tutti gli atti relativi. Senza la loro assistenza nessun atto processuale poteva aver luogo all’infuori delle informazioni alla corte e delle arringhe che ognuno era libero di com- piere da solo o a mezzo di un proprio avvocato. Pur di nomina regia, la carica di patrocinatore dipendeva dal parere che la corte d’appello
pronunciava in base alla documentazione prodotta dal tribunale in cui il candidato intendeva esercitare le proprie funzioni. Ed è proprio in rapporto alle irregolarità nella produzione di questo materiale che il 26 gennaio 1808 il Primo Presidente della Corte d’appello di Bolo- gna, Magnani, scriveva al Regio Procuratore per denunciare la disat- tenzione della Corte modenese.
Avendo la Corte preso in esame l’elenco de’ Patrocinatori proposti dalla Corte di Giustizia in Modena ha rilevato che manca, l’elenco stesso, di quelle indicazioni di fatto che sono indispensabili onde potervi applica- re le opportune sue osservazioni. Manca primieramente la indicazione se tutti gli individui ivi nominati abbiano esattamente adempito a quanto prescrivono le informazioni di S.E. il Gran Giudice Ministro della Giusti- zia del 1 settembre per la esecuzione del Regio decreto 29 agosto antepas- sato agli articoli 39 e seguenti. Manca l’indicazione del tempo in cui cia- scun individuo è stato ammesso all’esercizio della professione e il luogo in cui l’abbia esercitata. Manca finalmente ogni sorta d’indicazione sulla capacità e condotta dei soggetti proposti4.
Discrezionalità e arbitrio nella compilazione della documentazione rappresentavano dunque attributi diffusi tra i magistrati della Corte di Giustizia modenese i quali, peraltro, domandavano il riconoscimento di un numero di patrocinatori decisamente superiore a quello effettiva- mente necessario.
Note ancora più gravi a carico dei giudici della Corte di Giustizia di Modena si riferiscono alla prassi di tirare per le lunghe la celebra- zione dei processi. L’intrinseca lentezza dei magistrati nell’adempi- mento dei propri doveri faceva sì che ancora nel 1809 non si intrave- desse l’esaurimento delle cause di vecchio metodo, producendo un grave danno sul corso dell’amministrazione della giustizia che a volte aveva conseguenze drammatiche. È il caso di un tragico episodio che il Ministro della Giustizia Luosi, in data 21 marzo 1809, indicava al Primo Presidente Candrini per verificare le responsabilità dei magi- strati modenesi:
dall’ispezione che portai sui quadri di giudizi correzionali d’accusa e di alto criminale rilevai con molto dispiacere che varie procedure rimase-
ro giacenti per molto tempo e specialmente quella concernente Domenico Casacci di Mocogno, il quale, dopo 17 mesi di detenzione, cessò di vivere in codeste carceri un giorno dopo l’emanazione della sentenza colla quale fu giudicato doversi il Casacci dimettere a processo aperto per due impu- tazioni e come non trovato colpevole per un altro titolo5.
Chiamato a rispondere del grave evento accaduto, Candrini cercava anzitutto di ripulire l’immagine della Corte di Giustizia, mostrandone un volto operoso e leale. Sul caso particolare del Casacci, il Primo Presidente conveniva con la versione riportata dal Ministro, corredan- dola tuttavia di opportune giustificazioni. Dalle parole dello stesso Candrini possiamo ottenere la ricostruzione degli eventi, che illumina anche lo stato in cui versava la Corte di Giustizia modenese nella pri- mavera del 1809.
Questa fatalità è accaduta ad un imputato che fu da più mesi infermo e non accessibile. Al di lui processo era destinato il sig. Tommaselli, giudi- ce abilissimo, pieno di onore ed animato da uno zelo che lo rende supe- riore ad ogni rimprovero. Ma questo medesimo giudice è quello stesso che da quattro e più mesi porta il peso di quasi tutti gli affari del pubblico ministero. Dal 13 di novembre, e stabilmente poi dal principio del dicem- bre scorso, il sig. Regio Procuratore più non interviene, né ad udienze ci- vili, né a sedute correzionali, e rimette persino gli affari economici e di giurisdizione volontaria a questo giudice del quale egli se ne è formato un servitore, di modo che a questi non rimane più il tempo necessario pel di- simpegno negli altri affari della Corte, la quale in esso ha perduto uno dei migliori bracci6.
La difesa del presidente della Corte di Giustizia rimandava alla gra- ve carenza di organici del tribunale che obbligava parte del personale a ricoprire incarichi non immediatamente riconducibili ai propri doveri d’ufficio. Tale pratica mette in evidenza il ritardo nell’adempimento degli obblighi istituzionali dei giudici e sottolinea come Candrini ten- desse ad attribuire parte delle responsabilità al Regio Procuratore che, a motivo dell’età avanzata, era già da alcuni mesi del tutto assente dal lavoro.
Questo stato di cose non sembrava essere migliorato a tutto il 1810
5Ibidem. 6Ibidem.
quando il Ministro della Giustizia scrivendo ai regi procuratori, ai pri- mi presidenti, ai giudici delle corti e dei tribunali del Regno, dichiara- va il 20 novembre:
Da vari rapporti e da alcune rimostranze pervenutemi, nonché dalle ri- sultanze della vista da me fatta poc’anzi in alcuni dipartimenti ho dovuto conoscere con rammarico che non tutti i membri delle corti e dei tribunali sono animati da quell’ardente zelo per la sollecita amministrazione della giustizia che il governo ha il diritto di esigere e che le popolazioni atten- dono dai magistrati destinati a garantire la proprietà reale e personale dei cittadini. Da ciò derivano le facili domande per assenza sotto titoli o leg- gieri o pretestati. Frattanto i detenuti rimangono nello squallore del carce- re soffrendo fors’anche una detenzione non meritata. La vendetta pubbli- ca è ritardata e la sicurezza comune è posta al cimento dai malvagi, che non vedono seguir da vicino la pena al delitto. Le cause civili rimangono inespedite con giusto lamento di quelli che vi hanno interesse. Siffatte di- sgustose conseguenze non hanno potuto isfugguire alla vigilanza paterna di S.A.I. nel giro recentemente fatto nei dipartimenti oltrepadani il suo occhio attento ha verificato alcuni degli esposti inconvenienti, ed ha pure iscoperto qualche abuso nelle assenze dei giudici o troppo moltiplicate o soverchiamente prolungate. Il suo cuore ha sofferto per molti imputati di delitti che da lungo tempo addimandono vivamente la definizione del loro processo7.
Lo scontento del Ministro non si riferiva unicamente alla categoria dei giudici, ma anche ai rappresentanti del ministero pubblico, che più direttamente avrebbero dovuto incarnare le premure del Governo. Un esempio di contrasto tra i rappresentanti del potere giudiziario si trova custodita nell’archivio Valdrighi.
Il 14 giugno 1809 Luigi Valdrighi, in qualità di Regio Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, rispondeva con lettera «riser- vata e pressante» a una commissione del Ministro della Giustizia che lo aveva specialmente incaricato di indagare la condotta del signor Bertelli, Regio Procuratore presso la Corte di Giustizia di Ferrara. L’indagine sul magistrato ferrarese era stata aperta dopo che il Bertelli si era reso responsabile di un comportamento «ingiurioso» nei con- fronti della Corte di cassazione durante la celebrazione di un processo.
Ne sorgeva un “caso” che avrebbe gravemente turbato i vertici della magistratura fino a esplodere in momenti di tensione e nervosismo.
La vicenda aveva avuto origine a seguito di una sentenza della Cor- te di cassazione che annullava una pronuncia della Corte di Giustizia di Bologna relativa a una causa penale contro tale Paolo Medri. Secon- do quanto riportava il giudice di cassazione Giuseppe Ragazzi nella veste di Relatore, la sentenza di morte della Corte di Giustizia di Bo- logna doveva essere annullata perché contraria alla legge, in quanto l’accusa contro il Medri era stata ottenuta contravvenendo ai più ele- mentari principi del diritto. Medri infatti era stato indotto a confessare un’aggressione senza che i giudici disponessero di effettive prove, ri- correndo cioè a un iniquo trabocchetto secondo cui, durante il proces- so, fu detto al Medri essere già accertata la sua colpevolezza, e che la sua confessione avrebbe unicamente favorito l’indulgenza dei giudici. Annullata la sentenza, il processo veniva rimandato, secondo quanto stabilito dai regolamenti, alla Corte di Giustizia di Ferrara dove, du- rante le conclusioni pronunciate dal Regio Procuratore a commento della nuova sentenza di condanna del Medri (questa volta alla deten- zione a vita nei ferri), il Bertelli si esprimeva con dichiarazioni grave- mente offensive nei confronti della Corte di cassazione.
Né giovano al certo all’imputato Medri per sottrarlo dall’ordinaria pe- na le conclusioni del signor Regio Procuratore Generale né la sua senten- za dalla cassazione, giacché le leggi prescrivendo che le pene devono es- sere applicate col massimo rigore ne’ luoghi ove il delitto può rendersi frequente, vogliono che, nel caso in cui siamo, si promulghino colla mas- sima severità. Avanti di giudicare, quelle autorità dovrebbero venire fra noi e quivi rilevare che il furto e la rapina sono frequenti, ed in allora, cir- condati anch’essi dai pugnali degli assassini, cangerebbero sentimento e smania di cassare le sentenze dei tribunali che, conosciutosi del vero stato