Il corporate venture capital financing (CVCF) è una forma di VC in cui un’impresa non finanziaria affermata nel mercato investe in partecipazioni azionarie di startup innovative. Esso viene definito dal Business Dictionary: “Practice where
a large firm takes an equity stake in (or enters into a joint venture arrangement with) a small but innovative or specialist firm, to which it may also provide management and marketing expertise. The objective is to gain a specific competitive advantage” (www.businessdictionary.com).
Il CVCF rappresenta una fonte di finanziamento alternativa per le startup rispetto a quelle già descritte (all’interno della categoria del private equity); se ne differenzia in quanto il soggetto investitore non è professionale ma è un’impresa affermata, che può essere mossa da obiettivi strategici e non meramente speculativi. Si è scelto di dedicare un paragrafo a questa forma di finanziamento non solamente per le specificità che la caratterizzano e distinguono dalle altre ma anche perché, nonostante sia nata negli anni 1960, si sta sviluppando in modo sorprendente negli ultimi vent’anni. Nell’anno 2000, ad esempio, più di 400 aziende manifatturiere e di servizi hanno investito circa 16 miliardi di dollari in startup, approssimativamente il 15% di tutti gli investimenti di VC (Dushnitsky & Lenox, 2006).
Nel grafico contenuto nella figura 2, dove viene evidenziata la percentuale di CVCF sul capitale investito in startup dall’industria dei VC negli USA tra gli anni 1969 e 2003, si osserva che il fenomeno ha registrato una crescita esponenziale tra l’anno 1999 e il 2000 ed ha poi subito un tracollo nel 2001, per poi stabilizzarsi negli anni seguenti su livelli superiori alla media storica.
Figura 2: capitale investito dalle corporations in startup sul VC complessivamente investito. Fonte: Dushnitsky & Lenox (2006, pag. 755)
Tornando alla definizione data dal Business Dictionary, si evidenzia che vi sono due espressioni importanti che descrivono la strategia del CVCF: l’acquisizione di un vantaggio competitivo da parte dell’impresa investitrice e il conferimento di competenze alla startup acquisita.
Per la grande azienda, infatti, il CVCF rappresenta una strategia per reagire ed anticipare i cambiamenti che avvengono nel mercato di riferimento; si tratta ad esempio di mutamenti di tipo tecnologico che, se non padroneggiati e monitorati tempestivamente, possono minare la sopravvivenza dell’impresa stessa. In quest’ottica, se si pensa all’obsolescenza tecnologica che avviene in tempi sempre più brevi, si può immaginare che per un’impresa sviluppare le competenze internamente e aggiornare costantemente il proprio processo produttivo diventa molto difficile. L’investimento in startup altamente innovative e specializzate rappresenta una valida alternativa più efficace rispetto allo sviluppo interno e soprattutto più veloce, tale da permettere all’impresa investitrice di reagire prontamente ai mutamenti del mercato.
A tale proposito, Dushnitksy e Lenox affermano che l’investimento di corporate
venture capital aumenta il tasso di innovazione e il numero di brevetti prodotti
dalle imprese che investono (incumbent).
Gli studiosi, analizzando un campione di 250 imprese americane nel periodo che va dal 1975 al 1995, hanno osservato che c’è una relazione direttamente proporzionale tra l’entità dell’investimento di VC e il numero di brevetti prodotti. Essi affermano inoltre che tale relazione è condizionata da due fattori: la capacità di apprendimento dell’impresa che investe e il grado di tutela dei diritti intellettuali nel paese di riferimento. Per quanto riguarda il primo aspetto, i ricercatori sostengono che maggiore è la conoscenza tecnica dell’impresa più efficace è l’investimento di CVC da essa effettuato. Per quanto concerne la seconda condizione, hanno osservato che minore è il livello di tutela dei diritti di proprietà intellettuale, maggiore è il grado di appropriazione di
know-‐how da parte della corporation. (Dushnitsky & Lenox, 2005).
Alla luce delle osservazioni finora fatte, si deduce che il CVCF costituisce una scelta aziendale di valenza strategica e non meramente speculativa, poiché consente alla grande azienda di sviluppare tecnologie differenti o complementari a quelle che già utilizza nel settore in cui opera o in altre
business units, non assumendosi il rischio legato allo sviluppo interno.
Pierluigi Paracchi, co-‐fondatore e amministratore delegato di Genenta Science che fa attività di ricerca medica nel campo della terapia genica antitumori (http://www.genenta.com) afferma a tale proposito : “Spesso le multinazionali di turno faticano a prendersi dei rischi, e capita che preferiscano aspettare che sia una startup a farlo al posto loro. Se poi l’idea è vincente sono anche disposti a comprarla” (Marino, 2015).
Si aggiunge che il CVCF rappresenta una forma di finanziamento a cui la startup può ricorrere nelle ultime fasi della sua crescita (second e third-‐stage financing), dal momento che la multinazionale non è disposta ad assumersi il rischio di insuccesso dell’idea imprenditoriale ma, al contrario, investe in startup consolidate.
È interessante fare un breve approfondimento in merito al conferimento di competenze nel senso opposto a quello finora considerato, ovvero dalla multinazionale alla startup. La startup beneficia di numerosi vantaggi
dall’investimento di CVCF: riceve supporto tecnico e manageriale, può usufruire della rete distributiva e commerciale sviluppata dell’investitore e avvalersi indirettamente del capitale di immagine conquistato negli anni dalla corporation. Secondo un approccio meramente finanziario gli studi di Ginsberg, Hassan e Tucci, (2003) e di Maula e Murray (2001) rivelano inoltre che le startup il cui capitale di rischio viene acquisito dalla multinazionali, in fase di quotazione in borsa, vengono valutate di più rispetto alle startup finanziate dai VC.
Un esempio di startup italiana acquisita da una multinazionale di successo è rappresentato da 1000Italy, sviluppatrice di un’app turistica che segnala i luoghi di maggiore interesse nelle vicinanze dell’utente (www.1000italy.com). La startup ha ricevuto fondi per un totale di 200 mila euro da Maccorp Italiana Spa, azienda attiva nel cambio di valute. Oltre all’investimento in sé 1000Italy può beneficiare del vasto bacino d’utenza a cui si rivolge Maccorp, ovvero i turisti incoming, che possono così conoscere e scaricare l’applicazione. Grazie alla strategia del CVCF, Maccorp ha diversificato e ampliato la propria offerta con servizi aggiuntivi, come la guida ai luoghi di interesse, agli hotel e ai ristoranti, incentivando i viaggiatori a scegliere il brand rispetto ai concorrenti (https://www.forexchange.it/l-‐azienda/chi-‐siamo/).
Nel CVCF la collaborazione può inoltre allargarsi anche a partner terzi, ad esempio incubatori e VC, come esemplificato dal Wellness Accelerator Program promosso dall’incubatore privato H-‐Farm, il VC Venture Accelerator e Technogym, azienda leader nella produzione di attrezzi per lo sport e il tempo libero (http://www.technogym.com/it/). Il programma ha selezionato 5 startup, ciascuna delle quali ha ricevuto un finanziamento di 80 mila euro suddivisi in liquidità, supporto manageriale e altri servizi per sviluppare un’idea innovativa nel settore wellness. Per H-‐Farm e Venture Accelerator la collaborazione con un’impresa benchmark come Technogym comporta una riduzione del rischio nel finanziare e supportare la startup. La presenza del partner di settore consente, infatti, di valutare la validità delle proposte con maggiore competenza grazie alla prospettiva del potenziale utilizzatore del prodotto/servizio.
è un’attinenza settoriale tra le corporation e le startup finanziate. Nel primo caso l’impresa intende effettuare una diversificazione della propria offerta in un settore integrato (turismo), mentre nel secondo la società Technogym investe in imprese più piccole per sondare mercati emergenti ma facenti comunque parte del comparto wellness.
Risulta evidente che, affinché l’investimento abbia maggiore probabilità di successo, è preferibile che startup e impresa che la finanzia conducano la propria attività nello stesso campo. Nel caso contrario vi sarebbero notevoli difficoltà, che riguarderebbero i seguenti aspetti: l’integrazione dell’innovazione prodotta dalla startup nel processo produttivo della corporation, l’elaborazione della nuova offerta di prodotti/servizi al pubblico, il controllo dell’attività della startup di cui vengono acquisite le quote societarie. A riprova della bontà di questa affermazione, si riportano i risultati di uno studio condotto da Gompers e Lerner su un database contenente oltre 32.000 operazioni di investimento di fondi di CVCF. Essi hanno dimostrato che gli impieghi effettuati in startup operanti nello stesso campo dell’impresa investitrice hanno uguale probabilità di successo di arrivare al mercato rispetto ad un investimento effettuato da un VC, mentre hanno una probabilità di successo minore in assenza di corrispondenza di business tra le due imprese (Gompers & Lerner, 1997, pagine 1-‐48).
La multinazionale Enel S.P.A., ad esempio, finanzia startup in un settore strategico e correlato con la propria attività caratteristica: le tecnologie verdi. Ernesto Ciorra, head of innovation and sustainability dell’azienda, a tale proposito afferma: “coinvolgiamo attori esterni nel processo di innovazione, tra i quali le startup. Ci aiutano a pensare diversamente e ad essere più veloci nel realizzare in maniera diversa le cose che noi non riusciamo a fare. È come se una persona con mani molto grandi cercasse di digitare su tasti molto piccoli senza riuscirci: ha bisogno di farsi aiutare da una persona con mani più piccole” (Digital 4 Executive, 2015).
CAPITOLO 2. POLITICA PUBBLICA LOCALE A SUPPORTO DELLE
STARTUP
Questo capitolo introduce il tema dell’intervento pubblico locale teso a favorire la nascita e lo sviluppo di startup.
Dapprima verrà presentato il concetto di ecosistema innovativo, ovvero un ambiente favorevole alla proliferazione di startup in cui tutti gli attori (imprese, università, enti pubblici…) collaborano per creare innovazione.
Non è possibile stabilire una delimitazione territoriale dell’ecosistema innovativo; il termine può essere utilizzato per fare riferimento ad un’intera nazione o ad alcune aree della stessa. In questo capitolo ci si concentrerà sulla dimensione locale dell’ecosistema innovativo e sulle politiche pubbliche implementate al fine di trasformare dei territori in ambienti ospitali per la nascita di startup. In particolare verranno analizzati i distretti tecnologici, specifiche categorie di ecosistemi innovativi che utilizzano tecnologie avanzate e sono sovente specializzati in determinati campi scientifici. Lo scopo è di tracciare, grazie a contributi provenienti dalla letteratura (Waits, Kahalley e Heffernon) e da studi di settore (fondazione Cotec) delle linee guida che gli enti pubblici locali dovrebbero seguire per trasformare dei territori in distretti tecnologici. Saranno successivamente presentati due casi di distretti tecnologici di successo italiani, Imast e Torino Wireless, nati grazie all’iniziativa pubblica; nello specifico si osserverà se e in che misura le linee guida teorizzate vengono adottate nella governance dei distretti analizzati.
2.1 L’IMPORTANZA DELL’ECOSISTEMA PER LO SVILUPPO DELLE STARTUP
Il capitolo 1 è volto allo studio degli attori economici che si interfacciano con le startup per quanto riguarda il cruciale aspetto del finanziamento. Questo paragrafo consentirà al lettore di avere un quadro più completo sulle relazioni che la startup intrattiene con molteplici soggetti, che fanno parte dell’ecosistema nel quale essa opera. L’ecosistema comprende tutti gli
stakeholders che si rapportano con la startup (non solo a titolo di
finanziamento) quali clienti, fornitori, concorrenti, università, centri di ricerca, soggetti istituzionali e più in generale il tessuto economico e il mercato che caratterizzano il contesto in cui l’impresa è inserita.
La presenza di condizioni favorevoli all’imprenditorialità sono fondamentali per determinare non solamente il successo delle startup, ma la loro nascita e sopravvivenza. È infatti risaputo che paesi dove sono presenti fattori quali la disponibilità di input produttivi, costi bassi di produzione, la possibilità di accedere a know-‐how e capitale umano qualificato, la tassazione favorevole, la burocrazia non opprimente, costituiscono ambienti ideali dove avviare un’iniziativa imprenditoriale. La ricerca di queste condizioni spinge molti imprenditori ad abbandonare i loro paesi di origine e migrare in luoghi in cui fare business è più facile. In quest’ottica, facendo riferimento alle imprese tradizionali, si parla di delocalizzazione, che consiste nello spostamento del solo apparato produttivo in paesi dove è possibile ottenere input a basso costo. Per le startup il concetto di delocalizzazione non è appropriato in quanto non si sostanzia nel trasferimento all’estero del solo apparato produttivo, ma dell’intera sede sociale e delle risorse umane. Si può desumere che per la startup non conti solamente la possibilità di produrre a basso costo, beneficiare di una fiscalità più favorevole o di una burocrazia snella. La scelta di insediarsi in un luogo specifico è determinata da fattori molto più complessi, quali le relazioni che essa qui può costruire. In un contesto economico incerto e dinamico come quello attuale, infatti, l’impresa non può emergere solamente grazie alle proprie doti. Per tale motivo sta emergendo un nuovo schema
competitivo, detto network-‐based, in cui concorrono sistemi di imprese e non singole imprese.
Il primo a fare riferimento al concetto di ecosistema nel linguaggio economico (il termine ha origine nella biologia) è stato Moore (1993), il quale lo definisce una comunità in cui le imprese non competono come soggetti singoli (stand-‐
alone) ma al contrario cooperano tra loro al fine di creare innovazione e
accrescere il valore del network. In quest’ottica, indipendentemente dalle potenzialità e dalla forza della singola impresa, tutti gli attori che compongono il sistema sono tra loro connessi e ne condividono i risultati. Il fine del network è fornire beni e servizi di valore ai clienti, i quali a loro volta ne fanno parte. A tale proposito si aggiunge che l’ecosistema non è formato solamente da imprese, ma da diversi stakeholders, tra cui clienti, fornitori, sindacati, amministrazioni pubbliche, organi regolatori (Moore, 1993, 2006).
Alla luce delle considerazioni fatte, si deduce che per Moore il business
ecosystem rappresenta il modello competitivo che consente di rispondere alle
sfide dell’economia moderna: reagire prontamente ai cambiamenti e all’incertezza e proporre soluzioni innovative e di valore ai clienti. Come in natura il sistema si ricompone e si struttura nel modo migliore per effetto dei cambiamenti esogeni che deve affrontare, così anche in economia gli
stakeholders, attraverso le relazioni e la cooperazione, reagiscono prontamente
alle sfide poste dal mercato.
È importante sottolineare, facendo riferimento alle startup, che il modello di ecosistema innovativo teorizzato da Moore presenta dei limiti. Ai fini della determinazione dell’attrattività di un territorio per le startup non è sufficiente che gli attori presenti nel sistema cooperino ed instaurino delle relazioni proficue nell’ottica di creare prodotti di valore per il cliente. Ciò che spinge le nuove imprese ad insediarsi in un determinato territorio è dato da un insieme di elementi eterogenei favorevoli, quali la cultura, la presenza di soggetti finanziatori, il rapporto proficuo con la pubblica amministrazione, l’accesso a capitale umano qualificato e know-‐how, fattori che non vengono originati dalle relazioni tra gli attori mossi da una finalità meramente produttiva, ma sono il frutto di un progetto più ampio. L’impegno dell’ecosistema, per poter eccellere come catalizzatore di startup, deve avvenire su diversi fronti, non solamente
produttivo ma anche culturale, educativo, di ricerca, normativo; in altre parole su tutti gli ambiti che contribuiscono al progresso.
Gli elementi su cui fare leva, per rendere un territorio attrattivo per le startup, sono le caratteristiche intrinseche del territorio stesso (Caroli, 2012, pagina 18). Nel prosieguo della trattazione ci si chiede quale può essere il ruolo dell’apparato pubblico nello sviluppo degli ecosistemi, il quale consiste, in linea con quanto affermato da Caroli, nell’individuazione dei fattori di successo inesplorati insiti nel territorio e nella valorizzazione degli stessi ai fini di attirare specifiche attività economiche.
Tale azione costituisce l’aspetto più prettamente territoriale dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, che discende da un piano progettato a livello nazionale di tipo macro-‐economico e normativo.
Nel paragrafo successivo ci si concentrerà sulla strategia pubblica di valorizzazione territoriale ed in particolare sul distretto tecnologico per poi ampliare la visione alla strategia macro-‐economica, in modo da delineare un quadro generale sulle diverse espressioni dell’intervento pubblico a sostegno dello sviluppo delle startup.
2.2 L’INTERVENTO PUBBLICO TERRITORIALE A SOSTEGNO DELLE