Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex
D.M. 270/2004)
in Marketing e Comunicazione
Tesi di Laurea
Politiche pubbliche a sostegno
delle startup come fattore critico di
successo
Modelli a confronto
Relatore
Ch. Prof. Giuseppe Marcon
Laureanda
Francesca Clemen
Matricola 821457
Anno Accademico
2015 / 2016
INTRODUZIONE ... 5
CAPITOLO 1. STARTUP: ASPETTI GENERALI ... 8
1.1 DEFINIZIONE DEL FENOMENO STARTUP ... 9
1.2 LA FINANCIAL HIERARCHY DELLA STARTUP ... 17
1.3 IL CICLO DI VITA DI UNA STARTUP E I FINANZIATORI ASSOCIATI AI DIVERSI STADI ... 25
1.4 CORPORATE VENTURE CAPITAL: LE MULTINAZIONALI ACQUISISCONO LE STARTUP PER INNOVARE ... 35
CAPITOLO 2. POLITICA PUBBLICA LOCALE A SUPPORTO DELLE STARTUP ... 40
2.1 L’IMPORTANZA DELL’ECOSISTEMA PER LO SVILUPPO DELLE STARTUP ... 41
2.2 L’INTERVENTO PUBBLICO TERRITORIALE A SOSTEGNO DELLE STARTUP ... 44
2.2.1 I DISTRETTI TECNOLOGICI ... 47
CAPITOLO 3. LO SCENARIO ECONOMICO IN ITALIA E GLI INTERVENTI PUBBLICI A SOSTEGNO DELLE STARTUP ... 59
3.1 IL CONTESTO ECONOMICO ITALIANO ... 60
3.2 L’INDUSTRIA DELLE STARTUP IN ITALIA ... 69
3.3 INTERVENTI PUBBLICI A FAVORE DELLE STARTUP ... 77
3.3.1 LA NORMATIVA DEDICATA ALLA STARTUP INNOVATIVA ... 78
3.3.2 INTERVENTI DI POLITICA PUBBLICA A FAVORE DELLE IMPRESE PRIMA DEL 2012 ... 84
CAPITOLO 4. L’ECOSISTEMA INNOVATIVO ISRAELIANO E LE POLITICHE PUBBLICHE A
SUPPORTO DELLE STARTUP ... 95
4.1 BREVE INTRODUZIONE ALL’ECONOMIA E ALLA STORIA DI ISRAELE ... 97
4.2 LA POLITICA PUBBLICA ISRAELIANA A SOSTEGNO DELLE STARTUP ... 106
4.2.1 LE INIZIATIVE DELL’OCS CHE PROMUOVONO LA R&S NEL SETTORE PRIVATO ... 107
4.2.2 IL PROGRAMMA DEGLI INCUBATORI TECNOLOGICI PUBBLICI (PTIP) ... 112
4.2.3 IL PROGRAMMA YOZMA ... 115
4.2.4 I PUNTI DI FORZA DELLA POLITICA PUBBLICA ISRAELIANA ... 117
CONCLUSIONE. COSA SI PUÒ IMPARARE DAL MODELLO ISRAELIANO? ... 120
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA ... 126
INTRODUZIONE
Questo elaborato desidera puntare l’attenzione sulle misure di politica pubblica attuate a sostegno delle startup e dell’innovazione in Italia e in Israele.
La scelta di approfondire il fenomeno delle startup nasce dalla considerazione del ruolo che questa innovativa forma imprenditoriale sta assumendo nella società e nell’economia. Le startup vengono raffigurate come un nuovo modello economico che rappresenta una possibile evoluzione del paradigma economico esistente.
L’innovazione, infatti, di cui le startup sono l’espressione imprenditoriale, può costituire la via di sviluppo futura di sistemi economici ormai superati. In paesi come l’Italia, la cui posizione di leadership è stata indebolita dalle economie emergenti, il fenomeno delle startup desta particolare interesse. Questa tesi nasce con l’intento di proporre una panoramica sul mondo delle startup, sottolineando le diverse sfumature che questa new-‐economy sta assumendo in relazione ai paesi di appartenenza.
Si è scelto di confrontare gli ecosistemi innovativi di Italia e Israele in quanto sono due nazioni in cui il concetto di innovazione ha storicità e valenza economica differenti. In Italia, come si vedrà, il fenomeno delle startup è nuovo e parzialmente inesplorato, non ancora integrato nel sistema produttivo. Il paese si sta aprendo ora a questo nuovo mondo, in reazione alla crisi del paradigma economico tradizionale. L’economia di Israele, invece, è nata con l’innovazione e la tecnologia, di cui le startup sono la rappresentazione. Lo Stato, consapevole della mancanza di risorse naturali, ha costruito l’identità di Israele sulla scienza e sulla tecnologia.
Alla luce delle considerazioni fatte finora si può affermare che per entrambi i paesi l’innovazione ha rappresentato, seppure in epoche diverse, la via del progresso.
Particolare attenzione sarà dedicata nel corso della trattazione al ruolo delle politiche pubbliche implementate in Italia e in Israele a sostegno
dell’innovazione. Lo scopo dell’analisi è tracciare le caratteristiche delle strategie politiche elaborate negli anni nei due paesi, per poi confrontarle. Da questa comparazione si desumerà che la politica israeliana, di successo, può rappresentare una fonte di ispirazione per migliorare l’azione politica italiana orientata all’innovazione.
Questa tesi si pone l’obiettivo di identificare, grazie allo studio dell’intervento governativo israeliano attuato sin dalla fondazione dello stato (1948), un modello politico di successo che possa essere efficacemente replicato in altri contesti.
Si specifica che non si ipotizza che i programmi pubblici attuati in Israele siano ovunque perfettamente riproducibili, poiché vi sono delle variabili endogene (condizioni sociali, economiche, culturali) che influenzano i risultati.
Il modello politico israeliano verrà studiato per astrarne la logica di fondo, che può essere adottata dai governi di altri paesi.
In estrema sintesi, l’obiettivo della trattazione è identificare delle best-‐practices di politica pubblica a sostegno delle startup e dell’innovazione. A tale fine saranno presi a modello non tanto i singoli programmi politici israeliani, ma i principi-‐base che hanno ispirato e tutt’ora guidano la politica pubblica in Israele.
Si elencano brevemente i temi trattati capitolo per capitolo:
-‐ Nel primo capitolo si proporrà un’introduzione al fenomeno delle startup. Verranno affrontate tematiche quali la definizione dell’impresa startup, le problematiche legate al finanziamento, le fasi del ciclo di vita della startup e gli investitori ad esse associati.
-‐ Nel secondo capitolo verrà descritto il ruolo dello Stato nel promuovere lo sviluppo delle startup. Ci si focalizzerà sulla dimensione territoriale dell’intervento governativo; particolare attenzione verrà dedicata al concetto di ecosistema, ovvero l’insieme di attori che si interfacciano con le startup e influiscono nel loro sviluppo. Verrà approfondito il tema del distretto tecnologico, una configurazione che può assumere l’ecosistema.
-‐ Nel terzo e quarto capitolo si amplierà la visione sull’intervento pubblico statale a sostegno dell’innovazione dalla dimensione locale alla dimensione nazionale. A tale proposito saranno analizzate le politiche pubbliche implementate in Italia e in Israele, al fine di confrontarle.
Il capitolo 3, in particolare, si aprirà con la descrizione dell’economia italiana e dell’industria delle startup, per poi descrivere gli interventi governativi attuati ante e post 2012 (anno in cui l’impresa startup viene riconosciuta giuridicamente).
Verrà adottata la stessa logica espositiva nel capitolo 4, al fine di descrivere l’ecosistema innovativo israeliano. Nello specifico verranno studiati i progetti di maggior successo implementati dallo Stato israeliano.
CAPITOLO 1. STARTUP: ASPETTI GENERALI
In questo primo capitolo si vuole fornire una visione generale sul fenomeno delle startup, in particolare sull’aspetto legato al loro finanziamento.
Il primo paragrafo è volto all’approfondimento della definizione dell’impresa startup. Nello specifico verranno riportate le opinioni provenienti da diverse fonti (ordinamento giuridico ed esperti del settore) su cosa significhi il termine; ciascun parere coglie un aspetto parziale del fenomeno. Scopo principale è individuare dei filoni di opinione prevalenti e delle correnti di pensiero minori, al fine di dare una definizione il più possibile esaustiva.
Verrà poi affrontato il problematico aspetto del finanziamento, essenziale per la nascita e la sopravvivenza dell’impresa startup. Dapprima verranno enumerate le fonti a cui la startup può ricorrere, le quali sono ordinate, in base a parametri di accessibilità e di convenienza economica, in ordine gerarchico. La gerarchia delle fonti di finanziamento delle startup verrà poi confrontata con quella delle imprese tradizionali; la comparazione metterà in luce le specifiche esigenze finanziarie delle startup, che differiscono da quelle delle imprese consolidate. Tale aspetto verrà indagato grazie all’individuazione puntuale delle diverse fasi del ciclo di vita delle startup, con particolare focus sui livelli di rischio e di fabbisogno finanziario associati a ciascuno stadio. L’osservazione delle esigenze finanziarie delle startup dalla loro nascita all’approdo al mercato ci condurrà allo studio degli investitori di private equity che ne assistono lo sviluppo dal punto di vista finanziario e manageriale: business angels (BA), incubatori e
venture capitalists (VC). Una fonte di finanziamento alternativa a quelle citate è
il corporate venture capital financing (CVCF), all’approfondimento del quale, date le particolarità ed i risvolti strategici, verrà dedicato un paragrafo.
1.1 DEFINIZIONE DEL FENOMENO STARTUP
L’imprenditorialità innovativa suscita da molti anni l’interesse degli studiosi e dei policy makers, poiché rappresenta un importante motore di sviluppo per i territori, nonché una indubbia fonte di occupazione.
La crisi del paradigma economico dei paesi più sviluppati ed in special modo dell’Italia costringe a ripensare al modello industriale esistente, riqualificandone prodotti e servizi nell’ottica di un maggiore valore aggiunto. Questa trasformazione verso una cosiddetta “terziarizzazione dell’economia” spinge sia le imprese consolidate sia le startup ad essere innovative, per poter competere nei mercati domestici, ma soprattutto su quelli esteri.
Stefano Micelli, presidente della fondazione Nordest, afferma che è fondamentale per una terza rivoluzione industriale creare valore saldando insieme ricerca, design e cura del cliente, ripartendo così dal capitale umano e da una manifattura digitale capace di interconnettere tradizione, cultura e innovazione tecnologica (Frau, 2015). I cardini della terziarizzazione ricordata da Micelli sono: l’orientamento al cliente, l’internazionalizzazione e la qualità del capitale umano impiegato. L’industria delle startup viene studiata non alla stregua di un fenomeno nascente, parallelo e marginale rispetto alle imprese consolidate, bensì come il futuro dell’economia e del management strategico d’impresa, tanto che un’importante multinazionale come la General Electric ha annunciato di voler diventare la più grande startup al mondo (Clough, 2014). Non è semplice fornire una definizione univoca ed esaustiva di startup. La demarcazione risulta (inevitabilmente) influenzata dalle diverse concezioni soggettive, nonché dai sistemi economici nei quali l’impresa nasce e si sviluppa. In Italia l’implementazione di una politica pubblica rivolta a sostenere l’innovazione e le startup è un fenomeno piuttosto recente, mentre in Israele è avvenuta sin dalla nascita dello stato. Questa divergenza emerge con chiarezza analizzando gli ordinamenti giuridici dei due paesi, in particolare la definizione di startup.
In Israele non sono previsti provvedimenti specifici per le startup, né contratti semplificati dedicati a società con basso capitale iniziale. Il capitale minimo per
costituire una società a responsabilità limitata è però 0,23 $ (Ministero dello Sviluppo Economico, 2012). Si può presupporre da questi pochi dati che, a differenza dell’ordinamento giuridico italiano, quello israeliano sia nella sua interezza più favorevole alla costituzione di nuove imprese e business-‐oriented. In Italia, invece, solo dall’anno 2012 è presente un corpus normativo dedicato alle startup. Il report “Restart Italia” (Ministero dello Sviluppo Economico, 2012) realizzato da una task-‐force di 12 esperti nei settori del giornalismo, della pubblica amministrazione, dell’impresa e del venture capital financing per identificare delle misure a favore dell’imprenditorialità innovativa in Italia, definisce startup le imprese che soddisfano queste condizioni:
1) sono detenute direttamente o almeno al 51% da persone fisiche, anche in termini di diritti di voto;
2) svolgono attività di impresa da un periodo non superiore a 48 mesi;
3) hanno un fatturato non superiore ai 5 milioni di euro, come risultante dall’ultimo bilancio approvato;
4) non distribuiscono utili;
5) hanno quale oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi, ad alto valore tecnologico;
6) si avvalgono di una contabilità trasparente.
Successivamente, il decreto legge 179/2012, noto anche come “Decreto Crescita 2.0”, recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese” e convertito dal Parlamento con legge del 18 dicembre 2012 n. 221, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano una definizione di startup. Nello specifico, il governo ha recepito le condizioni formulate dal report Restart Italia ed ha introdotto ulteriori presupposti secondo i quali le imprese possono essere definite startup, ovvero:
7) conducono attività di ricerca e sviluppo, quantificabile nel 15% (valore minimo) del maggiore tra fatturato e costi annui;
ricerca o ricercatori, oppure per almeno 2/3 da soci o collaboratori a qualsiasi titolo in possesso di laurea magistrale;
9) sono titolari, depositarie o licenziatarie di un brevetto registrato (privativa industriale) oppure titolari di programma per elaboratore originario registrato.
In estrema sintesi, secondo la legge si tratta di imprese di recente costituzione, a basso fatturato, la cui attività caratteristica ha una forte componente tecnologica. Si è di fronte ad una definizione tanto tecnica quanto restrittiva nel circoscrivere le imprese che possono qualificarsi startup alla luce di una trattazione come questa, che studia il fenomeno nella sua globalità e non in termini prettamente giuridici.
Il punto 5 delle condizioni introdotte dal Decreto Crescita 2.0 stabilisce che il prodotto dell’impresa startup deve essere ad elevato valore tecnologico. S’intende dimostrare che questo requisito non si rivela fondamentale ai fini dell’individuazione delle startup alla luce delle argomentazioni di autorevoli attori economici che hanno esperienza diretta nel settore, come imprenditori o VC, che ritengono le condizioni poste dall’ordinamento giuridico troppo restrittive ai fini dell’identificazione di una startup. Le norme, infatti, escludono imprese che secondo molti hanno un elevato potenziale per essere classificate tali. Le opinioni degli esperti di settore evidenziano altre caratteristiche che paradossalmente non vengono menzionate nella normativa italiana.
Una delle fonti dottrinali più autorevoli sulla teoria delle startup è il contributo di Steve Blank, docente alla Harvard Business University ed ideatore del famoso metodo lean startup, secondo cui lo sviluppo della startup avviene secondo un processo learning-‐by-‐doing. Secondo questo approccio, le startup che predispongono un business-‐plan per avere un indirizzo strategico falliscono, mentre sopravvivono quelle che modificano continuamente e tempestivamente il prodotto/servizio offerto in base al feedback del pubblico. In quest’ottica, la crescita di una startup avviene grazie all’adozione di un approccio di miglioramento continuo.
Inoltre, secondo Blank, una startup per definirsi tale deve avere un modello di business ripetibile e scalabile. Un modello ripetibile sottintende una formula imprenditoriale che applicata in qualsiasi contesto produce determinati
risultati. In altre parole, un modello è ripetibile se in esso si può trovare una relazione causa-‐effetto universalmente riproducibile: se come conseguenza di un comportamento X, vi è con certezza ed indipendentemente dalle condizioni di contesto un risultato Y.
Un modello di business scalabile presenta un’attività replicabile e potenzialmente con un aumento esponenziale di giro d’affari. Il termine “scalabile” può essere assimilato al concetto di economie di scala, secondo cui vi è una relazione inversamente proporzionale tra scala produttiva e costo medio unitario di produzione. Tuttavia, nelle startup la locuzione di economie di scala si applica in modo diverso rispetto all’industria tradizionale: non si tratta di una relazione dimensione dell’impianto produttivo-‐costo medio unitario di produzione ma un rapporto numero di utenti del prodotto/servizio-‐costo medio unitario di produzione. Di conseguenza, come verrà approfondito in seguito, una startup il cui prodotto-‐servizio si diffonde rapidamente tra gli utenti riesce a sopravvivere nel mercato in quanto ammortizza i costi fissi sostenuti in fase di avvio dell’attività.
Una teoria molto simile a quella di Blank nei contenuti viene affermata da Paul Graham, saggista, imprenditore e co-‐fondatore di una nota azienda specializzata nel lancio delle startup, il quale le definisce società progettate per crescere in fretta: “A startup is a company designed to grow fast. Being newly founded does not in itself make a company a startup. Nor is it necessary for a startup to work on technology, or take venture funding, or have some sort of ‘exit’. The only essential thing is growth. Everything else we associate with startups follows from growth” (Graham, 2005).
L'elemento “velocità” assume, a parere di questo esperto, una valenza determinante, mentre fattori quali l’“attrattività” dell’impresa nei confronti di potenziali finanziatori, la recente costituzione, la connotazione tecnologica del prodotto sono secondari. Si può notare come la potenzialità di crescita, fortemente sostenuta da Graham, sia sinonimo della caratteristica definita da Blank “scalabilità”. Oltretutto, Graham cataloga come secondarie le condizioni di recente costituzione e valenza tecnologica dei prodotti, che invece sono considerate necessarie secondo la legge italiana.
non deve per forza avere connotazione tecnologica ma può anche riguardare fattori organizzativi, di processo o di marketing.
Considerato quanto detto finora, è rilevante citare anche l’opinione di un imprenditore italiano, Alessandro Bruzzi, che riprende le definizioni sopra riportate facendo riflettere su un presupposto fondamentale necessario al successo della startup, ovvero la soddisfazione di un bisogno comune e generalizzato. Il fondatore di Yoodeal (portale che raggruppa tutte le offerte d’acquisto dei siti più accreditati in base al luogo geografico), infatti, sostiene che una business idea di successo dovrebbe riuscire a rispondere ad un bisogno comune e insoddisfatto, recepire nuovi usi e costumi e si dovrebbe tradurre in un prodotto con delle caratteristiche distintive e di facile uso e accessibilità (Gulizia, 2012). Nella definizione di Bruzzi si ritrovano parzialmente, come già sottolineato, le opinioni di Blank e Graham: una startup può crescere velocemente e può essere scalabile se propone prodotti/servizi che incontrano i gusti e le esigenze di molte persone. Si può affermare che il requisito che deve avere una startup secondo Bruzzi rappresenta una precondizione necessaria ai requisiti posti a loro volta da Blank e Graham.
Segue la stessa linea tracciata dai tre imprenditori citati George Zachary, partner di Mohr Davidow Ventures, investitore finanziario di riferimento. Nel corso di un’intervista rilasciata al “Start Up Grind” di San Francisco nel 2012, il consulente ha portato all’attenzione del pubblico un’ulteriore caratteristica, che secondo lui un’impresa deve imprescindibilmente possedere per ricevere dei finanziamenti: la “leadership”. Zachary, infatti, decide di investire in un’azienda se essa è situata in una categoria di importanza rilevante e ha le potenzialità di diventare leader di settore (Andersen, 2012). Si può immaginare che Zachary, nel determinare le potenzialità di leadership di un’impresa, faccia delle considerazioni molti simili a quanto riportato in merito al pensiero degli altri imprenditori.
Un caso reale di successo in cui sono facilmente riconoscibili le caratteristiche enunciate finora è WhatsApp (https://www.whatsapp.com/?l=it), applicazione di messaggistica istantanea via Internet che rende la comunicazione più economica ed immediata rispetto alla messaggistica tradizionale via SMS.
Whatsapp può essere definita una startup con capacità di crescita esponenziale e scalabile visto che a soli 7 anni dalla fondazione, l’app viene utilizzata da un miliardo di persone (https://blog.whatsapp.com/?l=it&set=yes). Inoltre, è senza dubbio leader di settore, dato che la massa critica di utenza raggiunta in poco tempo ha scoraggiato l’ingresso nel mercato di eventuali concorrenti. Inoltre, viene soddisfatta l’altra condizione enunciata da Zachary per determinare la leadership, ovvero l’occupazione di una categoria di mercato significativa; il settore della messaggistica via Internet su dispositivo mobile è in rapida espansione e va di pari passo con la diffusione del cellulare tra i consumatori. Whatsapp possiede un’altra caratteristica, presentata da Bruzzi: la soddisfazione di un bisogno insoddisfatto. Al momento del lancio non esisteva sul mercato un prodotto simile, ovvero un servizio di messaggistica via Internet gratuito, privo di pubblicità e rispettoso della privacy (al momento della registrazione al servizio viene richiesto solamente il numero di telefono). La gratuità e il rispetto della privacy erano caratteristiche ricercate da moltissime persone; il fatto che l’applicazione abbia raggiunto velocemente la massa critica di utenza ne costituisce senza dubbio la prova.
Dopo aver riportato le opinioni di chi ha esperienza diretta nell’industria delle startup, è possibile osservare che vi è una notevole differenza tra la concezione giuridica di startup e la concezione empirica.
Il Ministero dello sviluppo economico, nel determinare i presupposti secondo cui un’impresa può essere definita startup, non include i concetti di crescita, scalabilità, ripetibilità, leadership. La riflessione che si può fare in merito consiste nel fatto che le caratteristiche in oggetto sono difficilmente misurabili. Per poter circoscrivere con precisione i destinatari di specifici strumenti, agevolazioni nonché finanziamenti è necessario definire dei requisiti che possano essere verificabili in modo oggettivo.
L’ex ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi, rileva un’altra caratteristica fondamentale di una startup: l’eterogeneità del team. Nella “Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della normativa a sostegno delle startup e delle PMI innovative”, il ministro definisce la startup: “una nuova impresa innovativa che, per definizione, aspira a crescere rapidamente, non si accontenta di un mercato locale, ma è trainata da una forte vocazione
internazionale, si fonda su un team dotato di competenze eterogenee, ha una forte spinta verso l’innovazione, e cresce non con l’improvvisazione, ma secondo un processo di pianificazione strutturato e continuo”. (Ministero dello Sviluppo Economico, 2014). In questa definizione si rinvengono alcuni elementi già nominati: la crescita esponenziale, la scalabilità e la ripetibilità (un processo di pianificazione strutturato), sono invece nuovi l’eterogeneità delle competenze del team e la vocazione internazionale dell’impresa. Si può osservare che la normativa italiana non menziona questi aspetti nel circoscrivere le startup tra le imprese.
Per quanto concerne il capitale umano, nella sezione del Codice Civile dedicato alle startup è riportato solamente questo requisito: “la forza lavoro complessiva
è costituita per almeno 1/3 da dottorandi, dottori di ricerca o ricercatori, oppure per almeno 2/3 da soci o collaboratori a qualsiasi titolo in possesso di laurea magistrale”.
La normativa pone l’attenzione solamente sul titolo di studio dei membri che compongono il team dell’impresa, tralasciando il concetto di eterogeneità delle competenze. Secondo l’ordinamento giuridico italiano perciò imprese con forza lavoro costituita ad esempio da 9 persone, di cui 4 non sono laureati magistrali, non possono essere considerate startup.
Dalla presente analisi emergono elementi che caratterizzano le startup accettati sia dalla comunità scientifica che dai policy-‐maker. Restano delle discrepanze in un contesto in cui le definizioni servono più a limitare i campi d’intervento pubblico piuttosto che ad esaltare le doti e le caratteristiche più interessanti di queste aziende.
In merito al tema-‐fulcro della trattazione, che consiste nel confronto tra Italia ed Israele, è interessante sottolineare che in Israele tecnologia e startup sono due elementi indivisibili. Gli investimenti fatti nell’industria militare per migliorarne l’apparato tecnologico hanno prodotto delle innovazioni che poi sono state impiegate anche nella società civile. Da queste sono nate molte iniziative imprenditoriali, startup dal core-‐business high-‐tech.
Sin dagli anni 1970 lo Stato ha incentivato le imprese ad investire in ricerca e sviluppo (R&S) attraverso programmi di finanziamento specifici ed ha promosso la collaborazione tra università, centri di ricerca e imprese stesse. La
connotazione fortemente tecnologica delle startup israeliane viene confermata dalle affermazioni di Dan Sanor e Saul Singer, autori di “Startup Nation” (2009) e da Yigal Erlich, fondatore dei due programmi più importanti e di successo della strategia pubblica israeliana nel promuovere l’innovazione: Yozma ed il programma pubblico degli incubatori tecnologici (public technological incubator
program, PTIP), che verranno successivamente approfonditi. Sanor e Singer
sottolineano il ruolo fondamentale dell’apparato militare nel progresso tecnologico del paese: “The large amount of R&D spending deployed to solve
military problems through high technology (including in voice recognition, communications, optics, hardware, software, and so on) has helped the country jump-‐start, train, and mantain a civilian high-‐tech sector” (Sanor & Singer, 2009, pagina 110).
Erlich evidenzia che negli anni 1990 il paese presentava già un’infrastruttura tecnologica consolidata, ma mancavano i finanziatori che permettessero alle imprese di concretizzare le innovazioni tecnologiche in prodotti e servizi commercializzabili: “In the early part of the 90’s, there was no VC in Israel. There was technology infrastructure, and there were companies that tried but didn’t succeed” (Weitz, 2015). Si può notare che, contrariamente alle teorie finora considerate (Blank, Graham, Bruzzi, Zachary), ciò che è rilevante nelle startup israeliane è la forte componente tecnologica dei prodotti/servizi sviluppati. La storia economica di Israele, infatti, è caratterizzata da anni di investimento in R&S che hanno portato alla nascita di imprese innovative e tecnologiche.
Da questi diversi contributi è possibile ora giungere ad una definizione esaustiva di startup che ingloba punti di vista differenti: “Un’impresa di recente costituzione, di piccole dimensioni, ad alto potenziale di crescita, che sviluppa e commercializza prodotti e/o servizi che soddisfano bisogni comuni e condivisi, spesso innovativi dal punto di vista tecnologico”.
1.2 LA FINANCIAL HIERARCHY DELLA STARTUP
Nel rapporto sull’innovazione della Commissione Europea formulato nel 1995 ed ancora attuale è contenuta la seguente affermazione: “Il finanziamento è l’ostacolo all’innovazione più frequentemente citato dalle imprese di qualsiasi grandezza, in tutti gli stati membri dell’Unione e in tutti i settori” (Commissione Europea, 1995, pagina 5). La mancanza di fondi per poter realizzare innovazione è un problema universamente sentito, da imprese di diversa grandezza e settore di appartenenza.
In questo paragrafo verranno approfondite, in modo non esaustivo data la vastità dell’argomento, le problematiche legate al finanziamento che portano a definirlo in molti casi, come dalla Commissione Europea, “ostacolo all’innovazione”. Particolare attenzione verrà posta al ruolo che assume l’investimento di fondi, e relative complicazioni, nello sviluppo delle startup. Nell’anno 1958 gli economisti Modigliani e Miller formularono il teorema di inefficacia, uno dei primi e più importanti contributi teorici concernenti la struttura finanziaria aziendale. Gli studiosi affermano che le fonti di finanziamento, esterne o interne, sono perfettamente sostituibili laddove vi sia un contesto ideale di informazione perfetta. In un mondo “alla Modigliani-‐ Miller” le imprese considerano tutte le fonti di finanziamento disponibili ugualmente convenienti; valutazioni su fattori quali la liquidità interna o il livello di indebitamento dell’impresa, che potrebbero far propendere per una determinata scelta di finanziamento, non vengono effettuate (Modigliani & Miller, 1958, pagine 411-‐433). Tale teoria è sempre stata esaminata con un certo scetticismo dagli operatori finanziari, in quanto si basa su un assioma secondo cui i soggetti operanti nel mercato (imprese e investitori) sono perfettamente informati. Nonostante la tradizione teorica in economia si fondi sull’ipotesi che gli attori di mercato prendano le decisioni in un contesto di informazione perfetta (ne sono esempi la teoria di A. Smith e il modello di equilibrio economico generale elaborato da K.J. Arrow e G. Debreu
),
gran parte della letteratura più recente (dagli anni 1980) in materia finanziaria sostiene il contrario. L’asimmetria informativa presente tra investitori e imprese vieneassunta come condizione di base dalla letteratura finanziaria moderna e invalida il postulato di Modigliani e Miller. Ora, in un mercato in cui c’è informazione imperfetta è presente una vera e propria gerarchia delle fonti di finanziamento, secondo cui il ricorso all’autofinanziamento è preferito all’indebitamento bancario e quest’ultimo è più conveniente rispetto all’emissione di azioni. I contributi di Myers e Majluf (1984) e di Fazzari, Hubbard e Petersen (1988) fanno parte della letteratura economica che confuta la perfetta sostituibilità tra le fonti di finanziamento e teorizza la gerarchia delle fonti di finanziamento. Secondo Fazzari, Hubbard e Peterson l’ordine gerarchico viene esplicitato dalla curva di offerta di fondi delle imprese cosiddetta “a gradini“ (1988).
Figura 1: Domanda e offerta di fondi e gerarchie di finanziamento. Fonte: Sau (2003)
Nel grafico, l’asse delle ascisse rappresenta le fonti di finanziamento mentre l’asse delle ordinate le fasce di costo associati alle fonti stesse.
D0, D1 e D2 sono i tre livelli di domanda di investimento di un’impresa mentre F0 indica l’autofinanziamento.
I tre segmenti di linea discontinua rappresentano i livelli di costo associati alle tre forme di finanziamento. L’impresa può soddisfare la sua bassa domanda
iniziale di fondi (D0) ricorrendo all’autofinanziamento, poi in corrispondenza di una elevata necessità di fondi (D2) può emettere azioni e ricorrere al mercato dei capitali. I dubbi sulle fonti di finanziamento più opportune sorgono, secondo gli studiosi, nella fase intermedia (D1): una soluzione economicamente conveniente è data da un mix tra autofinanziamento e capitale di debito. Si presume che in corrispondenza di tale livello di bisogno l’impresa abbia esaurito le fonti interne e perciò debba ricorrere ad una fonte esterna, il credito bancario. Essa però non può già emettere azioni, perché non ancora solida. La quotazione in età prematura, infatti, farebbe diminuire il valore delle azioni stesse, perché tale scelta verrebbe percepita negativamente dal mercato (si potrebbe pensare che i manager sopravvalutino l’azienda o che addirittura essa non riesca a reperire finanziamenti).
L’informazione imperfetta rende le fonti di finanziamento interne preferibili alle fonti esterne, poiché queste ultime comportano costi di transazione (costo di ricerca delle controparti), costi necessari ad attutire le asimmetrie informative nascenti tra chi chiede i fondi e chi è disposto a concederli, oltre che problemi di agenzia che sorgono quando il finanziatore esterno non può controllare l’operato del manager d’impresa (Florio, 2003, pagina 5). La gerarchia delle fonti di sostegno finanziario per un’impresa tradizionale, infatti, come illustrato anche nella curva “a gradini”, pone al primo posto:
• l’autofinanziamento, che consiste nel reinvestimento degli utili o nel finanziamento dei soci;
e poi le fonti esterne, in ordine di convenienza economica:
• il credito bancario;
• il ricorso al mercato dei capitali tramite l’emissione di azioni e obbligazioni.
L’autofinanziamento è preferito al credito non solo perché non comporta i costi originati dal ricorso al mercato, ma anche perché il ricorso al debito può erodere le risorse prodotte dall’impresa. È risaputo che i costi finanziari dei prestiti aumentano proporzionalmente al livello di indebitamento; nonostante
ciò il prestito bancario è un passaggio obbligato per le aziende che non hanno dimensioni sufficienti per poter accedere al mercato dei capitali. Le banche svolgono inoltre un importantissimo ruolo di garante nel mercato e producono informazioni sull’impresa finanziata (Stiglitz & Weiss, 1988). In Italia gli istituti di credito condividono, attraverso lo strumento della Centrale dei Rischi (sistema informativo, gestito dalla Banca d’Italia, che raccoglie le informazioni fornite da banche e società finanziarie sui crediti che concedono ai loro clienti, https://www.bancaditalia.it) il rating di ciascuna azienda finanziata. Valutazioni di alto livello semplificano l’accesso ai futuri investimenti. Se le imprese ottengono dei crediti e li ripagano regolarmente significa che sono soggetti affidabili e tale effetto reputazionale fa aumentare i corsi azionari; se ne deduce che l’intervento della banca è precondizione spesso necessaria all’emissione di azioni (Diamond, 1991).
Nel caso delle startup la gerarchia delle fonti di finanziamento considerata per le imprese tradizionali, che vede l’utilizzo del capitale di debito preferito al capitale di rischio, va del tutto rovesciata. Le imprese in oggetto possono ricorrere al finanziamento bancario solo dopo aver ottenuto risorse dagli investitori in capitale di rischio (Sau, 2003, pagina 14); perciò la gerarchia delle fonti di finanziamento è così composta: autofinanziamento, private equity e debito. Per identificare la financial hierarchy di questa tipologia di imprese innovative ad elevato tasso di crescita Berger e Udell hanno coniato il termine
financial growth cycle, il cui concetto di base è che la gerarchia delle fonti di
finanziamento è determinata dal grado di sviluppo dell’impresa (Berger & Udell, 1998). Le startup, così come sono state definite nel paragrafo precedente, a causa della componente fortemente innovativa che caratterizza il loro core-‐
business, affrontano un ciclo di vita contrassegnato da un elevato livello di
rischio. Agli stadi di sviluppo delle startup, che verranno approfonditi nel prossimo paragrafo, corrispondono diversi gradi di rischio e fabbisogno finanziario. La necessità di fondi è originata dai costi fissi che le startup devono sostenere in via principale per il capitale umano ma anche per l’acquisto delle licenze e delle infrastrutture.
I finanziatori tradizionali, come le banche, non hanno le competenze necessarie per riuscire a determinare i ritorni futuri dell’investimento e in aggiunta
richiedono garanzie materiali che generalmente le startup non possiedono. Per gli intermediari finanziari i brevetti, risorsa specifica di cui si avvalgono molte startup, non costituiscono garanzie a tutela del credito concesso a fronte di eventuali procedure concorsuali, in quanto di difficile stima economica. Assumendo che le problematiche inerenti alle garanzie di mercato venissero risolte, il ricorso al credito non rappresenterebbe una scelta conveniente per le imprese stesse. Esse dovrebbero impiegare i flussi di cassa prodotti per ripagare il debito contratto, maggiorato degli interessi in tempi certi e determinati. Così facendo, però, sarebbe esclusa la possibilità di utilizzare la redditività eventualmente generata per autofinanziarsi e per crescere.
Gli intermediari finanziari che concedono credito, a differenza di quelli che investono in capitale di rischio, non detenendo quote aziendali, non vengono coinvolti attivamente nel management della società finanziata. In casi come questo, in cui il finanziatore non partecipa alla definizione della strategia dell’impresa finanziata, può verificarsi il problema di moral hazard. L’imprenditore, infatti, una volta ottenuto l'accesso al credito e raggiunto l'obiettivo di conseguimento di liquidità, potrà mettere in atto comportamenti più rischiosi rispetto a quanto previsto nel progetto presentato all’investitore. D’altra parte, anche l’imprenditore è restio a comunicare troppi dettagli sull’innovazione, per paura di fenomeni imitativi e dispersivi del valore della sua scoperta. Il valore del progetto innovativo diminuisce al crescere della diffusione dell’informazione che lo riguarda (Bhattacharya & Chiesa, 1995; Anton & Yao, 1998).
In estrema sintesi, i costi delle asimmetrie informative a carico del sistema bancario sono elevati, poiché quest’ultimo non dispone generalmente delle informazioni “private” e competenze necessarie, nonché del richiesto orientamento al rischio per investire in imprese, spesso prive di assets da offrire in garanzia e operanti nel campo delle nuove tecnologie (Domenichelli, 2003). Per tali motivi, quando vengono esaurite le fonti interne ed è necessario ricorrere a quelle esterne, le startup preferiscono il private equity market rispetto al debito. Il private equity comprende angel finance, incubatori e VC per citare i più importanti, ovvero investitori che rilevano quote societarie di startup. Gli investitori in oggetto hanno, a differenza delle banche, le
competenze necessarie per valutare il reale livello di rischio dell’attività di una startup, perché conoscono le specificità di questa particolare tipologia di impresa innovativa. L’investitore di private equity inoltre, in quanto detentore di quote societarie, ricopre un ruolo attivo nella definizione della strategia aziendale e ciò gli consente di valutare e monitorare la rischiosità dell’investimento.
La quotazione in borsa dell’azienda finanziata rappresenta una delle modalità con cui il VC o un altro investitore in capitale di rischio smobilizza l’investimento e realizza un guadagno in conto capitale (capital gain). Altre possibilità sono date dal riacquisto delle quote societarie da parte dell’imprenditore (dato spesso dalla mancanza di finanziatori, sintomo di performance negativa) oppure da altri investitori istituzionali come fondi chiusi o intermediari finanziari.
La quotazione in borsa rappresenta la modalità preferita di smobilizzo, segnale di una performance aziendale eccellente. Affinché questa via sia percorribile è necessario che vi sia un mercato azionario efficiente, ovvero fluido e accessibile e che non comporti costi eccessivi per la quotazione. La presenza di un mercato azionario efficiente rappresenta plausibilmente uno stimolo alla nascita di nuove imprese e promuove lo sviluppo di una fiorente industria di VC che è a sua volta condizione favorente l’iniziativa imprenditoriale.
A tale proposito ci si chiede quale sia la strategia migliore per promuovere lo sviluppo di VC. Si valuta in particolare tra le diverse ipotesi se la creazione di segmenti borsistici dedicati alle startup possa essere un fattore incentivante; in questo modo gli investitori potrebbero smobilizzare in tempi brevi l’investimento e beneficiare di margini superiori. Per rispondere a tale quesito, Black e Gilson comparano sistemi di paesi che si differenziano per essere orientati agli intermediari (banche) o al mercato (mercato borsistico): Giappone e Germania sono paesi orientati agli intermediari mentre Stati Uniti e Regno Unito sono orientati al mercato. Gli studiosi giungono alla conclusione che non è la mancanza di un mercato borsistico efficiente a penalizzare lo sviluppo del private equity, ma la causa risiede nella cultura imprenditoriale. In particolare l’approccio tipicamente bancario al finanziamento sfavorisce la nascita di investitori in capitale di rischio (Black & Gilson, 1998).
Applichiamo la teoria di Black e Gilson all’analisi delle industrie di VC presenti Italia e Israele. L’Italia è un paese orientato agli intermediari mentre Israele è orientato al mercato poiché ha una borsa efficiente. In linea con la tesi sostenuta dai due studiosi, si può affermare che Israele è dotato di una vibrante industria di VC grazie non tanto al mercato borsistico efficiente, ma alla sua cultura imprenditoriale. In particolare i programmi pubblici implementati a favore della creazione di un’industria privata di VC sono stati determinanti.
L’Italia, al contrario, non può vantare un’industria privata di VC. Ciò, nell’ottica della teoria di Black e Gilson, è dovuto alla “mentalità bancaria” degli imprenditori; essi propendono per il ricorso al credito perché costituisce una forma di finanziamento più conosciuta rispetto al private equity. Si aggiunge che gli interventi pubblici attuati finora non sono stati efficaci nel cambiare la mentalità imprenditoriale.
Tali assunzioni saranno argomentate nel prosieguo dell’esposizione grazie ad un’analisi più approfondita dei contesti economici e delle politiche pubbliche attuate nei due paesi. Per il momento possiamo affermare che le considerazioni di Black e Gilson trovano conferma nello studio dei due paesi appena citati. Michelacci e Suarez sottolineano che se nel rapporto banca (o VC)-‐imprenditore il primo soggetto ha potere contrattuale più forte e si appropria di maggiore surplus. L’imprenditore avrà così meno risorse per sviluppare il suo progetto innovativo e ritarderà l’entrata in borsa (Michelacci & Suarez, 2004). L’appropriazione del surplus da parte della banca avviene principalmente grazie a due fattori: la relazione di lungo periodo tra banca e impresa e la dipendenza finanziaria dell’impresa dalla banca. In riferimento al primo elemento, la banca ha interesse economico a mantenere relazioni di credito di lungo periodo ma così facendo ostacola lo sviluppo dell’impresa e il ricorso ad altre forme di finanziamento. Per quanto riguarda il secondo fattore, è importante evidenziare che le imprese che dipendono interamente dalle banche sono sottoposte ad un rischio operativo: se il sistema bancario raziona il credito concedibile, le imprese vengono private di risorse fondamentali per l’attività ordinaria e per la crescita.
In questo paragrafo è stato affrontato il tema riguardante le numerose difficoltà che le startup riscontrano nel reperire finanziamenti per la propria crescita. Da questo quadro generale è possibile dedurre, nei limiti delle informazioni elaborate in uno studio parziale del fenomeno, quali vie potrebbero essere percorribili dalle startup nelle scelte relative alle fonti di finanziamento. Innanzitutto si dovrebbe evitare di appellarsi al capitale di debito come prima opzione perché esso ostacola lo sviluppo e l’impiego dei flussi prodotti nella crescita. Inoltre dal rapporto banca-‐startup potrebbero originare numerose incomprensioni, date da background e visioni economiche diverse. La migliore forma di finanziamento di cui le startup dovrebbero avvalersi è data da equity o capitale di rischio, meglio ancora se fornito da investitori professionali come VC che supportano le imprese finanziate anche dal punto di vista manageriale. Da queste ultime considerazioni, è possibile affermare che lo spettro delle fonti di finanziamento a cui un’azienda può ricorrere, prescindendo dalla gerarchia finanziaria che rappresenta un modello, è limitato dalle condizioni economiche e dal livello di sviluppo del mercato borsistico e del private equity del paese di appartenenza.